Se dovrai attraversare il deserto, non temere, Io sarò con te.
Se dovrai camminare nel fuoco, la sua fiamma non ti brucerà.
Seguirai la mia luce nella notte, sentirai la mia forza nel cammino,

io sono il tuo Dio, Signore.
Sono io che ti ho fatto e plasmato, ti ho chiamato per nome.
Io da sempre ti ho conosciuto e ti ho dato il mio amore.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi, vali più del più grande dei tesori,

Io sarò con te dovunque andrai.

San Paolo Apostolo

GIUSEPPE RICCIOTTI

PAOLO APOSTOLO 
 BIOGRAFIA CON INTRODUZIONE CRITICA
II EDIZIONE X MIGLIAIO
(parole ed espressioni in greco omesse)
COPYRIGHT BY G. RICCIOTTI, 1946.
Stampato in stereotipia nella SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO

(In questo articolo è stata omessa tutta l'introduzione, viene esposta solo la parte riguardante la biografia)




BIOGRAFIA (I parte)

LA NASCITA E LA PRIMA GIOVINEZZA

.226. Io sono un uomo giudeo, nato in Tarso della Cilicia (Atti, 22, 3); son queste parole Paolo presenta se stesso alla folla dei Giudei tumultuanti a Gerusalemme contro di lui, ma sono parole che sembrano presentarlo anche al mondo intero. Egli dunque, sebbene giudeo, nacque fuori della terra sacra del giudaismo, la Palestina: nacque fra pagani, nella città cosmopolitica di Tarso (§ 1 segg.), sbocciando però da una di quelle cellule nazionali che la Diaspora giudaica aveva disseminato in quasi tutto il mondo. Ivi egli vide la luce fra gli anni 1 e 5 dell'Era Volgare, ossia nel tempo in cui Gesù viveva a Nazareth ignoto fanciullo e poteva avere dai tre agli otto anni (§ 149).
Contro la nascita di Paolo a Tarso, assolutamente sicura (cfr. Atti, 21, 39; 9, 11), sta l'affermazione di Girolamo, che lo dice nato nella borgata di Ghiscala della Giudea, donde sarebbe emigrato insieme con i suoi genitori a Tarso quando la borgata fu conquistata dai Romani; è poi da notare che Girolamo comunica due volte questa notizia, dapprima con diffidenza presèntandola come una favola (188), più tardi invece senza manifestare dubbi a suo riguardo (189). Ma la notizia, oltre a contraddire alla citata attestazione di Paolo, urta in difficoltà geografiche e cronologiche: Ghiscala, infatti, era una grossa borgata non già della Giudea ma della Galilea settentrionale, e di essa parla sovente Flavio Giuseppe anche perché era di Ghiscala quel Giovanni che fu uno dei principali capi nell'insurrezione anti-romana degli anni 66-70; inoltre, questa Ghiscala fu conquistata da Tito nell'autunno del 67 (Guerra giud.) IV, 84 segg.), ossia quando Paolo era già morto o stava per morire.
Tuttavia può darsi che la notizia contenga una particella di verità, purché sia riferita a tempi anteriori alla nascita di Paolo; è possibile, ad esempio, che il padre di lui sia stato condotto via schiavo dai Romani, quando Quintilio Varo (quello che più tardi diventò la delizia dei Tedeschi per la sua fine a Teutoborgo) devastò nell'anno 4 av. Cr. buona parte della Galilea, sebbene in tale occasione Ghiscala non sia mentovata (Guerra giud., II, 66 segg.; Antich. giud., XVII, 286 segg.); è anche possibile che emigrasse da Ghiscala il nonno di Paolo, non perché condotto via schiavo, ma liberamente per ragioni commerciali, come facevano molti Giudei palestinesi: ammesso ciò, si potrebbe spiegare come mai, Paolo fin dalla nascita godesse della cittadinanza romana (§ 229) (190).
227. Benché fuori della terra dei padri, la famiglia di Paolo conservò quel tenace attaccamento alla propria discendenza nazionale e tribale che fu sempre una caratteristica dei Semiti (191); cosicché egli poteva precisare di essere della stirpe d'Israele, di tribù di Beniamino, Ebreo da Ebrei (Filipp., 3, 5). La sua, dunque, era la piccola ma bellicosa tribù di Beniamino che aveva data alla nazione il primo re nella persona di Saul: e i genitori di Paolo, che da puntuali osservanti delle prescrizioni religiose circoncisero il bambino l'ottavo giorno dalla sua nascita (ivi), gli imposero in tale occasione appunto il nome di Saul (ebr. Sha’ul), che significa «Domandato (a Dio)».
Se Paolo si vanta di essere Ebreo da Ebrei, dopo aver ricordato la sua discendenza da Israele e da Beniamino, lo fa certamente per distinguersi dai «proseliti» aggregati all'ebraismo: ma nella stesso tempo vuole forse alludere allo spirito di stretta ortodossia che vigeva nella sua famiglia e nel quale anch'egli fu educato. Pur vivendo in terra straniera e fra idolatri, la fiamma della fede nazionale-religiosa non si offuscò mai in seno a quella famiglia, i cui membri continuarono ad essere Ebrei da Ebrei sia nei sentimenti interni sia nelle azioni esterne: anzi, appunto per ravvivare sempre più quella fiamma, il bambino sarà a suo tempo inviato a studiare a Gerusalemme.
228. Oltre al nome ebraico di Saul, il bambino ebbe anche quello romano di Paolo. Questo nome straniero non dimostra affatto che i genitori di lui avessero propensione verso le costumanze greco-romane: l'uso di un doppio nome era allora frequentissimo presso i Giudei sia di Palestina sia della Diaspora, ed era opportuno specialmente per le relazioni con i Greco­Romani che nella pronunzia storpiavano i nomi semitici; perciò anche, fra i nomi stranieri, se ne sceglieva a preferenza uno che avesse qualche grossolana assonanza col nome ebraica. Così, già nel periodo dei Maccabei, c'era stato il sommo sacerdote Gesù che aveva mutato il suo nome in quello di Giason (Jeshù, ***), e poco dopo l'altro sommo sacerdote Eliaqim aveva mutato il suo in Alcim (‘Eljaqim: ***) (192); del resto il nome aggiunto poteva essere anche di suono del tutto diverso; come nella dinastia degli Asmonei troviamo i regnanti Alessandro Janneo (Jonathan), Alessandra Salome, e nel Nuovo Testamento troviamo Giovanni Marco l'autore del II vangelo, e Gesù Giusto (Coloss., 4, 11); la quale usanza è successivamente attestata per il più antico giudaismo di Roma dalle iscrizioni delle catacombe (193). Al bambino nato a Tarso fu dato per secondo nome un vocabolo latino che aveva una discreta assonanza con quello ebraico: Shaul, Paul.
Nei documenti l'apostolo è chiamato Paolo per la prima volta dopo il suo incontro col proconsole Sergio Paolo, durante il primo viaggio missionario: Saul, che (è) anche Paolo, ecc. (Atti, 13, 9). Il che non significa che egli assumesse quel nome in conseguenza di quell'incontro, ma è una finezza dell'autore degli Atti, il quale ha chiamato l'apostolo col suo nome ebraico finché egli ha agito nel mondo ebraico, e comincia adesso a chiamar lo con l'altro nome più corrispondente quando egli entra nel mondo greco­romano: questa è l'opinione espressa, con perfetto senso storico, già da Origene (194), a preferenza di altre antiche opinioni suggerite da analogie infondate o da derivazioni arbitrarie.
229. Altre notizie sicure sulla famiglia di Paolo non ci sono pervenute, salvo l'accenno occasionale (Atti, 23, 16 segg.) che egli ebbe una sorella maritata, un figlio della quale si trovava a Gerusalemme nell'anno 58 allorché rese un segnalato servizio a suo zio (§ 553); ma non ci risulta né l'età di questo nepote, né se egli si trovasse colà occasionalmente ovvero stabilmente, per studio altro come già aveva fatto suo zio, né se sua madre fosse allora a Gerusalemme o altrove.
Fin dalla nascita Paolo possedette la cittadinanza romana (Atti, 22, 28), la quale perciò dovette esser trasmessa a lui da suo padre; in che maniera costui a sua volta la possedesse non sappiamo. Se è vera la notizia dell'emigrazione del padre o di altro antenato di Paolo da Ghiscala a Tarso (§ 226), si può supporre che uno di costoro l'avesse ottenuta per diritto di affrancamento o per compera. Quell'Ebreo da Ebrei che fin dalla sua puerizia poteva vantarsi di esser tale, non immaginava certamente allora quanto gli sarebbe stato utile di poter affermare nella sua età matura: Civis Romanus sum.
L'educazione del fanciullo Paolo fu conforme allo spirito della sua famiglia: egli dice di essere Fariseo e figlio di Farisei (Atti, 23, 6; cfr. Filipp., 3, 5), e ricorda di essersi segnalato come zelante custode delle tradizioni paterne (Gal., 1, 14; cfr. Atti, 22, 3), e ciò basta per farei concludere che la sua educazione fu guidata dalle rigide norme di osservanza noti solo della Legge ebraica scritta ma anche della «tradizione» orale rabbinica (§ 76). Quindi il piccolo Paolo, verso i cinque anni di età, avrà cominciato ad apprendere le lettere dell'alfabeto ebraico e a compitare le prime parole leggendole sulla Bibbia ebraica (§ 18); man mano, poi, sarà stato istradato alla pratica delle osservanze legali; e perciò - come nello stesso tempo Gesù, ancora ragazzo, faceva a Nazareth (195) -, avrà principiato a rècitare la fondamentale preghiera dello Shemae, a frequentare la sinagoga di sabbato e ad osservare le altre prescrizioni rabbiniche.
230. Insieme con questa cultura spirituale gli fu fatto apprendere anche un mestiere manuale. Era norma fondamentale che l'uomo è obbligato a insegnare a suo figlio un mestiere: chiunque non insegna a suo figlio un mestiere, gli insegna a diventar ladro (Tosefta Qiddushin, I, 11): ché se del piccolo Paolo, intelligente qual era, si poteva prevedere che un giorno diventasse un dotto rabbino, il mestiere manuale non solo non avrebbe ostacolato la sua futura carriera, ma piuttosto l'avrebbe favorita e adornata; e in realtà, i più famosi maestri della Legge praticavano un mestiere manuale insieme con l'insegnamento (196), tanto che più tardi fu codificato l'aforisma: Rabban Gamaliel (197) figlio di R. Giuda ha-Nasì dice: È bello lo studio della Legge unito con un mestiere usuale, perché l'occuparsi di ambedue fa dimenticare il peccato. Ogni studio della Legge non unito con un lavoro risulta vano, ed è incentivo di peccato (Aboth, 11, 2).
Il mestiere insegnato a Paolo fu quello più comune nella sua regione, il mestiere dei «fabbricanti di tende» (***: Atti, 18,3); nella Cilicia, infatti, si allevavano numerosi greggi di quelle capre montanare ch'erano ricoperte di peli ispidi e folti: con questi peli si confezionavano tessuti che erano rigidi e duri, ma appunto per questo, si prestavano ottimamente a servire da tende da viaggio e a simili impieghi di copertura; codesti ruvidi tessuti, dal nome della regione di provenienza, erano chiamati cilicii o cilizii. Qualche scrittore antico, invece, ha ritenuto che il mestiere di Paolo fosse quello di «pellaio», per cui egli avrebbe piuttosto preparato le pelli da ricoprire le tende.
Il mestiere imparato da fanciullo fu per Paolo una specie di cittadinanza umana che, insieme con la cittadinanza romana, lo assisté in tutta la sua vita: anche in mezzo a mille occupazioni e preoccupazioni di apostolato cristiano, egli si guadagnò sempre il pane; con l’esercizio del suo mestiere per non essere d'aggravio ai suoi fedeli, e ci teneva molta a mostrare le sue mani incallite dal telaio esclamando: Alle necessità mie e di quelli ch'erano con me provvidero queste mani (Atti, 20, 34; cfr. I Cor., 4, 12; I Tess., 2, 9; II Tess., 3,8).
231. Dopo le osservazioni fatte, è superfluo rilevare che l'esercizio d'un mestiere manuale non implica punto che la famiglia di Paolo si ritrovasse in strettezze finanziarie. Anzi, il fatto che egli fosse inviato a Gerusalemme per gli studi induce a supporre una condizione, se non di opulenza, certo di agiatezza, perché il mantenimento di un figlio in un luogo così lontano esigeva spese considerevoli; le quali, d'altra parte, non potevano essere sostenute dalla gran maggioranza dei Giudei della Diaspora anche se pii e zelanti. Si può congetturare, senza prove esplicite ma con tutta verosimiglianza astratta, che l'agiatezza della famiglia di Paolo provenisse da una ben avviata fabbrica di tessuti cilici posseduta e diretta da suo padre.
Il primo educatore e maestro di Paolo dovette essere suo padre, che la sera libero dagli affari avrà insegnato a suo figlio i pnmi segni dell'alfabeto sacro e gli avrà narrato puerilmente gli episodi più salienti della storia sacra. Nello stesso tempo il bambino avrà frequentato la piccola scuola elementare per bambini giudei che era annessa - come d'abitudine (198) - alla sinagoga del quartiere, e dove volta per volta un servo di suo padre che fungeva da pedagogo sarà andato ad accompagnarlo: quando Paolo più tardi scriverà ai Galati (3, 24) che la Legge ebraica è stata un pedagogo verso Cristo, forse pensava a quell'antico servo; e quando scriverà ai Corinti (1 Cor., 4, 15) di essere per loro un padre e non un pedagogo, forse si sarà ricordato della profonda differenza che egli già allora, sebbene bambino, aveva notato fra le maniere del padre e quelle del servo.
232. Diventato più grandicello, Paolo aveva la possibilità di frequentare anche le,scuole greche di cui Tarso abbondava (§ 4); ma non ci viene detta che le abbia di fatto frequentate, né i sentimenti di suo padre inducono a supporre che le frequentasse. I Farisei diffidarono concordemente e sempre della cultura greca. Un rabbino sentenziò energicamente: Maledetto l'uomo che alleva porci, e maledetto chi insegna a suo figlio la sapienza greca (Baba qamma, 82 b Bar.). Un altro, poi, domandò se poteva studiare la sapienza greca ritrovandosi di avere già studiato l'intera Legge ebraica; ma in risposta gli fu citato il versetto (Giosuè, I, 8): Questo libro della Legge non si diparta mai dalla tua bocca e mediterai su esso di giorno e di notte, da cui fu tratta e applicata a lui la conclusione: Và e cerca quale ora non sia né giorno né notte, e consacrala allo studio della cultura greca (Menahoth, 99 b). Il padre di Paolo, rigidamente fariseo, doveva pensarla come questi rabbini, e per conseguenza negli albi delle scuole pagane di Tarso il nome di suo figlio non dovette mai figurare.
Tuttavia molti e studiosi moderni suppongono che Paolo da ragazzo frequentasse dette scuole. Le prove addotte sono che egli sa scrivere bene in greco, che cita autori classici, e che si mostra pratico di costumanze greche. È troppo poco: quante cose, infatti, non poteva imparare un ragazzo intelligente e svegliato anche senza frequentare le scuole, specialmente in una città cosmopolitica e colta com'era Tarso? Come tanti ragazzi d'oggi in Oriente parlano correntemente due o tre lingue imparate dall'uso quotidiano, così Paolo imparò con la pratica l'aramaico in famiglia, e il greco sia in casa sia fuori di casa in tutto il resto della città; e chi parla e scrive una lingua fin da ragazzo, la può anche scrivere con una certa abilità letteraria.
Le sue citazioni di autori classici sono tre in tutto, e si riducono a ben poca cosa; una è un emistichio del suo conterraneo Arato, Fenomeni, 5 (ma che si ritrova sostanzialmente nell'inno di Cleante a Giove, 5) e dice: «Di lui (Giove) infatti siamo anche stirpe» (Atti, 17; 28); l'altra è un verso proveniente dalla Taide di Menandro: «Discorsi cattivi corrompono costumi buoni» (1 Cor., 15, 33); la terza proviene dagli Oracoli di Epimenide: «Cretesi sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri» (Tito, 1, 12). Ora, aforismi di questo genere non sono certamente citazioni erudite, bensì effati comuni di tipo proverbiale, che si potevano apprendere in conversazioni private ascoltate occasionalmente, senza che fosse necessario di averle apprese in una regolare scuola per giovinetti.
Tanto meno provano le allusioni che Paolo fa a costumanze greche di armi, giuochi atletici, ecc., le quali si spiegano benissimo con l'interesse che un qualsiasi ragazzo intelligente prende per tutto ciò che occasionalmente vede con i suoi occhi o ascolta con le sue orecchie in una grande città.
233. Al contrario, Paolo si mostra del tutto alieno dalla valutazione riflessa e cosciente delle bellezze naturali e artistiche. Egli percorre terre e mari in ogni regione, assistendo senza dubbio a visioni altamente suggestive della natura; visita città greche che sono sacrari dell'estetica antica, ove ad ogni passo s'incontrano capolavori di fama mondiale; viene in Occidente, ove penetra in un mondo affatto diverso da quello visto finora da lui e dominato totalmente dall'idea dell'imperium militare: ebbene, davanti a tutti questi spettacoli, egli non mostra di commuoversi affatto, e dal suo calamo non esce giammai una breve descrizione - foss'anche a scopo metaforico - di una catena di montagne, di un placido golfo, di una statua, di una pittura, di un solenne edificio, di un esercito schierato a battaglia. Eppure, chissà quante, volte i ragazzi della sua età, nelle scuole greche, si saranno esercitati a declamare e scrivere su siffatti argomenti! Se quindi da uomo maturo Paolo è inaccessibile ad essi, è spontaneo sospettare che a tale inaccessibilità abbia: contribuito - fra altre cause -. la mancanza di un regolare esercizio letterario da ragazzo. Non è che un indizio, ma concorda pienamente con le altre considerazioni secondo cui Paolo non frequentò scuole pagane greche.
La sua scuola, in materie profane, fu la spicciola vita civile. Quando egli descrive minutamente l'armatura di un soldato (che può essere un qualsiasi legionario romano, o anche il pretoriano che allora gli faceva la guardia a Roma), e ricorda di lui la cintura e la corazza e i calzari e lo scudo e l'elmo e la spada (Efeso, 6, 14-17; cfr. 1 Tess., 5, 8) dipende in parte da precedenti modelli ebraici (cfr. Isaia, 11, 5; 59, 17; Sapienza, 5, 18 segg.), e in parte da quanto egli conosceva fin dai suoi primi anni: non avrà mai giocato, Paolo ragazzo; alla guerra con i suoi compagni e non si sarà mai vestito da legionario con elmo di carta e spada di legno per figurare meglio nel giuoco? Quando egli menziona gli atleti che partecipano alle gare di corsa nello stadio ricordando anche il loro faticoso allenamento (1 Cor., 9, 24~27; cfr. Filipp., 3, 14; 2 Tim., 4, 7-8), attinge egualmente ad antichi ricordi personali: non avrà mai assistito egli da ragazzo, col permesso del padre, a competizioni atletiche nello stadio di Tarso, o, se l'austero genitore gliela proibì sempre, non ne avrà ascoltato ansiosamente le descrizioni dai suoi compagni? E quando parla del thèatron, ossia dello «spettacolo» (1 Cor., 4, 9), che si sta svolgendo davanti al mondo e agli angeli, non attinge egualmente a vecchi ricordi?
234. Stando egli talvolta in una bottega, forse in quella paterna ove lavorava, avrà anche veduto qualche cliente che veniva a pagare il suo debito; quando le monete costituenti la somma dovuta erano bell'e allineate sul tavolo, egli avrà notato che il ereditare cercava accuratamente in mezzo a un fascio di fogli volanti, ed estrattone uno lo mostrava al cliente e subito appresso lo lacerava sotto i suoi occhi: era il chirografo, ossia la scritta autentica con cui il cliente si era professato debitore della somma, ma che, adesso non' valeva più perché la somma era stata pagata. L'usanza gli servirà più tardi per significare l'estinzione d'un debito immensamente più grave (Coloss., 2, 14).
Aggirandosi nell'agorà, egli avrà assistito talvolta al riscatto di uno schiavo; davanti al giudice si erano presentati lo schiavo, che era riuscito a raggranellare la somma necessaria per riscattarsi, e insieme con lui il suo padrone: la somma era consegnata dallo schiavo al giudice, e dal giudice al padrone; costui allora dichiarava di non aver più alcun diritto legale sullo schiavo, e il giudice dichiarava che lo schiavo era diventato uomo libero. La cerimonia del riscatto, o redenzione (***), era compiuta; ma il ricordo, rimasto ben netto in mente al ragazzo Paolo, poteva un giorno servire a raffigurare un riscatto o redenzione infinitamente più alta (Rom.; 3, 24; Coloss., I, 14; Efes., I, 7).
235. Anche nel campo delle idee, alcune prime impressioni possono risalire ai tempi della scuola di Tarso. Aggirandosi nell'agorà o nelle strade, il ragazzo Paolo più d'una volta si sarà fermato incuriosito ad ascoltare un placido filosofo epicureo che scodellava la felicità umana alla falla dei suoi uditori, oppure un accigliato stoico che portava avanti la sua «diatriba» (§ 54), e la sua mente inesperta poco o nulla avrà afferrato allora da quei costrutti logici: ma un vago ricordo ne avrà conservato, e quando più tardi l'uomo esperto s'incontrerà di nuovo con filosofi epicurei e stoici nell'agorà di Atene e discuterà con loro (Atti, 17, 17-18), l'antico ricordo riaffiorerà.
Forse, in una notte di primavera, il ragazzo Paolo sarà stato improvvisamente svegliato da grida frenetiche e da rumori assordanti che provenivano da un edificio vicino a casa sua; la mattina appresso egli avrà domandato a suo padre la ragione di quel frastuono notturno, e il padre di umore nerissimo quella mattina gli avrà risposto in modo evasivo non senza qualche sorda maledizione a quei «cani» d'idolatri. Ma naturalmente Paolo non è soddisfatto; uscito poi di casa, egli domanda all'uno e all'altro, fino a che trova un suo compagno di giuochi, figlio di un sacerdote pagano, che gli spiega in tutta segretezza il fatto: in quell’edificio, la notte precedente, si è svolto il rito di iniziazione la «mistero» di Dioniso, (§ 71); quelle urla sono partite dai petti degli iniziati, i quali hanno mangiato il cibo del mistero, sono stati invasati dallo spirito del dio, hanno raggiunto l'unione con la divinità e ottenuto la propria salvezza. Mistero? Unione con la divinità? Salvezza? Che cosa significano queste parole? Il ragazzo Paolo non ci capisce niente, e soddisfatto per il momento nella sua curiosità non riflette più oltre su esse. Tuttavia non le dimenticherà, anzi da giovane maturo vorrà informarsi con esattezza del loro significato; più tardi ancora, quando in quel suo laboratorio da tessitore detterà nervosamente le sue lettere e creerà la prima terminologia teologica del cristianesimo (§ 185), egli richiamerà al suo spirito quelle parole per smentire in pieno il loro significato.
236. Versai tredici anni di età Paolo aveva raggiunto una certa formazione, e bisognava decidere sul suo avviamento. Perspicace d'intelligenza e sinceramente attaccato al patrimonio spirituale della famiglia, egli avrebbe potuto profittare moltissimo qualora la sua prossima operosità si fosse concentrata tutta attorno a quel patrimonio. Il patrimonio materiale di casa era più che sufficiente, e del resto Paolo avrebbe potuto curarlo continuando in qualunque caso l'azienda paterna; ma il patrimonio morale non era mai sufficiente, anzi doveva sempre essere accresciuto da chi sentiva intimamente l'onore di essere discendente di Abramo e figlio della divina Legge. Se quel ragazzo un giorno fosse diventato dottore di quella Legge, uno di quei solenni «maestri d'Israele» davanti a cui s'inchinava riverente tutta la nazione, quale onore per tutta la famiglia e quale fierezza per suo padre! La casa non sarebbe stata onorata tanto da un sommo sacerdote o da un re, quanto da un dottore della Legge, perché la regalità esige 30 requisiti e il sacerdozio 24, mentre la Legge si acquista con 48 (Aboth, VI, 6). Ma come raggiungere sì alto onore? Il ragazzo, anche se ben disposto, non avrebbe potuto procurarsi tutti e 48 i requisiti lì, a Tarso, dove mancavano scuole della Legge; i membri più dotti del giudaismo di Tarso avrebbero forse potuto insegnargli qualche altra cosa, una decina o al massimo una ventina di requisiti, ma non tutti e 48: cosicché, dopo questo parziale progresso, si sarebbe ripresentata l'identica questione No, era meglio risolverla radicalmente fin da principio, mettendo subito il ragazzo su una strada che lo avesse portato fino alla meta. In tal caso, non c'era che Gerusalemme.
Il padre ci ripensò a lungo; poi, una sera, chiamato a parte Paolo, gli domandò se sarebbe stato contento di,andare a studiare a Gerusalemme. Il ragazzo rispose accettando con gioia.
Poco dopo egli partì da Tarso per la Città santa. Poteva avere all'incirca 14 anni; si era fra gli anni 13 e 18 dell'Era Volgare (§ 150).
237. A Gerusalemme Paolo si presentò alla scuola di Rabban Gamaliel il Vecchio (§ 75). La preparazione di questo nuovo discepolo poteva esser qualificata come buona, o anche ottima. Quanto alla Legge scritta - base fondamentale di tutto l'insegnamento (§ 78) - Paolo doveva essere molto avanti nella conoscenza della Bibbia, sia nel suo testo originale ebraico, sia in quello greco della versione dei Settanta: in una famiglia osservante come la sua, la Bibbia era l'enciclopedia spirituale dei ragazzi, il libro praticamente unico, è a forza di leggerla e ripeterla essi ne imparavano a memoria molti tratti. Quanto alla legge orale o «tradizione» (§ 76), la preparazione di Paolo era certamente assai più arretrata: egli conosceva la halakah attraverso le osservanze pratiche della famiglia e la haggadah attraverso conversazioni ascoltate in famiglia e sermoni omiletici uditi in sinagoga, o poco più, e quindi su questo campo c'era quasi tutto da fare. Ma, a parte la preparazione culturale, era addirittura eccellente la disposizione spirituale del nuovo discepolo: là a Gerusalemme egli era venuto come un cervo trafelato viene alla fonte, giacché non desiderava di meglio che dissetarsi alla pura fonte della sapienza d'Israele, assimilando l'insegnamento che gli avrebbe impartito il suo maestro.
Il metodo ordinario delle lezioni accademiche cominciava col proporre un passo della Bibbia: il Rabbi lo leggeva nel testo ebraico, lo traduceva poi nella lingua usuale aramaica, quindi lo illustrava sia ricordando le varie interpretazioni datene da precedenti Rabbi, sia riavvicinandolo eventualmente ad dementi della haggadah; infine cominciava la discussione fra gli studenti, diretta dal Rabbi, la quale mirava ad estrarre dal passo il singolo precetto della halakah. Il precetto e il «caso» pratico erano lo scopo finale di tutta la lezione, che naturalmente si svolgeva secondo le regole esegetiche che già vedemmo (§ 76 segg.).
Il risultato diretto di tali lezioni, presso gli studenti, era una padronanza sempre maggiore della Bibbia e un avanzamento continuo nella conoscenza della «tradizione» sia halakica sia haggadica; e regolarmente Paolo, anche dopo il suo passaggio al cristianesimo, risentì di questa sua formazione scolastica.
238. La Bibbia appare nei suoi scritti come elemento essenzialissimo: nella storia della letteratura cristiana bisogna scendere di tre secoli per ritrovare uno scrittore che dipenda tanto dalla Bibbia quanto Paolo, e lo si ritrova nel semita Afraate il «Sapiente Persiano», che aveva ricevuto anch'egli una formazione essenzialmente biblica. Nelle sue lettere Paolo cita direttamente la Bibbia più di un ottantina di volte, e altrettante e anche più sono le allusioni o reminiscenze bibliche che vi si riscontrano. Rarissimamente egli cita dal testo ebraico, forse solo un paio di volte; ordinariamente, invece, cita dal testo greco dei Settanta, ch'era la versione usuale fra i Giudei della Diaspora; talvolta sembra dipendere da un'altra versione greca, affine a quella di Aquila.
Possedendo egli la Bibbia sostanzialmente a memoria, cita d'ordinario a memoria; gli scosta menti più o meno, ampi dall'esattezza verbale, che si riscontrano nelle sue citazioni, dimostrano che egli mirava più, al concetto citato che alla materialità della lettera; poiché, d'altra parte, egli cita per dimostrare alcunché, talvolta accomoda leggermente la citazione affinché la dimostrazione risulti più chiara, oppure anche fonde insieme più concetti distinti desunti da passi biblici diversi (199).
239. Sotto l'aspetto dialettico, l'impiego che Paolo fa della Bibbia è analogo all'impiego che i rabbini facevano dei racconti storici sia della Bibbia sia della haggadah (§ 77, nota ultima). Oltre al senso «semplice» o letterale, egli scorge in taluni fatti narrati dalla Bibbia anche un senso spirituale più alto e recondito, in quanto il fatto stessa è prefigurazione adombrativa di un altro fatto: è il senso che, secondo l'espressione di Paolo stesso, si può chiamare «tipologico». Così, Adamo è tipo (***) del futuro Cristo (Rom., 5, 14; cfr. I Cor., 15, 21-22. 45.49); parimente, le istituzioni e cerimonie dell'Antico Testamento sono ombra delle (cose) future, mentre il corpo (è) del Cristo, ossia la realtà (corpo) che proietta quell'ombra è il Nuovo Testamento (Coloss., 2, 17); e ancora, i fatti che avvennero agli Ebrei nel passaggio del Mar Rosso e nel deserto sono tipi (I Cor., 10, 6), avvenuti tipicamente (ivi, 11), e da riferirsi al Cristo (ivi, 4-9); similmente in altri casi.
240. Altre volte Paolo impiega la Bibbia soltanto nella materialità delle parole, ma non nel loro vero concetto: era l'impiego «accomodatizio» degli oratori sinagogali omiletici, che si servivano di citazioni bibliche a scopo edificativo ma non propriamente esegetico. Un esempio chiarissimo è quello (Rom., 10, 18) in cui Paolo impiega, senza citarlo espressamente, il passo del salmo (19, Vulg. 18, 5): In tutta la terra uscì il suono di essi, ecc.; sennonché il poetico salmo intende l’armonia cosmica dei cieli, che si effonde sulla terra, mentre Paolo «accomoda» la citazione per alludere al messaggio evangelico che si diffonde nel genere umano. Talune accomodazioni sono più complicate, ed impiegano non semplici parole bensì fatti della Bibbia, come avviene ordinariamente nei Midrashim omiletici giudaici: di tal genere sono il caso della raccolta della manna allegato a proposito della raccolta di elemosine fra i Corinti (2 Cor., 8, 15; cfr. Esodo, 16; 18), il caso ampio ed involuto di Mosè che ha la faccia velata allegato a proposito dei Giudei increduli che hanno il cuore velato (2 Cor., 3, 7-18; cfr. Esodo, 34, 33-35); complicatissimo fra tutti è il parallelo fra la Giustizia della Legge giudaica e la Giustizia (della Fede cristiana, in cui la seconda, essendo personificata, pronunzia a nome suo proprio sentenze bibliche le quali, oltre ad essere modificate, sembrerebbero da attribuirsi alla prima (Rom:, 10, 5-9; cfr. Deuteron., 30, 11-14). La retta interpretazione di questi e somiglianti passi di Paolo non potrà farsi se non avendo presente il particolare impiego che, volta per volta, egli fa di una data citazione biblica, e che è sotto l'influenza della sua formazione scolastica.
241. Per la dipendenza di Paolo, anche nei fatti storici, dalla tradizione giudaica estranea alla Bibbia è istruttivo il caso di II Timot., 3, 8. Ivi egli nomina Jannes e Jambres (o Mambres) quali antichi avversari di Mosè, alludendo certamente ai maghi egiziani che osteggiavano Mosè (Esodo, 7, 11-22); sennonché questi due nomi non appaiono mai nella Bibbia, come già aveva notato Origene, mentre appaiono nel Targum (Jonathan, a Esodo, I, 15; 7, 11; Numeri, 22, 22) e in altri scritti giudaici; esisteva anche uno speciale scritto apocrifo intitolato Libro (o Penitenza) di Jannes e Jambres, il quale non solo è segnalato da Origene, dal cosiddetto «Decreto di Gelasio», e da altri documenti cristiani, ma pare che fosse noto anche ad autori pagani, quali Plinio (Nat. hist., XXX, I, 11), Apuleio (Apolog. o De magia, c. 90), il neo-platonico Numenio (in Eusebio, Praep. evang., IX, 8; cfr. Origene, C. Cels.; IV, 51), che nominano insieme con Mosè i suoi suddetti avversari, o ambedue o uno soltanto; è probabile che questo scritto apocrifo risalisse a prima dell'Era Volgare. Da questo stato di cose Origene (in Migne, Patr. Gr., 13, 1637), e l'Ambrosiastro (in Migne, Patr. Lat., 17, 521) conclusero che Paolo nel passo allegato citi uno scritto apocrifo, ma la conclusione non è necessaria e neppure molto probabile; è assai più verosimile che egli dipenda, come il Targum, dalla ampia tradizione orale della haggadah. Così aveva giustamente concluso, già nel sec. V, Teodoreto, supponendo che Paolo attingesse quei due nomi dalla dottrina giudaica non messa in scritto (in Migne, Patr. Gr., 82, 847).
242. In queste occupazioni intellettuali Paolo trascorse il suo periodo di Gerusalemme. Quanto tempo egli rimanesse «ai piedi di Gamaliel», se e quando partisse da Gerusalemme, dove si recasse e di che cosa allora si occupasse, sono tutte domande a cui non siamo in grado di dar risposta. Entrando nel campo delle congetture, si potrà supporre ch'egli frequentasse le lezioni di Gamaliel per tre o quattro anni, fin verso il 18° dell'età sua, ch'era l'anno ordinario per il matrimonio (§ 150), e quindi ritornasse a Tarso, sia per curare gl'interessi di famiglia, sia per iniziare presso quella comunità giudaica la sua operosità di dottore della Legge uscito fresco fresco dalle scuole della Città santa. Ad ogni modo, anche se queste congetture corrispondono alla realtà, Paolo si assentò da Gerusalemme più col corpo che con lo spirito, e anche da Tarso egli dovette rimanere in strette relazioni col Sinedrio e con i dotti circoli farisaici della capitale, perché più tardi tornerà in scena all'improvviso quale loro autorevole rappresentante: è segno, dunque, che in questo frattempo i maggiorenti di Gerusalemme avevano seguito anche da lontano la carriera di quel giovane, formatosi e consolidatosi in mezzo a loro (Atti, 22, 3), e come lo avevano apprezzato nel periodo della sua formazione così adesso facevano assegnamento su lui per incarichi, di fiducia.
243. Quando giunse, nella capitale per iniziarvi gli studi, Paolo era già nella pubertà precoce e impetuosa presso gli Orientali. A Gerusalemme egli non vedeva, no, la spudorata licenza che tripudiava a Tarso, ma anche nella Città santa non tutti erano modelli di morigeratezza: giacché, se i Sadducei seguivano con ostentazione molte costumanze dei dominatori stranieri, i Farisei della vita pratica (non quelli teorici della Mishna) erano troppo spesso sepolcri imbiancati, senza poi parlare del pagani che affluivano numerosi in città specialmente dopo l'insediamento del governo romano. Come si comportò il giovanetto Paolo fra codesti incentivi esterni, a cui faceva riscontro un fuoco interno? Egli che da uomo maturo confesserà di sentir,e dentro le sue membra una legge del peccato che contrasta alla legge d'Iddio e che lo rende schiavo (Rom., 7, 21-23), come si sarà comportato nel contrasto fra, queste due leggi?
C'era da aspettarselo. Qualche studioso, e fra i più recenti, ha stimato che Paolo sia vissuto per un certo tempo da dissoluto, quando era a Gerusalemme o nel periodo successivo, prima della sua conversione: il rimorso poi di questi suoi eccessi, l'inefficacia della Legge giudaica nel recare aiuto, l'anelito ad una sfera più alta, sarebbero stati altrettanti elementi psicologici che influirono sulla sua conversione; e quando Paolo parla con tanta appassionata vividezza della fragilità umana e del contrasto fra mente e corpo nell'uomo (Rom. 7, 7-25), non parlerebbe astrattamente o per sentito dire, bensì ricordandosi dei suoi antichi traviamenti.
A sentire addurre siffatte prove, qualche maligno potrebbe concludere che si tratta del solito caso di un biografo che sostituisce se stesso al biografato; ma noi non cadremo in questa malignità, e ci limiteremo ad affermare che si tratta di un «romanzo giallo» d'infima qualità e smentito recisamente dalle attestazioni. E in primo luogo, se l'accennato tratto di Paolo risentisse dell'esperienza personale (200), potrebbe risentirne anche il tratto precedente dello stesso scritto (ivi, 1, 24-32) che è tutto un elenco dei più infami ed obbrobriosi vizi (§ 46); né varrebbe dire che là Paolo parla dei pagani, giacché ciò che fa un pagano può farlo anche un Giudeo, mentre poi davanti a Dio non c'è alcuna differenza fra Giudeo e Greco (ivi, 2, 1-11). Dovremmo quindi credere che Paolo sia stato addirittura la sentina di tutti i vizi? Inoltre le testimonianze positive presentano un Paolo tutt'altro che dissoluto: egli stesso, rifacendo la propria storia davanti ad Agrippa e appellandosi ai testimoni, afferma di esser vissuto fin dalla giovinezza in Gerusalemme da Fariseo (Atti, 26, 4-5); e altrove assicura di essere stato scrupoloso osservante delle «tradizioni» giudaiche ben più.
di molti suoi coetanei (Gal., 1, 14), e perfino, si presenta come irreprensibile (***) nella sua antica vita da Giudeo (Filipp.) 3, 6). Si presti quindi fede a Paolo, e si abbandoni il «romanzo giallo» alla sua sorte, concludendo che prima della sua conversione Paolo visse integralmente e cordialmente il suo fariseismo, praticando con ogni cura tutte quelle minuziose prescrizioni legali che aveva imparate dai suoi maestri (§ 80 segg) e che egli considerava come l'impalcatura della sua felicità spirituale; e appunto da questo suo fervore farisaico proruppe l'odio furibondo contro il nascente cristianesimo, che demoliva quella sua impalcatura.
244. Verso i diciotto anni Paolo avrebbe potuto prender moglie (§ 150), anzi ne avrebbe avuto praticamente l'obbligo: il celibato infatti non fu mai in onore presso gli Ebrei, e una sentenza rabbinica dice che Iddio sta osservando fino a venti anni se l'uomo prende moglie e se non l'ha presa fino allora lo maledice (Qiddushin, 29 b). Un Israelita comune poteva prendere fino a quattro mogli e anche più, come permette il Talmud, ma sembra che la poligamia fosse giudicata indecorosa per un dottore della Legge, e quindi Paolo sarebbe stato incluso in questa norma.
Invece, secondo ogni probabilità, egli non prese mai moglie. Clemente d'Alessandria (Stremata, III, 6, in Migne, Patr. Gr., 8, 1157) suppose che Paolo fosse ammogliato, argomentando ciò dal passo della sua lettera (Filipp.) 4, 3) ove egli rivolge il discorso a una persona chiamata ***. Ma chi è la persona designata con questo appellativo? Il vocabolo *** significa etimologicamente con-iuge, ma non necessariamente nel senso matrimoniale, bensì anche in quello più generico di «collega», «compagno»; inoltre, il vocabolo può essere anche un nome proprio Syzygo, come già suppose qualche scrittore antico; infine, l'aggettivo *** è maschile, e il tutto suona o genuino collega (oppure o genuino Syzygo, scherzando sul senso del nome proprio), e quindi non può trattarsi d'una donna «coniuge» di Paolo (cfr. § 383). Infatti quasi tutti gli antichi, Tertulliano, Girolamo, Epifanio, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, ecc., ritennero che Paolo non fosse ammogliato.
Un argomento anche più forte si trova in I Cor., 7, 8, ove egli esortando alla rinuncia al matrimonio propone come esempio il suo proprio stato. Può rimanere ancora l'astratta possibilità che egli, quando scriveva questa esortazione, fosse vedovo, divenuto tale fin da giovane: ma, sul terreno storico, questa possibilità dovrebbe essere dimostrata come effettiva e non soltanto venir presunta, tanto più che essa si accorda meno bene con l'esortazione generica di Paolo di rinunciare al matrimonio. Se egli fosse stato allora vedovo, era tanto facile replicargli: E tu, perché prendesti moglie nella tua giovinezza? - Sarà quindi legittimo supporre che il grande fervore del fariseo Paolo per lo studio e la pratica della Legge giudaica lo inducesse a rinunciare al matrimonio, come eccezionalmente accadde a qualche altro rabbino.
245. Questo periodo della, vita di Paolo, assolutamente oscuro per noi, va dalla fine dei suoi studi a Gerusalemme fino alla sua ricomparsa ivi in occasione della lapidazione di Stefano: la fine degli studi poté cadere fra gli anni 16-22 d. Cr. (§ 242), mentre la lapidazione di Stefano avvenne a parer nostro nel 36 (§ 151); bisogna tuttavia aver presente che in questo periodo Paolo può esser si recato più volte a Gerusalemme, specialmente negli ultimi anni quando la sua autorità presso il Sinedrio era ben rassodata (§ 242). Ciò posto, sorge la questione se egli si sia mai incontrato personalmente con Gesù.
La possibilità cronologica è palese: la vita pubblica di Gesù s'iniziò sui principii dell'anno 28 (201) e durò fino alla Pasqua del 30, esplicandosi prevalentemente dapprima su in Galilea e poi giù nella Giudea; ora, in questi due anni e mezzo, Paolo più volte può aver attraversato la Galilea scendendo da Tarso, e aver visitato la Giudea e Gerusalemme: in tali occasioni poté incontrarsi con Gesù. Di fatto; però, tutto c'induce a credere che tale incontro non avvenne e che Paolo non vide mai il Gesù mortale, né durante il suo ministero né in occasione dei processo e morte di lui. Paolo infatti non accenna mai ad un suo incontro con Gesù mortale, mentre se l'incontro fosse avvenuto egli difficilmente ne avrebbe omessa la menzione, che non gli sarebbe stata inutile di fronte agli avversari della sua qualità di apostolo; se poi Paolo avesse preso parte al processo di Gesù davanti al Sinedrio ed alla sua crocifissione - come taluni hanno supposto (202) - non avrebbe celato questa partecipazione, come non celava di aver perseguitato il nome di Gesù il Nazoreo (Atti, 26, 9) e di aver partecipato al martirio di Stefano (Atti, 22, 20). Al contrario, Paolo afferma più volte e nettamente di aver visto il Gesù immortale, quello di dopo la resurrezione (1 Cor., 9, 1; 15, 8), facendosi forte di ciò nei confronti della sua qualità di apostolo.
246. Anche il passo di II Cor., 5, 16, non allude a un incontro con Gesù mortale. Il passo dice: Cosicché noi da adesso non conosciamo nessuno secondo la carne; e se conoscemmo secondo la carne Cristo; tuttavia adesso non (lo) conosciamo più. Quest'ultima proposizione, adesso non (lo) conosciamo più, basta ad escludere che qui Paolo pensi all'incontro con Gesù mortale, perché chi si è incontrato una sola volta con una persona non potrà più dire di non averla conosciuta. Il vero intendimento di Paolo, invece, è svelato dalla espressione ripetuta due volte; conoscere secondo la carne (***); la quale dimostra che egli si riferisce alla conoscenza morale di una persona, ossia: al giudizio o valutazione che si dà su di essa. Nel passato, prima di aderire alla dottrina di Gesù, Paolo lo valutava secondo criteri umani (secondo la carne), giudicando che egli non poteva essere il vero Messia, perché le sue caratteristiche morali non corrispondevano a quelle del Messia trionfatore nazionale aspettato dal popolo giudaico, e perciò il Sinedrio a buon diritto lo aveva condannato; quando invece Paolo ha scoperto in Gesù il redentore del genere umano che è morto per tutti (ivi, 15-16), ha cessato di giudicarlo secondo la carne passando a giudicarlo secondo la carità del Cristo (che) ci comprime (ivi, 14). In conclusione, si può esser praticamente certi che Paolo non vide mai Gesù né prima né in occasione della sua crocifissione.
247. Mentre Paolo era in questo periodo della sua vita per noi oscuro, la Buona Novella annunziata da Gesù attraversava anch'essa quell'oscuro periodo di attività ch'era stato preannunziato, dalla parabola evangelica.
Di sera, la donna di casa ha riempito interamente di farina la sua grossa madia ed ha nascosto soltanto un piccolo pugno di lievito dentro tutta quella massa impastata; la mattina appresso, riaprendo la madia, la donna trova che quel poco fermento ha pervaso e trasformato l'intera massa, lavorando segretamente tutta la notte. Gesù aveva immesso nelle masse giudaiche un suo spirituale fermento poco appariscente, poco vistoso, e poi era, scesa la notte; i maggiorenti del giudaismo avevano accuratamente chiuso e sigillato la spirituale madia, con la certezza che il fermento sarebbe svanito e ogni cosa sarebbe rimasta immutata. Sennonché, fin da principio, un incessante brusio accompagnato da taluni crepitii fece sospettare a quei maggiorenti che il fermento dentro la madia non fosse punto svanito, ma lavorasse senza posa: impensieriti, essi a un tratto aprirono la madia, e con indignazione videro che il fermento si era diffuso già da ogni parte e trasformava la massa. L'indignazione portò alla persecuzione: bisognava sopprimere il fermento.
Uno dei più indignati, e dei più zelanti nella persecuzione, fu Paolo.
248. Nei cinque o sei anni che vanno dalla morte di Gesù a quella di Stefano, la Chiesa aveva fatto notevoli progressi. Subito dopo l'ascensione di Gesù tutta la Chiesa consisteva in 120 persone, radunate a Gerusalemme (Atti, 1, 15) e forse alcune altre centinaia sparse altrove; dieci giorni più tardi, alla Pentecoste, 3000 persone si convertirono per il discorso fatto in pubblico da Pietro, (ivi, 2, 41), e il loro numero andò in seguito aumentandosi alla giornata (ivi, 47).
Le autorità religiose di Gerusalemme, specialmente i Sadducei, intervennero una prima (ivi, 4, 3 segg.) e una seconda volta (5, 17 segg.), imprigionando gli apostoli; tuttavia non insistettero, anche perché nell'adunanza del Sinedrio prese la parola Gamaliel (§ 75) il maestro di Paolo, ed esortò a non spingere le cose agli estremi potendo il movimento provenire da Dio (ivi, 34 segg.). Naturalmente il movimento crebbe, sempre più, e si estese in maniera particolare a quei Giudei che erano, originari non della Palestina, ma della Diaspora, ed usavano lingua e costumi greci; sebbene per vari motivi venissero frequentemente a Gerusalemme: erano i Giudei ellenisti.
249. I convertiti alla Buona Novella facevano vita in comune; erano assidui alle istruzioni impartite dagli apostoli, allo «spezzamento del pane», ed alla preghiera, e si radunavano a preferenza in quel settore del Tempio ch'era chiamato, il «portico di Salomone», (Atti, 3, 11; 5, 12) (203). Tuttavia essi, Giudei, non intendevano affatto con ciò di rinnegare il giudaismo e staccarsi da esso: possedevano la fede in Gesù, si reputavano Giudei che avevano già raggiunto la meta del giudaismo nel Messia, Gesù, e aspettavano che man mano pure gli altri Giudei raggiungessero quella meta. Se poi degli altri nessuno osava unirsi con loro (ivi, 5; 13) nella loro particolare vita in comune, ciò non significava che dovesse sorgerne uno scisma; no; nessuno scisma, soltanto un poco di attesa: essi erano i primi frutti maturi di un albero il quale avrebbe portato a maturazione gli altri frutti tuttora acerbi.
Perciò, nel frattempo; quei primi cristiani di Gerusalemme frequentavano come al solito 1e sinagoghe della città, molte delle quali erano state erette e venivano mantenute a cura dei diversi gruppi di Giudei ellenisti, che venendo a Gerusalemme dai rispettivi paesi della Diaspora trovavano il proprio centro nella propria sinagoga: una leggenda rabbinica, certamente esagerata; fa salire a 486 le sinagoghe di Gerusalemme; sebbene non tante, erano senza dubbio assai numerose, e sono ricordate individualmente quelle dei Libertini - ossia dei Giudei liberti di Roma - e quelle dei Giudei di Cirene, di Alessandria, di Cilicia, e dei Giudei della provincia romana dell'Asia (Atti, 6, 9) (204).
250. Questa frequenza dei nuovi credenti alle sinagoghe dava occasione, naturalmente, ad assidue dispute pubbliche, giacché i Giudei che respingevano il Messia Gesù domandavano spiegazioni ai cristiani ellenisti circa la loro adesione a lui, ed essi volentieri le fornivano anche per propagare la propria fede.
Sembra, infatti, che i cristiani ellenisti fossero i più attivi e zelanti in questa propaganda, e perciò particolarmente contro di essi si accumulava l'odio dei Giudei che portò poi alla persecuzione. Del resto, pure in seno al nascente cristianesimo, essi formavano un gruppo non solo assai numeroso e forse prevalente, ma anche contraddistinto dal gruppo dei cristiani palestinesi per la lingua, le costumanze, e altre particolarità della vita sociale. Poiché nella vita in comune con i cristiani palestinesi in un certo tempo le vedove degli ellenisti erano state trascurate, furono istituiti i primi sette diaconi che appartennero o esclusivamente o in gran maggioranza al gruppo ellenistica: il loro ufficio diretto fu l'amministrazione materiale della vita in comune, ma nello stesso tempo fu ad essi riconosciuto l'ufficio della propaganda specialmente fra i Giudei della Diaspora. Tra questi primi diaconi fu incluso uno noto pagano e diventato poi «proselita» giudaico, l’antiocheno Nicola; vi fu anche Filippo l'«evangelista», il cui carisma già attesta la sua operosità spirituale (§ 215) e che aveva quattro figlie adorne egualmente di carismi (Atti, 21, 9); vi fu sopra tutti, Stefano, che pagò la medesima operosità col suo sangue.
251. Frattanto, sia per l'attività degli apostoli che insistevano nel ministero della parola (Atti, 6, 4), sia per l'ardimento dei diaconi e degli altri ellenisti che affrontavano le discussioni con gli avversari, la parola d'Iddio s'accresceva, e s'aumentava il numero dei discepoli in Gerusalemme assai; pure gran turba dei sacerdoti obbediva alla fede (ivi, 7).
Questo stato di cose indignò sommamente Paolo, una volta che capitò a Gerusalemme nell'anno 36. Che membri della classe sacerdotale aderissero alla nuova fede, Paolo se lo spiegava facilmente: quella classe era quasi tutta di Sadducei, sfrontati paganeggianti, e quei pochi che non pensavano da Sadducei non pensavano certamente come lui da Farisei. Ad ogni modo, non era più tempo di titubare: Sadducei o Farisei, dovevano tutti unirsi contro il comune nemico che minacciava di conquistare Gerusalemme e la Palestina e la Diaspora, per fermarsi chissà dove. Bastava guardare quello Stefano, il quale faceva portenti e segni grandi nel popolo (Atti, 6, 8). Si poteva permettere siffatto scandalo, da parte di un truffatore ignorante? Confonderlo, umiliarlo bisognava! Era necessario svergognarlo alla presenza di tutto, il popolo, facendo risultare in una pubblica disputa come egli non conoscesse le cose più elementari della Legge ebraica! Demolito Stefano, si sarebbe poi agito contro gli altri per autorità del Sinedrio, e così tutto sarebbe stato messo a posto. Questo all'incirca fu il piano d'azione di cui Paolo dovette essere un fervente sostenitore, o forse anche il principale autore.
252. La pubblica disputa con Stefano fu tenuta, e vi presero parte Giudei delle varie sinagoghe ellenistiche, compresa quella dei Giudei di Cilicia ove Paolo contava i suoi migliori amici; l'esito però non corrispose alle speranze. La discussione si prolungò animatissima su varie questioni e morti avversari impugnarono Stefano, ma non potevano resistere alla sapienza e allo Spirito per cui parlava (ivi, 10).
Il cattivo esito indusse allora ad un provvedimento più radicale, che anzi avrebbe accelerato lo svolgimento del piano stabilito provocando anticipatamente l'intervento del Sinedrio: furono cioè subornati falsi testimoni, i quali affermarono di aver udito Stefano pronunziare parole blasfematorie contro Mosè e Iddio. La plebe si commosse; accorsero Anziani e Scribi, e, tutti in massa trascinarono Stefano davanti al Sinedrio. L'auspicato «fronte unico» era stato costituito: adesso i tre gruppi che costituivano il Sinedrio - Sommi Sacerdoti, Anziani e Scribi (205) - misero per un momento, da parte i loro contrastanti principii, sadducei o farisaici, e si trovarono tutti d'accordo. Anche prima del giudizio, l'imputato era già giudicato.
253. L'imputazione addotta contro di lui fu in parte falsa e in parte v,era: nella parte falsa si riconnetteva con le imputazioni addotte sei anni prima contro Gesù, giacché Stefano fu accusato di aver parlato irriverentemente del Tempio e della Legge ebraici; nella parte vera si riconnetteva con la fede dei nuovi credenti, giacché Stefano aveva affermato che il Messia Gesù avrebbe istaurato una nuova economia spirituale, abolendo il funzionamento del Tempio ebraico e sostituendo le «tradizioni» fondamentali per i Farisei (ivi, 13-14). Da queste accuse Stefano si difese con un discorso che, sebbene riferito negli Atti (7, 2-53) con straordinaria ampiezza, va considerato come un riassunto sommario (§ 112); la sua importanza come documento storico è singolare, perché ci permette di farci un'idea del metodo apologetico seguito dai cristiani ellenisti nella loro polemica contro il giudaismo.
Risalendo oltre Mosè, il discorso riassume la storia del popolo d'Israele dà Abramo in giù, seguendo le linee generali della narrazione biblica non senza introdurvi taluni elementi tolti dalla haggadah (§ 76); da questa ampia visione storica è fatta risaltare l'economia di salvezza destinata da Dio all'umanità intera più che al singolo Israele, e la superiorità dell'adorazione rivolta dall'uomo a Dio in spirito e sincerità in confronto con il culto prestatogli solo materialmente in luoghi consacrati dall'uso; man mano che l'esposizione storica procede, il discorso contesta ai Giudei attentati a questi due capisaldi dell'economia divina e una incessante opposizione all'opera di Dio verso l'umanità. Cosicché il discorso si chiude con le durissime parole: Duri di cervice e incirconcisi di cuori e d'orecchi, voi sempre allo Spirito santo vi opponete: come i padri vostri, (così) pure voi. Quale dei profeti non perseguitarono i padri vostri? Anzi uccisero i preannunzianti la venuta del Giusto, del quale adesso voi foste traditori ed omicidi, (voi) che riceveste la Legge in precetti di angeli e non (la) osservaste!
254. Era troppo. L'accusa di non osservare la Legge, rivolta proprio, agli Scribi e Farisei sedenti nel Sinedrio, fece perder loro il ritegno forzatamente conservato fino allora per le formalità del processo. Gesticolando furiosi e digrignando i denti contro l'oratore, essi lo minacciarono dai loro scanni. A quella vista, Stefano cessò di parlare ai suoi giudici terreni; solo volle aggiungere da se stesso il testo della propria sentenza, pronunziata alla presenza del giudice celeste. Con gli occhi fissi in alto, egli rimase un momento a contemplare, e poi esclamò: Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta ritto alla destra d'Iddio! (ivi, 7, 56).
Una tempesta di urli e maledizioni ricoprì queste parole; tutti i Sinedristi si chiusero le orecchie, per non sentire altre bestemmie, e si levarono in piedi; i meno vecchi fra loro si scagliarono contro il bestemmiatore, per fargli subire immediatamente la pena stabilita per il suo delitto; ai Sinedristi si unirono i loro satelliti e la plebe, e Stefano fu trascinato via per l’esecuzione.
255. A questa scena davanti al Sinedrio quasi certamente fu presente Paolo: vi accenna egli stesso in modo abbastanza chiaro quando, parlando in genere dei cristiani da lui anticamente perseguitati, afferma: Allorché essi erano uccisi, apportai (il mio) voto (Atti, 26, 10). Il riferimento a Stefano sembra inevitabile, perché costui era il primo e più noto degli uccisi. Non appare invece legittimo concludere, dalla menzione del voto, che Paolo facesse parte del Sinedrio e quindi votasse effettivamente contro Stefano. Secondo ogni apparenza, invece, una votazione non ci fu, giacché la condanna dell'imputato fu decretata implicitamente con la manifestazione tumultuaria contro di lui; perciò, ricordando il proprio voto, Paolo parla solo di voto metaforico, ossia allude alla sua opera di istigazione e consenso alla condanna e di cooperazione all’esecuzione, come altrove ricorderà, egualmente a proposito di Stefano, di essere stato presente e consenziente e custodiente le vesti di quelli, che lo uccidevano (Atti, 22, 20). D'altra parte, noi non abbiamo nessun altro indizio per ritenere che Paolo fosse Sinedrista; ché anzi la sua giovane età lo farebbe supporre ancora immaturo a quel tempo per quel supremo consesso del giudaismo.
Abbiamo poi già esposto altrove le ragioni per cui, a parer nostro, nel processo di Stefano non intervenne affatto il magistrato romano, da cui soltanto dipendeva l'esecuzione di una sentenza di morte pronunciata dal Sinedrio (§ 151): il modo tumultuario con cui fu eseguita quella volta la sentenza, confermerebbe la nostra spiegazione.
256. L'esecuzione, tuttavia, avvenne puntualmente secondo tutte le prescrizioni della legge ebraica. Sembrerebbe quasi che con questa puntualità si volesse confutare l'affermazione del condannato, secondo cui gli Scribi e i Farisei del Sinedrio non osservavano la Legge: avrebbe esperimentato egli stesso come quegli insigni maestri sapevano osservarla! Perciò la turba vociante che stringeva Stefano in mezzo, lo condusse fuori della città, perché tale era la prescrizione della Legge (Levitico, 24, 14); per il bestemmiatore, quale Stefano, la Legge aveva stabilito la morte per lapidazione da parte di tutto il popolo (ivi, 16), e appunto questa fu decisa; infine la stessa Legge aveva prescritto che all'esecuzione assistessero due o tre testimoni ufficiali i quali dovevano lanciare le prime pietre (Deuter., 17, 6-7), e anche questo punto fu osservato.
Per essere più sciolti nei loro movimenti, i testimoni lapidatori si sbarazzarono dei loro mantelli: Paolo accorse premuroso a ricevere e custodire quegli indumenti, giacché nel suo ardore gli sembrò con questo servizio di «lapidare con le mani di ognuno» (Agostino).
Il pasto della lapidazione era un piccolo avvallamento di terreno: dentro vi scendeva il condannato, i lapidatori stavano in alto attorno a lui. Le prime pietre dei testimoni raggiunsero Stefano ancor ritto; egli pregava dicendo: Signore Gesù, ricevi lo spirito mio! (Atti, 7, 59). Ma poi si scaricò la valanga lanciata dalla folla, e allora Stefano fu abbattuto. Piegatosi sulle ginocchia, gridò a gran voce: Signore, non imputar loro questo peccato! E detto questo, s'addormentò (ivi, 60)
257. «Testimonio» in greco si dice «martire»; perciò Stefano figurò nella, Chiesa come il proto-martire, ossia il primo testimonio del Cristo. Ma come non pensare a quell'altro testimonio della Legge giudaica, che stava là a lapidare con le mani dei testimoni serviti da lui? Come non scorgere un ideale collegamento, fra quel primo testimonio di un ordine nuovo, e quell'ultimo testimonio di un ordine antico?
Queste riflessioni sono spontanee oggi, dopo venti secoli, ma in quella giornata il più lontano di tutti dall'averle fu senza dubbio Paolo. Che soddisfazione intima, cordiale, dovette provare egli in quella giornata! Finalmente si agiva sul serio nel far rispettare la Legge e le «tradizioni»! Aveva egli forse speso la sua giovinezza a studiar Legge e «tradizioni» soltanto per sentenziare se si poteva mangiare un uovo fatto dalla gallina di sabbato (§ 88) o se si poteva leggere di sabbato al lume di una lucerna accesa da un pagano (§ 86), mentre poi doveva assistere inoperoso alla metodica abolizione della Legge fatta da quei cialtroni di cristiani? Tutt'altro! Anzi, come si era cominciato ad agire, così bisognava proseguire, attuando, il piano già progettato (§ 251), fino allo sterminio completo dei cristiani. Nella Bibbia non era stato forse decretato più volte il herem («guerra di sterminio») contro gli antichi Cananei?
258. Difatti l'attuazione del piano fu proseguita. Ottenuto l'intervento diretto del Sinedrio (206), s'iniziò contro la nuova fede una metodica persecuzione: la quale tuttavia fu diretta praticamente solo contro i cristiani ellenisti, sia perché essi erano i più zelanti impugna tori dei Giudei, sia anche perché a Gerusalemme essi figuravano come ospiti indesiderati da rinviarsi ai paesi di provenienza o almeno fuori della Città santa. Gli ellenisti, infatti, si sparpagliarono nei vari distretti della Giudea, della Samaria, e altrove; gli apostoli invece, perché palestinesi, poterono rimanere a Gerusalemme probabilmente indisturbati (Atti, 8, 1).
Ma l'inflessibile Paolo vigilava, e acutamente vide che la vittoria per allora ottenuta era solo apparente, seppure non era un peggioramento della situazione. Anche se i cristiani ellenisti più in vista si erano dileguati, in Gerusalemme restavano ancora le loro famiglie e molti altri non in vista. In primo luogo, dunque, bisognava ridurre costoro all'impotenza. Poi, era necessario anche inseguire i fuggiaschi, perché essi disseminati in Palestina e fuori avrebbero diffuso dappertutto quella maledetta peste che si portavano indosso. Resosi conto di questa situazione, Paolo si dette subito ad agire.
259. Cominciò con Gerusalemme. Ciò ch'egli fece ivi, è riassunto da Luca in queste parole: Saul devastava la chiesa (di Gerusalemme) entrando per le case, e trascinando via uomini e donne (li) consegnava in prigione (Atti, 8,3). Il verbo devastava (***) proviene forse dalla terminologia medica di Luca, giacché un corpo danneggiato da una. grave malattia era un corpo devastato, a somiglianza di una regione devastata dal nemico; il fatto, poi, che il verbo è all'imperfetto medio, accentua la durata della devastazione, che dovette consistere in un'azione prolungata per parecchi giorni, con molta cura, e secondo un piano ben preparato. Paolo e gli inquisitori da lui diretti entravano a forza nelle case più sospettate, preferibilmente quelle segnalate come posti di adunanza, e tutti i cristiani che vi erano sorpresi, uomini e donne, erano condotti in prigione. Del resto la gravità di questa persecuzione è confermata esplicitamente da chi la diresse, allorché attesta: Enormemente perseguitavo la chiesa d'Iddio e la danneggiavo (Gal., 1, 13).
In qualche settimana la situazione di Gerusalemme dovette esser sistemata, e allora la persecuzione fu estesa alla Diaspora. Paolo non volle concedere tregua al nemico, e subito si rivolse al Sinedrio chiedendo facoltà di agire contro i centri giudaici fuori, della Palestina che destavano più sospetti. L'autorità del Sinedrio si estendeva, in teoria, sui Giudei di tutto il mondo (207); in pratica, sui Giudei della Diaspora era più o meno efficace a seconda delle varie circostanze, ma era ancora notevole ,su grandi centri esteri che albergassero numerose comunità giudaiche e che fossero vicini alla Palestina. Tale era il caso, della città di Damasco, vicinissima alla Palestina e popolatissima da Giudei (§§ 32-33); poiché d'altra parte Paolo, aveva molti indizi per ritenere che quella città fosse gravemente infetta di cristianesimo, ne fece il primo oggetto dei suoi provvedimenti.
260. È probabile che il Sinedrio non avesse alcun desiderio di estendere la persecuzione né a Damasco né altrove fuor della Palestina: quel supremo consesso poteva ancora ricordarsi delle miti parole di Gamaliel, che aveva ammonito ad usare prudenza e tolleranza (§ 248); soprattutto, poi, l'immischiarsi nelle faccende di Giudei d'altre regioni era sempre, per i cauti Sinedristi; un'impresa pericolosa; ma il focoso Paolo tanto dovette dire e tanto fare, che riuscì a far accettare la sua opinione. Il suo antico maestro, Rabban Gamaliel, era sempre degno di venerazione, sì, ma a quell'ora doveva essersi rimbambito, invecchiato innanzi tempo. Come si poteva consigliare tolleranza verso la serpe che l'intero Israele covava nel seno? Al contrario tutti i Sinedristi dovevano agire in quell'occasione, i Sadducei per affermare la propria autorità anche all'estero, i Farisei per salvaguardare la Legge e le «tradizioni» paterne; cosicché Paolo finì per vincere, e, ottenne lettere indirizzate alle sinagoghe di Damasco con cui egli era autorizzato a fare in quella città quanto, aveva fatto in Gerusalemme, ossia inquisire, arrestare, e condurre gli arrestati uomini e donne a Gerusalemme.
261. Il giorno in cui Paolo, recando seco le lettere del Sinedrio, e contornato da buon numero di satelliti armati, si mise in viaggio per Damasco, fu certamente il giorno più felice, di quanti fino allora ne aveva vissuti. La sua felicità non consisteva tanto nella soddisfazione di aver piegato, il Sinedrio alla propria opinione, quanto nella coscienza della bontà di questa opinione. Adesso finalmente egli si sentiva vero difensore d’Israele! L'ufficio degli antichi profeti era stato trasmesso agli Scribi e ai Dottori, e come i profeti avevano messo mano alla spada per debellare i nemici d'Israele, così adesso dovevano fare Scribi e Dottori contro quegli infami di cristiani! Benedetto suo padre che lo aveva inviato a studiar la Legge, a Gerusalemme, e benedetta la propria costanza nello studiarla! Adesso egli ne raccoglieva i frutti: adesso egli si sentiva pronto, quale novello David, a combattere le battaglie di Jahvé (I Samuele, 18, 17; cfr. Numeri, 21, 14), e quale novello Geremia ad estirpare ed abbattere e distruggere e demolire tutti i nemici d'Israele (Geremia, 1, 10).
La sua non era un'esaltazione artificiosa o superficiale, era piuttosto la profonda convinzione di compiere un'opera nobilissima e santissima: ogni cristiano tolto di mezzo, era un ostacolo di meno al trionfo della Legge in cui si racchiudeva ogni giustizia. Certo, convinzioni individuali di questo genere si sono avute sempre e in tutte le religioni; ma ben di rado possono aver raggiunto la incrollabile saldezza raggiunta in Paolo, nel quale - nuovamente a somiglianza dell'antico profeta - tutto era compatto come colonna di ferro e come muro di bronzo (Geremia, 1, 18).
In queste disposizioni di spirito egli si mise in viaggio per Damasco.

LA CONVERSIONE
262. Il 2 aprile 1912 salpava dall'Inghilterra alla volta di New York un transatlantico che era al suo primo viaggio; capolavoro dell'ingegneria navale, costruito secondo ogni recentissimo ritrovato della tecnica e arredato con opulenza fantastica, l'immenso piroscafo avrebbe affrontato tutti i pericoli del mare con sicurezza superba. Anche il nome corrispondeva alla realtà; perché si chiamava Titanic. Questo viaggio inaugurale, che avrebbe servito da modello a una lunghissima serie di altri viaggi; doveva essere tutto un tripudio di vita lussuosa all'interno e un dominio incontrastato sugli elementi all'esterno.
Difatti, questo programma fu eseguito puntualmente per buona parte della traversata. Sennonché in pieno oceano avvenne l'imprevisto. Durante una notte stellata, con tempo calmissimo e atmosfera serena, mentre nei saloni dorati si svolgeva una festa suntuosa fra musiche e danze, la nave filando a tutta velocità andò a cozzare contro un'immensa montagna bianca che era sorta improvvisamente a sbarrare la sua rotta. Era uno smisurato iceberg che, staccatosi dalle ghiacciate regioni polari, andava alla deriva vagando per l'oceano. Tutti i dispositivi di salvezza risultarono vani; la nave squarciata in più punti affondò in brevissimo tempo, e delle 2350 persone ch'erano a bordo solo una metà riuscì a salvarsi (208).
Il viaggio del focoso Fariseo alla volta di Damasco fu, nel campo morale, una copia esatta del viaggio del Titanic. Il nocchiero Paolo era incrollabilmente sicuro di sé, dominava la sua rotta, aveva previsto tutto: tutto, salvo l'imprevedibile. Ad un tratto, sulla sua rotta, si profilò una montagna bianca, e contro di essa egli andò a cozzare. Forse era la montagna di cui anticamente avevano parlato i profeti, allorché avevano annunziato:
Alla fine dei giorni, sarà stabilita la montagna della casa di Jahvé sulla cima delle montagne, più elevata delle colline; ed affluiranno ad essa tutte le genti, accorreranno popoli molti dicendo: «Venite, ascendiamo alla montagna di Jahvè, alla casa del Dio di Giacobbe, affinché egli ci ammaestri circa le sue vie sì che noi procediamo sui sentieri di lui: perché da Sion uscirà la Legge, e la parola di Jahvé da Gerusalemme» (Isaia, 2, 2-3; cfr. Michea, 4, 1-2).
Sul lido alle falde di quella montagna divina, giacciono i rottami di tante navi naufragate ivi lungo i secoli, i cui navigatori si sono poi rifugiati sulla vetta di essa.
263. Per recarsi da Gerusalemme a Damasco si potevano seguire, fra strade principali e deviazioni, vari percorsi. Forse Paolo seguì quello più corto, fornito di comoda strada romana, che toccava in primo luogo Sichem, poi piegando alquanto a destra (senza toccare la città di Samaria) passava per Beisan-Scitopoli; di qui risaliva lungo la vallata del Giordano fin sotto il lago di Tiberiade: a questo punto si biforcava, e mentre, un braccio s'inoltrava ad Oriente del lago passando per Hippos e puntando attraverso il deserto direttamente su Damasco, l'altro braccio circuiva il lago ad Occidente, toccava la città di Tiberiade e quella di Magdala, e attraversato il Giordano a sud del lago el-Hule puntava su Damasco. È probabile che Paolo seguisse questo secondo braccio, sebbene alquanto più lungo, perché esso attraversava i paesi di Gesù, e ivi l'inquisitore aveva forse interesse di raccogliere dirette notizie circa i parenti e i seguaci dell'odiato nemico. La lunghezza del percorso poteva esser da 230 a 250 chilometri: una carovana di uomini validi, quale quella di Paolo e dei suoi satelliti, bene organizzata e fornita di quadrupedi, poteva compiere quel percorso in sette od otto giorni (includendovi il sabbato, di necessaria immobilità). Difatti il viaggio si svolse benissimo sino in fondo, allorché avvenne l'imprevedibile.
264. Il grande fatto avvenne sul mezzogiorno, mentre la carovana camminava sulla strada aperta ed era già vicina a Damasco (Atti, 9, 3; 22, 6; 26, 13) (209); probabilmente la città era non solo in vista ma anche a distanza così breve, che un uomo accecato e fisicamente menomato, potesse giungervi condotto da altri per mano e senza essere trasportato di peso (ivi, 9,8).
Mentre dunque Paolo con la sua scorta s'avanzava lungo la strada, un'improvvisa sfolgorante luce guizzò giù dall'alto e lo circonfuse. Abbagliato e smarrito egli stramazzò a terra. Allora percepì una voce che gli disse in aramaico: Saul, Saul, perché mi perseguiti?
Lo smarrimento dello stramazzato si accrebbe. Un rapido esame interno lo assicurò che la sua coscienza era a posto: egli stava perseguitando i Cristiani, ma costoro erano i nemici del Dio d'Israele, e perciò questo Dio non poteva che approvare la sua condotta: Domandò quindi ansiosamente: Chi sei, signore?
Ma l'arcana voce gli dette una risposta davvero inaspettata: Io sono Gesù il Nazoreo, che tu perseguiti. Duro (è) per te recalcitrare contro gli stimoli! (210).
265. Come il fulgore di poco prima aveva abbagliato la sua vista materiale, così questa risposta sconvolse la sua visione mentale, il suo giudizio sugli eventi umani. Il mondo intero gli apparve ad un tratto rovesciato: quel Gesù ch'egli aveva sprofondato nell'abisso del suo odio, adesso gli appariva al vertice di ogni cosa. Era non soltanto un «signore», ma il «Signore» in senso sovreminente. Paolo lo contemplava con i suoi occhi eretto là davanti a sé, ma soprattutto lo sentiva intimamente presente nel suo spirito; la sua asserzione «Io sono Gesù il Nazoreo» era penetrata soprattutto nello spirito di Paolo, suscitandovi un incoercibile consenso. Sì, il suo grande nemico era là, disvelatosi improvvisamente così potente, così dominatore! Ed egli lo stava a perseguitare, perseguitando i suoi fedeli! Era cosa durissima riconoscere lo sconfinato errore fino allora seguito, ma contro sì pungente stimolo non si poteva recalcitrare; la verità era adesso troppo palese per esser negata, e bisognava capovolgere interamente la visione del mondo. E, in mezzo a tanto soqquadro morale, che fare?
Questa domanda era, in realtà, la più spontanea. Venne difatti alle labbra dello stramazzato, il quale esclamò: Che farò, Signore?
La voce rispose: Lèvati su, entra in città, e ti sarà detto che cosa tu devi fare.
266. Frattanto gli uomini della comitiva stavano là attorno sgomenti: anch'essi, all'improvviso fulgore, erano stramazzati a terra, ma poi si erano man mano rialzati cercando di spiegarsi ciò ch'era avvenuto; avevano anche udito la voce arcana, ma in maniera confusa e indistinta, e senza scorgere il nuovo personaggio da cui proveniva. Cessato poi il dialogo di Paolo con la voce; essi lo videro rialzarsi da terra, ma poi rimanere là fermo e brancolante con le braccia nel vuoto. Si avvicinarono, e con stupore trovarono che pur tenendo gli occhi spalancati non scorgeva alcunché. Era cieco.
Al riscontrare siffatto risultato di tutta quella misteriosa scena, quegli uomini pensarono a se stessi, e da persone pratiche conclusero che bisognava allontanarsi immediatamente da un posto così pericoloso: si sarebbe discusso più tardi ed altrove, per spiegare quanto era avvenuto. Presero perciò Paolo per mano, e con la fretta ch'era possibile lo accompagnarono passo passo fino ci Damasco.
Il naufragio era avvenuto, improvviso e definitivo. Non c'era più nulla da fare riguardo al passato: c'era tutto da rifare riguardo all'avvenire. Il naufrago doveva abbandonare laggiù alle falde della montagna divina la sua nave squarciata, e doveva trasferirsi sulla vetta di, quella montagna. Lassù egli, come già Mosè, avrebbe ascoltato la voce di Dio.
267. Questo avvenimento, che fu come l'atto di morte del fariseo Saul e l'atto di nascita dell'apostolo Paolo, non è mai narrato minutamente nell'epistolario di lui ma solo accennato di sfuggita (211). Ciò è regolare: Paolo, infatti, non scriveva certamente le sue lettere per informare gli studiosi del sec. XX, bensì per ovviare a circostanze occasionali createsi tra i fedeli delle sue chiese; i quali erano benissimo informati del sommo avvenimento della vita del loro maestro, né costui aveva tempo da perdere ripetendo loro ciò che già sapevano. In compensa l'avvenimento. è narrato tre volte negli Atti: la prima volta (9, 3-19) parla Luca storicamente come autore del libro; la seconda (22, 6-16) Luca riporta il discorso tenuto da Paolo nel Tempio di Gerusalemme ai Giudei tumultuanti, e ivi l'oratore narra la propria conversione; la terza volta (26, 12-18) è analoga alla seconda, perché contiene il discorso tenuto da Paolo davanti al procuratore, Porcio Festo e al re Agrippa, con nuovo racconto della conversione.
Le tre relazioni sono assolutamente concordi quanto alla sostanza ed anche a vari particolari: tuttavia non sono talmente uniformi da potersi paragonare a un moderno resoconto stenografico. La relazione di Luca è di stile storico; le due di Paolo sono d'indole oratoria, e - cosa da aver ben presente - la prima è diretta a Giudei tumultuanti, mentre la seconda è diretta a un magistrato pagano e a un monarca giudeo. Queste indoli e destinazioni differenti spiegano adeguatamente le divergenze quantitative in più o in meno e gli spostamenti che si riscontrano fra le tre relazioni, e che sono tutti di lievissima entità.
268. Sono state rilevate anche alcune discrepanze concettuali. In una relazione (9, 7) è detto che i compagni di Paolo, dopo l'apparizione, stavano ritti (***) stupefatti, mentre in un'altra (26, 14) è detto ch'erano caduti tutti a terra. È un'inezia: da principio stramazzarono, ma subito appresso si rialzarono in piedi, se non altro per paura; del resto il verbo greco può anche significare in genere persistere, rimanere per qualche tempo in un dato stato d'animo, il che indurrebbe nel nostro caso a tradurre rimasero stupefatti per qualche tempo.
Così pure, una relazione (9, 7) afferma che i compagni udirono la voce arcana (***) ma non videro nessuno, mentre un'altra (22, 9) afferma che essi videro il fulgore ma non udirono la voce (***). Sennonché il verbo udire in greco poteva avere un doppio significato: quella più generico di percepire il suono materiale di parole o altro (sentire), e quello più determinato di afferrare il senso delle parole percepite (capire); anche oggi un tale potrà affermare di aver sentito un oratore ma di non averlo capito, di aver sentito qualcuno che chiamava ma di non aver capito chi egli chiamasse. Ora, confrontando accuratamente le due relazioni risulta (soprattutto nel testo greco con le particelle disgiuntive **…**) che si sono volute contrapporre le percezioni visive e uditive dei compagni di Paolo alle percezioni di Paolo stesso: i primi vedono il lume folgorante ma non scorgono alcun personaggio nuovo, mentre Paolo vede il lume e scorge Gesù che gli parla; così pure i primi sentono la voce arcana ma non capiscono le parole, mentre Paolo sente e capisce (212). La cura con cui le due relazioni vogliono far rilevare la parte avuta dai compagni di Paolo nell'avvenimento, è ispirata dal desiderio di presentarli quali testimoni incompleti ma disinteressati dell'avvenimento stesso.
269. È stata rilevata anche un'altra discrepanza, la quale tuttavia già implica i fatti. successivi all'apparizione sulla strada di Damasco. La terza relazione (26, 16-18) fa che il Cristo apparso annunzi egli stesso a Paolo la sua vocazione all'apostolato fra i Gentili, al termine dell'apparizione; al contrario la seconda relazione (22, 14-15) fa che l'annunzio sia dato a Paolo da Anania, con cui Paolo s'incontrerà più tardi in Damasco (§ 285). Ma bisogna osservare che Anania dà a Paolo quell'annunzio per espresso incarico avuto dal Cristo (9, 15-16), e quindi l'autorità del suo annunzio si riversa sull'autorità divina. In conseguenza di ciò la terza relazione tralascia del tutto l'intervento di Anania, e attribuisce l'annunzio direttamente al Cristo: e questa presentazione riassuntiva era opportuna perché nella terza relazione Paolo sta parlando al pagano Porcio Festo e al re romanizzato Agrippa, sui quali il nome di Anania non avrebbe fatto alcuna impressione, mentre un'apparizione divina che impartisse comandi era autorevole anche per quei due ascoltatori; e anche in questa presentazione oratoria riassuntiva Paolo rivela la sua formazione biblica, perché nell'Antico Testamento le parole di un inviato da Dio sono ritenute ordinariamente come parole di Dio stesso. Al contrario, nella seconda relazione Paolo sta parlando ai Giudei tumultuanti contro di lui nel Tempio, e perciò egli a bello studio mette in rilievo l'intervento di Anania, assai stimato da loro (22, 12), perché vuole sfruttare la testimonianza di un Giudeo ben accetto agli ascoltatori (213).
In conclusione, queste minute. divergenze rendono le tre relazioni assai più interessanti che se fossero letteralmente uniformi come tre resoconti stenografici. La concordia discors che già rilevammo a proposito delle fonti della vita di Gesù (214) si ritrova, sebbene in misura minore, anche qui e per ragioni storiche analoghe: le testimonianze provengono da fonti diverse, percorrono tragitti differenti, eppure convengono tutte alla stessa meta. Ora, trattandosi di testimonianze documentarie, una concordia discors è ben più interessante e di maggior valore storico che una concordia concors.

270. La conversione di Paolo è nella storia delle origini cristiane l'avvenimento di maggiore importanza e, di conseguenze più decisive, dopo la resurrezione di Gesù; anzi, per coloro che considerano - falsissimamente - Paolo come il vero costruttore concettuale del cristianesimo, l'adesione di lui a Gesù segna il vero inizio della nuova fede, mentre la resurrezione di Gesù resta un semplice articolo di quella fede.
È chiaro che i razionalisti, come non ammettono la resurrezione di Gesù, così non possono ammettere la conversione di Paolo quale è narrata dalle fonti; ma, anche dopo questa negazione, rimane ad essi il compito dell'affermazione, cioè di spiegare come sia avvenuto il mutamento spirituale di Paolo e di sostituire la narrazione delle fonti con una narrazione «razionale» da essi preparata. I tentativi fatti, in realtà, sono molti: cominciano a un dipresso insieme con i tentativi sulla vita di Gesù (215), e mostrano le stesse caratteristiche, ossia una concordia assoluta nell'escludere ogni elemento soprannaturale in ossequio al «dogma laico» (§ 120 segg.), e una sconfinata libertà nel respingere o deformare le testimonianze documentarie e nel presupporre fatti recisamente esclusi da queste testimonianze.
271. I primissimi tentativi (216) si occuparono soltanto della parte esterna dell'avvenimento, cercando di spiegare ciò ch'era accaduto materialmente là sulla strada di Damasco. Erano i tempi eroicamente ingenui in cui il professore di Heidelberg, H. E. G. Paulus, spiegava col sua metodo naturalistico i miracoli dei Vangeli, compresa la resurrezione.di Gesù (217): Gesù era risorto perché non era morto mai, ossia perché essendo stato deposto soltanto svenuto nel sepolcro si era a poco a poco riavuto, mercé il riposo e le esalazioni eccitanti degli aromi sparsigli dattorno, e così era uscito fuori apparentemente redivivo. Ora, questa spiegazione parve ad alcuni studiosi tedeschi di quei tempi che offrisse un bellissimo spunto anche per la conversione di Paolo; un bel giorno Gesù, resuscitato in quella maniera, s'incontra nei pressi di Damasco col suo feroce persecutore Paolo, e abbordatolo risolutamente lo rimprovera con asprezza: a quella vista inaspettata, a quelle dure rampogne, Paolo rimane allibito e si converte. E così, tutto è spiegato.
Oggi, spiegazioni di tal genere possono fare l'impressione di strumenti dell'età della pietra conservati in un museo; ma sarebbe un'impressione inesatta, perché il metodo implicito in quella spiegazione è molto meno arcaico di quanto sembri, e fu seguito ancora per molto tempo sebbene solo parzialmente e con maggiore finezza e disinvoltura: spiegazioni anche recentissime hanno portato, come argomento sussidiario, qualche fatto materiale esterno che avrebbe influito sul repentino mutamento di Paolo.
272. Ad ogni modo il metodo naturalistico applicato con quella crudezza apparve subito troppo grossolano per poter trovare credito. No, bisognava seguire un altro metodo: bisognava in primo luogo selezionare come al solito i testi, e poi rivolgersi alla parte interna dell'avvenimento, al dramma psicologico di Paolo; invece, le circostanze materiali esterne erano da considerarsi come del tutto secondarie o trascurabili affatto.
Quanto ai testi, c'era poco da selezionare. Per respingere la resurrezione di Lazaro molti studiosi adducevano la ragione che era narrazione unica, particolare al IV vangelo e taciuta dai Sinottici (218); ma per la conversione di Paolo esistevano tre relazioni, e tutte equivalenti nella loro concordia discors. Non restava quindi che stendere su tutte e tre una generale diffidenza, asserendo che tutte si riversavano sull'unico redattore degli Atti il quale aveva lavorato di fantasia e si era ripetuto fino ad annoiare (219). Tutt'al più si poteva ritenere che sulla via di Damasco fosse avvenuta una manifestazione subitanea del travaglio interno che tormentava Paolo, uno scoppio repentino della crisi psicologica; ma certamente il fatto si era svolto ben differentemente da come pretendevano le tre relazioni.
273. L'indagine psicologica su Paolo fu messa in prima linea da C. Holsten, che dal 1861 ne fece argomento particolare delle sue ricerche (220); egli era discepolo del Baur (§ 125), e assumendosi questo compito volle quasi raccogliere l'eredità del maestro, il quale sfiduciato aveva ammesso che nessuna analisi psicologica o dialettica risolveva il problema della conversione di Paolo. La risoluzione proposta dall'Holsten scorgeva nel fatto una crisi intellettuale avvenuta in un soggetto predisposto: Paolo era un epilettoide, estremamente sensibile, proclive a trasferire in una sfera di estasi e di visioni le impressioni intellettuali che riceveva; dopo un oscuro periodo di passiva acquiescenza riguardo alla religione giudaica, il suo spirito improvvisamente si risveglia, s'inalbera; respinge gli antichi concetti e contempla una visione intellettuale affatto nuova: è la liberazione della sua mente, è la prima «visione» del Cristo, alla quale terrà dietro tutta una serie di altre visioni nevrotico-estatiche. Così egli iniziò quell’«atto immanente» del suo spirito, che costituì appunto la sua conversione.
L'Holsten rimase convintissimo di questa sua spiegazione, e con lui A. Hilgenfeld e qualche altro; molti invece dissentirono da lui, specialmente W. Beyschlag che replicò acutamente.
274. Una spiegazione ugualmente psicologica propose nel 1890 O. Pfleiderer, insistendo però sull'indole morale e sugli elementi cristiani che avrebbero influito sulla conversione. Paolo era rimasto assai scosso dalla morte tanto serena e tranquilla di Stefano, e ne provava un continuo rimorso; questo turbamento lo aveva indotto a entrare in discussioni con i cristiani da lui perseguitati e imprigionati dopo quella morte, e così mentre il suo rimorso s'aumentava, la sua mente riceveva nuovi impulsi verso il cristianesimo; d'altra parte egli riscontrava sempre più l'insufficienza della Legge giudaica ad apportare liberazione all'uomo, tanto che ad un certo punto egli - capovolgendo la situazione - si domandò se questa liberazione non fosse davvero apportata da quel Gesù morto in croce e così somigliante a quel Giusto sofferente per il bene degli altri di cui parlavano le Scritture ebraiche (Isaia, 53); si aggiunga, come condizione remota, che Paolo era di carattere impetuoso, predisposto a passare in un attimo da un estremo all'altro; non si tralasci anche un pochettino di fattore materiale esterno, ossia l'improvviso passaggio nelle vicinanze di Damasco dalle riarse piste del solitario deserto agli ameni giardini attornianti la città: fatto sta che l'insieme di tutte queste cause fece crollare il persecutore al momento in cui doveva iniziare la persecuzione, e da nemico lo mutarono di colpo in amico. Tuttavia verso la fine lo Pfleiderer, mostrando una inaspettata accortezza, ammette che pur dopo queste prove il problema non è ancora completamente risolto, e perciò egli lascia il margine ad una rivelazione religiosa nel senso più stretto della parola.
275. La spiegazione presentata da E. Renan (Les Apotres, 1869, chap. X) fu, secondo il suo solito, di tipo eclettico-estetizzante. Fra gli elementi che egli desunse da varie parti, assegnò grande importanza ai fattori materiali esterni, perché con essi lo scrittore artista si ritrovava nel suo campo: quando egli poteva descrivere un dramma psico-fisico-sentimentale sullo sfondo di un paesaggio appropriato, era in pieno trionfo e buttava fuori pagine su pagine tutte di effetto meraviglioso.
Paolo, dunque, s'avvicina a Damasco per iniziarvi la persecuzione, ma come tutte le anime forti era vicino ad amare ciò che odiava, avendo egli inteso parlare delle apparizioni di Gesù, talvolta gli par quasi di vedere la dolce figura del maestro che lo guarda con aria di pietà e con un tenero rimprovero; d'altra parte il suo ufficio di carnefice gli diventa sempre più odioso; inoltre, egli è stanco del cammino, ha gli occhi infiammati, forse un principio d'oftalmia, e adesso sul finire del viaggio egli passa dalla pianura divorata dal sole alle fresche ombre dei giardini; tutto ciò determina un accesso nell'organismo malaticcio e gravemente scosso del fanatico viaggiatore, perché le febbri perniciose accompagnate da riflessi nel cervello sono totalmente subitanee in quelle regioni (221); probabilmente scoppiò insieme un temporale, giacché i fianchi dell'Hermon sono il punto di formazione di tuoni di violenza incomparabile, e le anime più fredde non traversano senza emozione quelle spaventevoli piogge di fuoco (222). Ormai tutto è chiaro; Paolo nel suo accesso di febbre perniciosa ha scambiato un lampo del temporale con un'apparizione del dolce maestro, un tuono con la voce di lui, ed eccolo radicalmente mutato per tutta la vita e fino al martirio. - Risolta però la questione di Paolo, ne sorge un'altra riguardo al Renan stesso: egli, che d'intelligenza ne aveva da vendere, avrà creduto veramente alle scintillanti pagine da lui scritte, ovvero gli bastava che ci credessero i volteriani cavalieri e le intellettualoidi dame dei salotti parigini?
276. Il secolo XX s'inoltra nella spiegazione psicologica della conversione di Paolo; spesso neppure si accenna se la risoluzione della crisi psicologica avvenisse realmente sulla strada di Damasco, oppure se tutta quella scena sia da considerarsi una finzione; quando raramente si ricorda la scena della strada, è di solito per estrarne qualche fattore materiale esterno che agevoli in maniera sussidiaria la risoluzione della crisi.
I fattori spirituali della preparazione psicologica sono quelli addotti nel passato, tutt'al più schiariti differentemente o anche accresciuti da qualche nuovo elemento che proviene dalle ricerche. scientifiche compiute nel frattempo. Molti studiosi presuppongono in Paolo una remota predisposizione alla crisi per il fatto che egli si sarebbe sentito in profondo disagio spirituale vivendo sotto la Legge giudaica: questo disagio per alcuni sarebbe arrivato al punto che Paolo, anche prima di aderire al Cristo, era già intimamente convinto che la Legge giudaica era incapace di apprestare all'uomo la liberazione spirituale da lui ansiosamente ricercata; per altri, invece, Paolo avrebbe avuto la consapevolezza che l'uomo, nello stato di peccato e di colpa, non era in grado di osservare i precetti di quella Legge, la quale del resto in se stessa era buona e divina. La sola prova positiva addotta per affermare questo travaglio interno di Paolo è il passo della lettera ai Romani (7, 7-25) ove egli parla del contrasto nell'uomo fra la carnalità umana e la Legge, passo che avrebbe anche un valore autobiografico (§ 243). Quanto alla causa efficiente di questo disagio spirituale, parecchi studiosi la ritrovano nell'impressione lasciata in Paolo dal mondo intellettuale ellenistico in mezzo al quale egli era nato; alcuni pochi la ritrovano nell'influenza esercitata su lui dall'insegnamento di Gamaliel, che era di tipo largo e liberale come la Scuola di Hillel (§ 75), in contrasto con il restante fariseismo gretto ed arcigno; altri studiosi propongono altre cause di vario genere.
277. A queste cause di tipo piuttosto negativo, si aggiungano i fattori positivi che attirano lo smarrito Paolo verso la nuova fede. Solo una minoranza suppone una conoscenza che Paolo avrebbe avuto del Gesù mortale (§§ 245-246), da cui sarebbe stato vivamente impressionato. Molti invece pensano a un grande attraimento esercitato su lui da taluni concetti delle religioni orientali, specialmente da quello iranico dell'Uomo primigenio, o da quello di una divinità salvatrice che soffre e muore quale si ritrovava nelle religioni di mistero (§281): concetti di questo genere Paolo avrebbe poi trasferiti su Gesù di Nazareth. Taluni preferiscono un particolare concetto di Messia apocalittico quale fu rappresentato nel giudaismo tardivo; altri invece, ritenendo che il concetto avuto del Messia Gesù dai cristiani ellenisti fosse differente da quello avuto dai giudeo-cristiani di Gerusalemme, pensano che Paolo sia stato conquistato dal concetto del Messia Gesù degli ellenisti, presupponendo come condizione necessaria che egli non si sia affatto trovato in Gerusalemme alla morte di Stefano ed alla successiva persecuzione contro i cristiani.
Questi sono i principali: elementi della asserita preparazione psicologica di Paolo (fra molti altri che per brevità tralasciamo); ma ben raramente essi son? addotti in maniera isolata, mentre di solito se ne propongono due o più insieme come coefficienti simultanei per raggiungere un peso maggiore con le varie possibilità sommate insieme. Spesso è richiesta esplicitamente, una costituzione anormale e psicopatica in Paolo; talvolta è aggiunto qualche fattore materiale esterno; tal altra, nonostante tutto, si conclude inaspettatamente con una vaga confessione di sfiducia; quasi dettata da prudenza scientifica, ammettendosi che l'avvenimento non potrà mai essere esplorato a fondo.
278. Come esempio di spiegazione prudenziale ed eclettica insieme può esser citato il Loisy (Actes, 1920, pag. 395 segg.). Egli si mostra diffidente dell'idea stessa di una preparazione psicologica; ma, non potendo esimersi, tratta anch'egli la questione sebbene in maniera vaga e periferica. Paolo non era più sicuro della Legge giudaica, della sua perfezione, della sua efficacia morale, della sua forza d'attrazione verso i pagani; egli inoltre era in un état cerébral relevant de la psychiatrie; in realtà, il suo pensiero si era riempito, suo malgrado, di quel Cristo ch'egli combatteva, et un beau jour, dans une crise psychique, elle lui le imposa en quelque sorte à lui-méme par une hallucination assez forte pour déconcerter sa volonté, et le subjuguer littéralement à l'impression de son réve; la scena, poi, assume artificiosamente nella narrazione un aspetto metereologico, elettrico, che farebbe pensare a qualche fenomeno esterno analogo; quanto ai compagni di viaggio, devono essere una invenzione del narratore che ha voluto preparare degli assistenti al futuro cieco.
Infine, non sono pochi gli studiosi razionalisti che, respingendo risolutamente ogni tentativo di spiegazione psicologica, affermano che la conversione di Paolo è e rimarrà un problema insolubile; anche più numerosi sono gli studiosi del campo protestante che la considerano apertamente come risultato di un intervento soprannaturale.
279. Come il lettore avrà facilmente osservato, il Paolo delineato in tutte queste spiegazioni, le quali si preoccupano quasi unicamente di eliminare l'elemento soprannaturale, non è affatto il Paolo presentato dai documenti. Sarebbe come se, volendo spiegare la conversione di Agostino, una studioso lo descrivesse come un gran condottiero d'eserciti rovinato dall'invidia di colleghi, e quindi datosi a Dio: oppure come un grande politico sconfitto dai suoi avversari, e quindi datosi a Dio: oppure come un amante invaghitosi perdutamente ma inutilmente di una donna, e quindi datosi a Dio. Ma no: tutti questi Agostini non sono l'Agostino delle Confessioni, il quale ci ha ivi narrato come avvenne realmente la sua conversione; e chi abbandona la narrazione di questo libro per sostituirla con altre narrazioni contrastanti, potrà delineare Agostini di vario tipo, disegnati con abilità più o meno sagace, ma saranno tutti Agostini romanzeschi, giacché l'Agostino storico è solo quello delle Confessioni. Lo stesso si dica del caso nostro: i Paoli delineati nelle varie spiegazioni testé viste saranno disegnati più o meno abilmente, ma sono figure da romanzo: il Paolo della storia è quello dei documenti.
280. Ora, è certamente assai comodo e assai facile respingere una affermazione dei documenti perché dà fastidio, oppure inventare di sana pianta un particolare di cui si ha bisogno sebbene sia in contrasto con i documenti; ma in questa maniera si fanno dei romanzi, non già della storia. E, quel ch'è peggio, siffatti romanzi sono esposti ad umilianti smentite.
Alcune smentite sono dirette e immediate: ad esempio, abbiamo visto un momento fa che per il Loisy i compagni di viaggio di Paolo sarebbero una invenzione del narratore; ma il Loisy osò affermare simile enormità per la sola ragione che era uno studioso da tavolino, e come non aveva attribuito mai alcuna importanza alla archeologia e alla geografia storica, così pure non conosceva le costumanze dell'Oriente, e perciò non sapeva che in Oriente i viaggi un po' lunghi non si fanno mai da soli ma sempre in carovana; tanto più, quindi, Paolo doveva essere accompagnato e fortemente scortato in quanto il suo viaggio durava sette od otto giorni (§ 263), ed egli andava a Damasco non già in gita di piacere ma per compiervi un'azione di autorità e di violenza.
Altre smentite sono meno immediate ma non meno recise. Le spiegazioni esaminate ci presentano un Paolo agitato dai rimorsi, o in travaglio spirituale, o influenzato dall'ellenismo e simili; ma questi sono meri postulati, e per di più contraddetti da tutto ciò che di più sicuro sappiamo sul conto di Paolo. Agitato egli da rimorsi? Tutt'altro! Vantarsi e compiacersi, e tripudiare egli doveva, sia nella sua coscienza sia davanti a Dio, per aver tolto di mezzo Stefano e altri nemici della legge, non già sentirne rimorso! Non era egli il Fariseo integerrimo, tutto d'un pezzo, vibrante per la sua idea e dedicato totalmente ad essa? Quale rimorso avrebbe potuto sentire un furioso iconoclasta bizantino del sec. VIII per aver fatto crollare buon numero di chiese addosso ai cristiani radunati in esse? E ai nostri giorni qualche alto ufficiale germanico, inviato in Italia a rappresentarvi il regime nazista, quale rimorso avrebbe sentito per avere qui derubato e poi mitragliato migliaia di Ebrei, là torturato e poi impiccato migliaia di cristiani, un po' dovunque svaligiato sacrestie e musei inviandone il contenuto in Germania? Non era tutto un nobilissimo Kulturkampf per il trionfo dell'idea nazista? Anzi, se un rimorso poteva sorgere in quell'alto ufficiale, era di non aver ridotto tutta l'Italia ad un Sahara. Fatte le debite proporzioni, Paolo sulla strada di Damasco si trovava in condizioni di spirito analoghe.
281. Paolo in disagio sotto la Legge? Nessuno dissimula le sue osservazioni sulla Legge, ma esse sono posteriori all'avvenimento sulla strada di Damasco non già anteriori ad esso, sono un effetto di quell'avvenimento non già una causa: il rovesciare i rapporti, supponendo che Paolo osasse giudicare in quel modo la Legge anche prima di Damasco, non: è che una puerile petitio principii. Lungi dall’essere in disagio sotto la Legge, Paolo ci si trovava deliziosamente bene come i suoi colleghi rabbini descrittici dalla Mishna.
E un rabbino di pura tempra come lui, educato alle più ortodosse scuole di Gerusalemme, sarebbe stato sotto l'influenza dell'ellenismo e delle religioni orientali? Il suo spirito sarebbe stato lentamente minato dai concetti delle religioni misteriche o da quello iranico dell'Uomo primigenio, fino a che poi crollò trasferendo questi concetti su Gesù di Nazareth? La risposta a queste domande è semplice, ed è suggerita da chiare analogie storiche: chi riesce ad immaginarsi un Savonarola che faccia festosa accoglienza ai licenziosi Canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico, oppure un Bellarmino che legga con delizia e raccomandi uno scritto di Lutero, oppure ai nostri giorni un Fr. Delano Roosevelt che prescriva nelle scuole americane la lettura e lo studio degli scritti di Hitler, ebbene costui potrà forse - ma non è cosa ben sicura - immaginarsi un rabbino Paolo che accolga benevolmente concetti religiosi pagani da qualunque parte vengano. Non aveva egli letto mille volte nella Legge ebraica che l'idolatria era il delitto sommo per un Israelita, e che i culti stranieri erano un adulterio che la nazione eletta avrebbe commesso contro il suo sposo Jahvé? Se gli fosse stato permesso, egli nel suo zelo non avrebbe esitato a ripetere contro tutti i culti idolatrici il gesto di Phinees, così energico e così lodato dalla Bibbia (Numeri, 25, 7 segg.; Salmo 106, Vulgata 105, 30; 1 Maccabei, 2, 26-54) ed accennato più tardi da Paolo stesso (1 Cor., 10, 8). Del resto basta leggere il trattato Abodah Zarah, che la Mishna riserba al culto idolatrico, per comprendere storicamente in quale ostilissima disposizione; d'animo si trovassero Paolo e i suoi colleghi rabbini riguardo alle più tenui ramificazioni dell'idolatria; ma poiché si vuol fare della storia aprioristica,e non della storia documentaria, si passa alla leggi era sopra a tutte queste testimonianze (223).
282. Perciò si è sostenuto perfino che Paolo non era poi un fariseo così focoso e zelante, e per dare una base comechessia a questa affermazione si è negato che egli avesse studiato a Gerusalemme sotto Gamaliel. Ma se è comodo negare arbitrariamente ciò che dà impaccio, sarà tanto più ragionevole rispondere respingendo sull'autorità dei documenti siffatte negazioni - supposto sempre che si voglia fare della storia e non del romanzo, e che si preferisca l'Agostino delle Confessioni all’Agostino o guerriero o politico o innamorato.
Le rimanenti ipotesi proposte sono anche più fragili, e del resto hanno trovato assai scarsi seguaci. Paolo non fu spinto ad aderire a Gesù perché avesse assimilato in precedenza il concetto del Messia apocalittico diffuso nel giudaismo tardivo: prescindendo infatti da altre considerazioni, un accurato confronto tra questo concetto del Messia - quale si ritrova nei vari scritti dell'apocalittica - e il concetto che Paolo nei suoi scritti mostra di avere del Messia Gesù, sono del tutto diversi (224). Non è più solida l'ipotesi che fa dipendere la preparazione psicologica di Paolo dal fatto che egli aveva assimilato il concetto del Messia Gesù diffuso fra i cristiani ellenisti e contrastante con quello diffuso fra i giudeo-cristiani: prima di tutto questa ipotesi presuppone gratuitamente una dipendenza del rabbino Saul dai cristiani ellenisti che non è giammai attestata, mentre in compenso respinge ingiustamente la bene attestata permanenza di lui in Gerusalemme prima della conversione; poi, anche qui, il confronto fra la fede di Paolo e quella comune al resto del cristianesimo primitivo smentisce l'ipotesi, perché mostra il pieno accordo ch'esisteva tra le due fedi (225).
283. In conclusione: perché si è convertito Paolo? Ce lo dice egli stesso, con un termine ricco di sfumature: Fui ghermito da Cristo Gesù (Filipp., 3, 12). Il verbo greco, ***, potrebbe anche tradursi fui sorpreso, fui conquistato, fui fatto preda, e viene applicato ad una persona che sia colta improvvisamente da un dato avvenimento, ad un guerriero che sia preso prigioniero, ad un premio che sia conquistato in una gara, alla selvaggina che sia catturata alla caccia.
Egli, in sostanza, fu ghermito all'impensata dal Cristo Gesù, che con longanimità e sagacia lo aveva spiato ed appostato, e ad un tratto era piombato addosso (***) a lui e si era impossessato (***) di lui. L'invisibile arciere lo aveva spiato e pedinato da antica data, perché aveva messo gli occhi su lui fin da quando era nel seno di sua madre (Gal. 1,15); l'appostamento invece avvenne sulla strada di Damasco, nella maniera che già sappiamo; la freccia fu scoccata, volò infallibile, s'infisse nelle vive carni della preda, ma in qual maniera l'imperscrutabile arma domasse e conquidesse e trasmutasse in un sol colpo quella selvaggia fiera, è ciò che non sappiamo e non sapremo giammai.
Sono i segreti di Dio.
284. Accompagnato lentamente per mano (§ 266), Paolo entrò in Damasco. Date le condizioni in cui egli si trovava, gli uomini della sua scorta giudicarono ch'egli avesse bisogno soprattutto di riposo; lo condussero perciò in casa di un certo Giuda, probabilmente il più rinomato albergatore della colonia ebraica locale. La casa era situata in una delle migliori strade della città, la cosiddetta «Via Diritta» (Atti, 9, 11), la quale attraversava Damasco in tutta la sua larghezza da Oriente ad Occidente ed era fiancheggiata da un doppio colonnato: di questo colonnato rimangono oggi notevoli avanzi, come pure è rimasto tradotto in arabo l'antico nome della strada (Darb al-mustaqim): la quale inoltre, diventata più stretta, segue più o meno il tracciato dell'antica. In quel comodo albergo, Paolo rimase tre giorni senza vedere, e non mangiò né bevve (ivi, 9): il medico Luca, che fornisce queste notizie, non poteva trascurare questi fenomeni fisiologici che tennero dietro al grande incontro.
I fenomeni, del resto, sono regolarissimi. Dopo ciò ch'era avvenuto e senza sapere ciò ch'era per avvenire, Paolo si trovava in uno stato di totale smarrimento. Le tenebre dei suoi occhi sembravano riflettersi anche sul suo spirito: o meglio, no, nel suo spirito egli non aveva tenebre bensì luce; tuttavia era una luce indistinta, vaga, era come nube luminosa entro cui egli non riusciva ancora a percepire alcunché di preciso.
Gli era stato annunziato che, entrato che fosse nella città gli sarebbe stato detto ciò, ch'egli doveva fare (§ 265). Detto da chi? In che maniera? Da un uomo o da un angelo? Sarebbe avvenuta un'altra visione? Paolo era all'oscuro di tutto ciò. E' allora, in attesa che la nube luminosa che avvolgeva il suo spirito si trasformasse secondo la promessa avuta in una netta percezione, egli pregò (ivi, 11). A chi rivolse la sua preghiera? Certamente a Jahvé, il Dio d'Israele, come aveva fatto per il passato; ma adesso, la rivolse anche a quel Gesù ch'egli nel passato aveva tanto odiato, ma che adesso improvvisamente egli ritrovava come dominatore nel più intimo del suo spirito.
285. C'era un seguace della nuova fede, di nome Anania, stimato sia a Damasco sia a Gerusalemme come uomo pio secondo la Legge (Atti, 22, 12). Quando e in quali circostanze Anania avesse aderito alla nuova fede, non ci è noto: forse era uno dei cristiani allontanatisi da Gerusalemme per sfuggire alla persecuzione (§ 258); certo è ch'egli conosceva di fama Paolo come persecutore dei cristiani a Gerusalemme, e aveva anche risaputo della missione che egli aveva avuto per Damasco (9, 13-14): forse, come cristiano più in vista, era uno dei primi che Paolo avrebbe dovuto imprigionare. A costui il Signore, ossia Gesù, comandò in visione di recarsi alla Via Diritta, in casa di Giuda, per visitarvi un uomo di nome Saulo Tarsense che in quel momento pregava (226). Avendo Anania obiettato quanto egli sapeva sul conto di quell'uomo, il, Signore rispose: Và, perché vaso di elezione (ebraismo per strumento eletto) è per me costui, affin di portare il mio nome davanti e a Gentili e a re e a figli d'Israele; io infatti gli mostrerò quante cose deve egli soffrire per il nome mio (ivi, 15-6) (227). A questa dichiarazione, Anania obbedì.
Se si accetta la comune indicazione odierna, che mostra il luogo della casa di Anania nel quartiere cristiano poco a Nord dell'estremità orientale della Via Diritta, il tragitto dalla sua casa a quella dove stava Paolo era una breve passeggiata. Entrato da Paolo, Anania, imposte su lui le mani disse: «Saul fratello, il Signore mi ha inviato, Gesù l'apparso a te nella strada per cui venivi; affinché (tu) veda e sii riempito di Spirito santo». E subito caddero giù dagli occhi di lui come squame (***), e ci vide. E levatosi su, fu battezzato (ivi, 17-18).
286. Questo è lo schematico racconto di Luca: ma certamente sono state tralasciate le molte cose che i due interlocutori dovettero dirsi, anche a mutuo schiarimento. Anania, dunque, si presenta a Paolo come apportatore di luce materiale e morale: fa che egli veda e che sia riempito di Spirito santo.
È molto probabile che Anania possedesse il carisma delle «Guarigioni» (§ 216), e quindi se ne servisse regolarmente nel caso di Paolo come forse aveva già fatto in altri casi. Quando egli ebbe imposte su lui le mani, dagli occhi del cieco caddero come squame: quest'ultima indicazione è da interpretarsi in senso materiale, oppure metaforico? Si staccarono veramente come delle, pellicole dagli occhi del cieco, oppure egli riacquistò la vista nella stessa guisa che se fossero state rimosse dai suoi occhi delle squame ottenebranti? Parecchi studiosi preferiscono questa seconda interpretazione, soltanto metaforica; sennonché tutta la costruzione della frase (il come riferito direttamente a squame) suggerisce alla prima impressione il senso materiale: si aggiunga che chi narra è il medico Luca, sempre attento ad osservare e segnalare fenomeni fisiologici. Non ha poi alcun fondamento l'opinione che scorge in questo fatto una prova della presunta oftalmia di Paolo (§ 198, nota): essendo miracolosa, questa guarigione, avrebbe risanato Paolo anche dalla oftalmia naturale qualora l'avesse avuta.
287. Ricevuta la luce del corpo mediante la guarigione, e quella dello spirito mediante l’infusione dello Spirito santo, Paolo fu battezzato. Egli certamente conosceva di fama il battesimo come rito fondamentale per i seguaci del Cristo Gesù, e altre spiegazioni sull'efficacia del rito gli furono fornite da Anania (cfr. Atti, 22, 16): perciò ricevette subito il rito, per essere incorporato anche ufficialmente nella società del Cristo Gesù. Forse il battesimo avvenne nella agiata casa di Giuda, ove non potevano mancare ampie vasche per abluzioni, perché Damasco fu sempre una città ben provvista di acque.
Anche dopo aver presentato in tal modo Paolo come nuovo cristiano, Luca non riesce a dimenticare di esser medico: vistolo ormai nato a una nuova vita spirituale, egli dà un'ultima occhiata alla sua vita fisiologica, e sentenzia clinicamente: E, avendo preso nutrimento, acquistò forza (ivi, 19).
Dopo tre giorni passati senza mangiare né bere, il fatto sembra normale, eppure nella notizia del sottile Luca è implicito un ammonimento anche morale. Paolo, diventando cristiano, non diventava un fanatico: anzi si allontanava più che mai da quello stato di esaltazione fachirica che, alcuni anni appresso, indurrà più di quaranta dei suoi connazionali a sacramentare di star senza mangiare e bere finché non avessero ammazzato Paolo (Atti, 23, 12-13). Paolo no: diventato cristiano, egli mangia e beve e si rimette in forze. Insieme con l'equilibrio spirituale, riacquistava l'equilibrio fisiologico.

I PRIMI ANNI CRISTIANI
288. Le grandi conversioni al Cristo non hanno mai importato la soppressione dell'indole individuale, ma solo la sua sublimazione: la psiche del convertito rimane sostanzialmente quella di prima, soltanto che viene sollevata in una sfera immensamente più alta. Francesco d'Assisi era stato poeta prima, e poeta rimase dopo; Ignazio di Loyola aveva fatto il soldato prima, e seguitò a farlo anche dopo, organizzando e comandando una truppa a cui dette regolarmente il nome militare di «compagnia», e inoltre scrivendo un manuale di tattica e di strategia a cui dette il nome di «esercizi». Anche prima di Francesco e d'Ignazio e di tanti altri, Paolo sottostò a questa regola: l’«uomo» ch'era nascosto in Saul, rimase anche in Paolo; soltanto che prima quell’«uomo» sosteneva il fariseo rabbino, poi invece sostenne il cristiano apostolo.
Perciò avvenne, fin da principio, che l'impetuosità connaturale dell'«uomo» lo spinse ad agire immediatamente come cristiano: era mai possibile restarsene inoperosi con una tempra come la sua, e dopo un fatto quale l'incontro sulla strada di Damasco? In città Paolo si unì palesemente con i cristiani, pur continuando insieme con essi a frequentare le sinagoghe: ivi, nei discorsi omiletici permessi a ogni intervenuto, egli si dette, a predicare Gesù, (affermando) che costui è il Figlio d'Iddio (Atti, 9, 20). Ciò che poche settimane prima aveva fatto Stefano a Gerusalemme (§ 251), Paolo adesso faceva a Damasco quasi avesse raccolto l'eredità morale di quella sua vittima. Ne risultò quello ch'era facilmente prevedibile; si stupivano però tutti gli ascoltatori e dicevano: «Non è costui quello che perseguitava a Gerusalemme coloro che invocavano questo nome, e qua è venuto per questo (scopo), affin di condurli legati ai sommi sacerdoti?» (ivi, 21).
Ma questo primo saggio di apostolato fu breve, solo di alcuni giorni (ivi, 19). Come già concludemmo dall'esame dei documenti (§ 152), Paolo subito appresso si allontanò da Damasco per ritirarsi in Arabia.
289. RITIRO IN ARABIA. FUGA DA DAMASCO. Le ragioni del ritiro in Arabia non ci sono note, e possiamo solo avanzare qualche congettura. È, poco probabile che Paolo si allontanasse da Damasco per sfuggire a minacce dei Giudei irritati dal suo repentino cambiamento: troppo recente era questo suo cambiamento per fargli temere quelle minacce, le quali del resto sono poco verosimili anche da parte dei Giudei ancora non bene edotti sul nuovo atteggiamento di Paolo. È possibile invece che Paolo, avendo conoscenti in qualche centro abitato dell'Arabia, avesse motivi speciali per recarsi subito là, a vi andasse per predicarvi la sua nuova fede.
Ma a quale regione allude questo termine di Arabia? Il termine e troppo vago, perché a quei tempi esso si applicava a tutti gl'immensi territori di là dal Giordano che si estendevano al Nord, fino all'alta Siria, all'Est fino all'Eufrate e al Sud fino al Mar Rosso: i quali territori, inoltre, erano molto meno deserti di oggi, e includevano numerosi e fiorenti centri abitati. Si ritirò Paolo in uno di questi centri situato nelle vicinanze di Damasco? Può darsi: e allora si spiegherebbe anche perché la narrazione degli Atti tralasci la menzione di questa permanenza, considerandola tutt'una con quella di Damasco. Ma può darsi anche che si alluda a qualche zona solitaria dell'Arabia deserta: per ragioni ideali si è pensato perfino al monte Sinai (cfr. Gal., 4,25). È certo possibile che Paolo, dopo il totale rivolgimento avvenuto nel suo spirito, sentisse bisogno, di appartarsi durante qualche tempo per meglio orientarsi, concettualmente ed umanamente, nel nuovo mondo spirituale in cui si ritrovava. In realtà, non mancarono mai Giudei che per motivi religiosi vivessero da solitari nel deserto; solo, un quindicennio dopo la conversione di Paolo, Flavio Giuseppe ancora adolescente vivrà per tre anni nel deserto presso un eremita di nome Banno per amor di ascetismo (Vita, 11-12). Uguale potrebbe essere il caso di Paolo, spintovi dai motivi suddetti.
290. Questa permanenza in Arabia durò probabilmente solo pochi mesi, e dopo Paolo ritornò a Damasco. Ivi egli riprese la predicazione polemica: egli vieppiù s'afforzava e confondeva i Giudei abitanti in Damasco, dimostrando che costui è il Cristo (Atti, 9, 22). Se nei primi giorni dopo la conversione di Paolo i Giudei di Damasco poterono essere dubbiosi sul nuovo atteggiamento di lui, adesso qualunque incertezza era esclusa; notizie forse giunte nel frattempo da Gerusalemme, confrontate con la recente condotta di Paolo, lo svelavano come un perfetto traditore. Il pastore era diventato un lupo. Da questa scoperta si trasse la conclusione, la quale fu in tutto analoga alla decisione presa da Paolo - o almeno da lui approvata - nei riguardi di Stefano (§ 252): bisognava toglier di mezzo il traditore. Perciò, trascorsi molti giorni, fecero una congiura i Giudei per ucciderlo (ivi, 23). Ma Paolo venne a risapere della congiura, probabilmente per il tramite di qualche cristiano non sospettato dai congiurati, e si mise in guardia.
I Giudei, certamente mediante denaro, avevano guadagnato al loro progetto l'etnarca del re Areta, e quindi erano state messe delle guardie alle porte della città affinché Paolo non sfuggisse (§ 152). Ma il ricercato si tenne nascosto; probabilmente si ricoverò presso qualche cristiano, il quale aveva la sua casa nell'interno delle mura della città ma addossata alle mura stesse: e questa usanza di sopracostruire addossando è riscontrabile sia nell'Oriente antico (Giosuè, 2, 15) sia in quello moderno specialmente a Damasco. Una notte, d'accordo con i fratelli di fede, Paolo s'infilò alla meglio dentro una grossa sporta e, calato giù attraverso una finestra della casa, mise i piedi a terra fuori delle vigilate mura.
Lo stratagemma non era straordinario: grosse sporte di vimini servivano usualmente per il trasporto di oggetti minuti ammassati (§ 186), e anche per introdurre carichi pesanti nei piani superiori di una casa o per calarli dì là; fino a pochissimi anni fa i viaggiatori che visitavano il monastero-fortezza di S. Caterina al monte Sinai, vi penetravano sollevati dall'alto mediante sporte di questo genere. Una fuga simile calandosi da una finestra aveva fatto anche David, come Paolo aveva letto certamente più volte nella Bibbia (1 Samuele, 19, 12); tuttavia l'esempio dell'eroico antico re non riuscì mai a cancellare il ricordo della viva ripugnanza sentita da Paolo nel dover ricorrere a quella fuga da ladri, e diciotto anni più tardi egli rammenterà ancora l'episodio come una crucciante umiliazione subìta (2 Cor., 11, 30-33).
Dalla sua conversione erano trascorsi tre anni. Era l'anno 39 (§ 152).
291. VISITA A GERUSALEMME. DIMORA A TARSO. Quando Paolo, sgusciato fuori della sporta, si ritrovò libero ai piedi delle mura di Damasco, allontanandosi in tutta fretta e cautela si diresse al Sud verso Gerusalemme. Se si fosse diretto al Nord verso Tarso, avrebbe ritrovato in patria familiari ed amici, insieme con sicurezza e comodità; ma la patria del suo spirito era adesso Gerusalemme, certo non la Gerusalemme del buon Gamaliel e tanto meno quella: del Sinedrio, bensì quella di Pietro. Egli stesso, infatti, ci dice che andò a Gerusalemme per esplorare (***) Cefa (Gal., 1, 18).
La nostra traduzione esplorare è rude e non del tutto precisa, ma ci è parsa la più vicina all'idea dell'originale. La radice greca, infatti, può essere applicata sia in senso materiale ad un capitano che esplori una regione a scopi, guerreschi, sia in senso morale a chi cerchi d'informarsi riguardo ai pensieri di qualcuno, o anche a chi voglia conoscere direttamente e con una certa penetrazione una rinomata persona o un oggetto celebre (228). Se dunque Paolo si recò a Gerusalemme, fu per fare la conoscenza personale, e possibilmente approfondita con quel personaggio ch'era chiamato Cefa o anche Pietro: anzi, la conoscenza con quel personaggio gli stava tanto a cuore che, nei quindici giorni che rimase presso di lui, pare che egli si disinteressasse di tutto il resto, giacché, ci fa sapere: (Alcun) altro degli apostoli non vidi, se non Giacomo il fratello del Signore (Gal., 1, 19). Perché mai aveva Paolo tanto desiderio di entrare in relazione con Pietro? Astrattamente, per ora, possiamo ritenere ché questa visita si riconnettesse col mutamento iniziatosi in lui con la visione sulla strada: di Damasco e maturatosi sempre più in quei tre anni successivi (§ 301).

292. Sennonché, giunto a Gerusalemme, Paolo trovò da principio molta diffidenza a suo riguarda; egli tentò di unirsi ai discepoli, e tutti lo temevano non credendo che fosse un discepolo (Atti, 9, 26). La diffidenza, in realtà, aveva qualche buona ragione in proprio favore: solo tre anni prima, la comunità di Gerusalemme era stata devastata da lui (§ 259); poi, sì, erano corse voci che egli si fosse convertito lassù a Damasco, ma chissà che cosa c'era di vero in quelle voci, tanto più che le relazioni con Damasco non dovevano esser facili in quei tempi, dapprima per la guerra fra Erode Antipa e il re Areta (229) e poi per il nuovo regime probabilmente istaurato a Damasco (§ 152). Tuttavia la diffidenza fu brevissima, e Paolo fu garantito. ufficialmente davanti ai diffidenti da un autorevole cristiano di nome Giuseppe, chiamato anche Barnaba, che era della tribù di Levi e nativo di Cipro (Atti, 4, 36); Barnaba, presolo con sé, (lo) condusse agli apostoli, e raccontò loro come nella strada vide il Signore, e che gli parlò, e come in Damasco predicò apertamente nel nome di Gesù (ivi, 9, 27).
Da questo intervento di Barnaba si conclude che egli era pienamente informato della conversione di Paolo e della sua condotta successiva, e che lo conosceva da lunga data: essendo Barnaba un Giudeo-ellenista di Cipro, che sta di fronte a Tarso, si è congetturato che lo avesse conosciuto già nella prima giovinezza, o a Tarso o a Gerusalemme alla scuola di Gamaliel. L'autorità di Barnaba fece sì che la presentazione da lui fatta fosse decisiva; ma gli apostoli, a cui egli condusse Paolo, non possono essere stati l'intero collegio dei Dodici e neppure la sua maggioranza numerica, perché Paolo ci ha già detto di aver visto in quella occasione soltanto Pietro e Giacomo il «fratello» del Signore: fu però la maggioranza qualitativa, perché Pietro era il capo di quel collégio e Giacomo godeva della singolare prerogativa di essere parente di Gesù.
Guadagnata così la fiducia della comunità cristiana, quasi per confermarla Paolo fece a Gerusalemme ciò che già aveva fatto a Damasco: in quei quindici giorni di permanenza si dette a discutere con i Giudeo-ellenisti che si trovavano in città, dimostrando ancora una volta di aver raccolto l'eredità morale di Stefano e negli stessi luoghi di lui: La reazione fu uguale a quella di Damasco: i Giudei, ricordando sdegnati la sua ben diversa condotta di tre anni prima, misero mano ad ucciderlo; ma risaputo (ciò) i fratelli, lo condussero giù a Cesarea e l'inviarono fuori a Tarso (Atti, 9, 29-30).
293. Questa repentina partenza di Paolo da Gerusalemme doveva corrispondere a un tacito desiderio della comunità locale. Dopo la persecuzione capeggiata da Paolo, quella comunità non era stata più disturbata e adesso aveva pace (ivi, 31): ecco, invece, che proprio l'antico persecutore si era presentato improvvisamente a turbare di nuovo quella pace, sebbene questa volta in veste di difensore. Le sue intenzioni saranno state ottime, ma il metodo focosamente polemico poteva essere inopportuno, e il nuovo propagandista avrebbe fatto meglio a scegliersi altrove il campo di lavoro. Questa preoccupazione dei cristiani di Gerusalemme, se non fu apertamente comunicata a Paolo, fu certamente indovinata da lui, e per fortuna trovò piena corrispondenza da parte sua.
Più tardi, parlando ai Giudei tumultuanti della stessa città, egli comunicherà che durante una sua permanenza a Gerusalemme (certamente questa dell'anno 39) mentre pregava nel Tempio fu colto da una estasi e vide Gesù che gli disse: Fa presto ed esci da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza riguardo a me; e avendo egli risposto ricordando la persecuzione di tre anni prima e l'uccisione di Stefano, quasi a far notare che dopo tali fatti l'odierna sua testimonianza in favore della fede sarebbe stata più autorevole, Gesù gli replicò: Va, perché io in genti t'invierò fuori lontano (Atti, 22, 17-21). Poiché, dunque, il desiderio della comunità e il comando della visione convergevano al medesimo scopo, la partenza fu immediata.
294. Il viaggio da Cesarea, porto principale di Gerusalemme, fino a Tarso dovette esser fatto per mare. Se dunque Paolo dice che, dopo Gerusalemme, andò nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal., 1, 21), non intende con ciò descrivere l'itinerario di questo viaggio, ma solo indicare in termini ampi le zone della sua permanenza negli anni successivi. La sua dimora. a Tarso questa volta fu lunga, perché andò dal 39 al 43 (§ 153), e l'accenno testé visto induce a supporre che egli in questo tempo svolgesse una certa operosità missionaria sia in Tarso e dintorni (Cilicia) sia nella zona di Antiochia (Siria). Centri cristiani in Siria e Cilicia sono attestati poco dopo (Atti, 15, 23-41), ma non è detto che essi traessero tutti la loro origine da Paolo; e ciò vale specialmente per quelli di Siria, che certamente si erano propagati da Antiochia. Ad ogni modo Paolo poté svolgere, in queste varie regioni, opera talvolta di rafforzamento, tal altra di nuovo impianto, senza però ch'egli fosse totalmente assorbito da queste corse di apostolato: la sua principale attività era, per allora, ancora interna.
E in realtà, di tutto questo periodo che va dalla conversione di Paolo fino al termine della sua dimora in Tarso e che è di ben sette anni (dal 36 al 43 circa), noi conosciamo i pochi fatti esterni che abbiamo finora narrati; qui però bisognerebbe poter aggiungere anche la biografia spirituale di questo periodo, penetrando in tutto quel complesso lavorio che si svolse allora nell'interno di Paolo, e che fu certamente di gran lunga più importante dei fatti esterni; ma, purtroppo, in tutto questo lavorio gelosamente occultato non riusciamo a gettare che poche e quasi abusive occhiate.
295. «CRESCITA E RAFFORZAMENTO». Luca nel suo vangelo, parlando di Gesù quando aveva un paio d'anni, dice che a Nazareth il bambino cresceva e s'afforzava pieno di sapienza, e grazia di Dio era su lui (Luca, 2, 40); e di nuovo, quando aveva dodici anni, dice che Gesù progrediva nella sapienza e statura e grazia presso Dio ed uomini (ivi, 52). Ciò che l'evangelista medico dice del bambino Gesù, deve lo storico ripetere dell'apostolo Paolo sotto l'aspetto sia teologico sia psicologico. La nascita di Gesù come uomo avvenne a Beth-lehem, e la nascita di Paolo come apostolo avvenne sulla strada di Damasco, ma ad ambedue le nascite tenne dietro un periodo di «crescita e rafforzamento», che nel caso di Paolo corrisponde a questo periodo: più tardi egli, impiegando i termini medici del suo discepolo Luca, affermerà che tutti i cristiani devono crescere e rafforzarsi spiritualmente fino a raggiungere l'uomo perfetto, nella misura della statura della pienezza del Cristo (Efes., 4, 13).
Con la visione di Damasco Paolo fu investito della missione di apostolo, ma lo stupore stesso con cui egli ricevette quella investitura dimostra che rispetto ad essa egli molte cose già comprendeva e molte cose ancora ignorava. E anche qui abbiamo un eloquente parallelo: una missione anche più eccelsa aveva ricevuta Maria allorché fu eletta ad esser madre di Gesù, e di molte cose tenute occulte ad ogni altra creatura umana fu ella edotta in quell'occasione; tuttavia lo stesso Luca - che ci ha riferito talune di queste cose occulte ­ ci fa pure conoscere lo stupore di lei e di Giuseppe nel ritrovare il giovanetto Gesù nel Tempio, e ci dice anche che essi non capirono la parola che pronunziò loro in risposta al loro stupore (230). Non c'è stupore senza ignoranza (non capirono), e una ignoranza può esistere anche in menti che sappiano moltissime cose. Come Maria, così anche Paolo nei primi tempi dopo la visione di Damasco era in condizioni di stupore e insieme di ammirazione, d'ignoranza commista a sapienza, e da allora comincia la «crescita e rafforzamento» di lui come apostolo: lo stupore cedeva sempre più posto all'ammirazione, l'ignoranza si assottigliava continuamente a vantaggio della sapienza.
296. Questo sviluppo avvenne con mezzi sia straordinari sia ordinari, giacché la Grazia non violenta la natura, anzi fa assegnamento sulla cooperazione di essa, e ambedue procedono di conserva; tuttavia non procedono a sbalzi, bensì lungo un tracciato levigato e sempre ascendente. Il far dipendere tutto il pensiero teologico di Paolo soltanto dalla visione di Damasco è un errore insieme storico e psicologico: quella visione fu certamente la prima in ordine di tempo e d'importanza, ma fu seguita da varie altre a, cui Paolo accenna occasionalmente e quasi a malincuore. Come nella visione di Damasco Paolo acquistò, fra altre cose, notizia del suo apostolato: così nelle successive visioni egli riceverà altre comunicazioni, specialmente in relazione al suo apostolato.
Padronissimi i razionalisti di considerare queste comunicazioni come fatti puramente umani - siano elaborazioni concettuali della subcoscienza, o prodotti di esaltazione psichica, o momenti salienti di un dato complesso spirituale, e simili - e vedranno poi essi se con siffatte interpretazioni spiegheranno storicamente il Paolo dei documenti; certo è che queste comunicazioni costituiscono i lineamenti essenziali della figura di lui come apostolo, cancellati i quali la figura è quasi totalmente cancellata. E in realtà Paolo stesso insiste tanto sull'importanza di queste rivelazioni per il suo apostolato, che appunto da esse fa dipendere il vangelo da lui annunziato: Vi dichiaro infatti, fratelli, (riguardo al) vangelo quello evangelizzato da me, che (esso) non è secondo uomo; né, infatti, io da uomo lo ricevetti né imparai, bensì mediante rivelazione di Gesù Cristo (Gal., I, 11-12). Questa solenne affermazione, che è uno dei capisaldi della lettera ai Galati, riappare più o meno espliéita altrove (I Cor., 11, 23; 15, 1-3; Efes., 3, 3); ed è accompagnata passo passo dai fatti storici.
297. Già accennammo a due di queste particolari rivelazioni avvenute durante il periodo finora visto, cioè dalla conversione fino al 43: una è la visione avuta nel Tempio di Gerusalemme nel 39 (§ 293); l'altra è il rapimento al terzo cielo, con cui è collegata la misteriosa malattia di Paolo e che avvenne verso il 43 (§ 199). Il contenuto di quest'ultima rivelazione non solo non ci viene comunicato, ma al contrario ci vien detto espressamente che consistette in detti indicibili, quali non è permesso ad uomo parlare: è quindi inutile soffermarsi in questo campo di altissima mistica. Al contrario, alcuni insegnamenti impartiti ai fedeli da Paolo durante la sua operosità di apostolo sono attribuiti a rivelazioni avute: l'insegnamento circa l'Eucaristia ch'egli ha ,impartito ai fedeli di Corinto è stato comunicato a lui dal Cristo: io infatti ricevetti dal Signore ciò che anche trasmisi a voi (I Cor., 11, 23; si noti il rilievo dato anche nel testo greco al pronome io, al principio); così pure parlando di matrimonio e verginità agli stessi Corinti egli impartisce varie norme, delle quali alcune provengono non da lui personalmente ma dal Signore (ivi, 7, 10), altre invece provengono non dal Signore ma da lui (ivi, 7, 12). In un altro caso egli avverte esplicitamente di non possedere alcun comando da comunicare a nome del Signore e di parlare soltanto come esperimentato consigliere (ivi, 7, 25); anche riguardo alla sorte dei giusti superstiti nel giorno della parusia, Paolo impartisce un insegnamento nella parola del Signore (I Tessal., 4, 15), intendendo appellarsi con molta probabilità ad una rivelazione personale.
298. Oltreché negli insegnamenti egli è guidato da rivelazioni anche nelle azioni esterne, soprattutto nelle più decisive per la sua operosità di apostolo. Al concilio apostolico di Gerusalemme, ove Paolo sottoporrà ad approvazione il vangelo da lui predicato ai Gentili, egli si recherà conforme rivelazione (Gal., 2, 1-2); quando vorrà evangelizzare l'Asia proconsolare ne sarà impedito dal santo Spirito (Atti, 16, 6), e subito appresso lo Spirito di Gesù gli impedirà di entrare in Bitinia (ivi, 7), ma in compenso un'altra visione di notte lo chiamerà verso la Macedonia (ivi, 9-10); egualmente di notte per visione il Signore gli apparirà a Corinto, confermandolo nel nuovo campo di apostolato (ivi, 18, 9-10); altri avvertimenti dallo Spirito santo riceverà egli durante il suo viaggio a Gerusalemme prima dell'imprigionamento (ivi, 20, 22-23; 21, 4-11); quando infine sarà già prigioniero, due visioni notturne, di cui una a Gerusalemme (ivi, 23, II) e l'altra in mezzo al mare tempestoso (ivi, 27, 23), lo renderanno certo che egli perverrà a Roma.
Assicurata questa fonte straordinaria di rivelazioni personali, bisogna aver presente anche la fonte ordinaria, che fu la dipendenza diretta dalla Chiesa vivente: da ambedue queste fonti, e non già da una sola, profluisce il maestoso fiume di Paolo apostolo.
299. La dipendenza dalla Chiesa vivente equivale, nel caso nostro, alla dipendenza dalla primitiva catechesi cristiana, della quale già trattammo ampiamente (231). Riferendoci particolarmente a Paolo, facemmo pure rilevare che dai suoi scritti si potrebbe ricavare una piccola «Vita di Gesù» indipendente dai vangeli canonici, molto inferiore ad essi per quantità di dati, ma non diversa per tipo biografico (232): il ritratto di Gesù che risulta disegnato, in maniera del tutto occasionale, da Paolo nei suoi scritti è di dimensioni molto più piccole di quello disegnato dai quattro vangeli, ma la facies del ritrattato è in ambedue i casi la stessa. Ebbene, donde ricavò Paolo i lineamenti di questo ritratto, ossia gli elementi della biografia e dottrina di Gesù? Soltanto dalle sue rivelazioni personali? No certamente, bensì da esse e inoltre anche dalla catechesi primitiva.
Al principio del suo vangelo Luca avverte che, prima di scriverlo, egli è riandato appresso dal principio (ovvero da lungo tempo) a tutte le cose diligentemente, e che, in ciò egli ha seguito l'esempio di precedenti narrazioni, fatte da altri secondo che tramandarono a noi coloro che dall'inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola: ora, dicendo ciò, Luca viene a dirci che ha estratto i materiali del suo scritto dalla catechesi primitiva, perché appunto di questa erano ministri i testimoni oculari e gli inservienti della parola da lui ricordati. Se così si regolò Luca, possiamo ben credere che egli, da fedele discepolo di Paolo, imitasse anche in ciò il suo maestro, il quale nel periodo successivo alla conversione doveva essere ricorso anch'egli alla comune catechesi, come del resto vi ricorrevano tutti i nuovi guadagnati alla Buona Novella.
300. Ma la catechesi primitiva: emanava globalmente dal collegio apostolico, dal quale soltanto riceveva autorità e valore. Le varie ramificazioni di essa, ai tempi della conversione di Paolo, ancora non si erano delineate: quella che fu, assai più tardi, là catechesi particolare a Giovanni era ancora inclusa globalmente nel patrimonio della catechesi apostolica, e naturalmente tanto meno si poteva allora parlare della catechesi particolare di Paolo diretta soprattutto ai Gentili. Ora, questa catechesi globale del collegio apostolico poteva essere praticamente attribuita a colui che era il capo e il rappresentante di quel collegio; a Pietro: la catechesi di Pietro, di cui abbiamo chiare testimonianze negli Atti (233), era tuttora la catechesi comune al collegio apostolico, in attesa che col dilatarsi della Chiesa questo fondo comune si dilatasse parallelamente in altre diramazioni (Paolo, Giovanni) più appropriate ai nuovi rami spuntati dal tronco della Chiesa; inoltre, era una catechesi affidata ancora soltanto alla viva voce, in attesa di venire fiancheggiata, - non però sostituita - da una prima fissazione ufficiale in scritto; la quale difatti si ebbe poco dopo nei Logia di Matteo, che sono il nostro primo vangelo canonico.
Conobbe Paolo qualche scritto che trattasse della vita e dottrina di Gesù? Non abbiamo elementi sicuri per rispondere. Questi scritti, d'indole e provenienza varie, erano molti già prima dell'anno 62-63, allorché Luca pubblicò il suo vangelo (Luca, I, 1); ad ogni modo anche se Paolo conobbe qualcuno di essi, ciò non poté avvenire che in epoca tardiva, quando egli era già lanciato a tutta carriera nei suoi viaggi missionari, mentre nei primi anni dopo la sua conversione certamente non li conobbe per la semplice ragione che non esistevano; lo scarso decennio che intercede fra la morte di Gesù e la visita di Paolo a Gerusalemme per esplorare Pietro (anni 30-39), era un periodo troppo breve per ammettere il sorgere e diffondersi di questi scritti.
301. Alla luce di questi dati. documentari, possiamo adesso argomentare quale fosse il vero motivo per cui Paolo venne ad esplorare Pietro. Accennammo genericamente che doveva essere un motivo che si riconnetteva con la sua conversione e il successivo rinnovamento spirituale (§ 291); adesso possiamo precisare che doveva essere il desiderio di consultare colui che, oltre ad essere il capo del collegio apostolico, era anche la prima fonte della catechesi comune.
I primi elementi di questa catechesi Paolo li aveva ricevuti oralmente da Anania in occasione del suo battesimo (§ 287); altri ne ebbe certamente dai fedeli di Damasco durante le due dimore in quella città, e più tardi la sua conoscenza della catechesi si esplicò e confermò sempre più al contatto con le cristianità di Siria (§ 294). Ma questi apporti dall'esterno dovevano assommarsi e confondersi con le illuminazioni interne: i dati della catechesi confermavano le visioni avute da Paolo in questo periodo, ma alla lor volta le visioni lo facevano penetrare sempre più addentro nel senso intimo della catechesi.
Si prenda come esempio il rito dell'Eucaristia, il cui insegnamento già udimmo da Paolo essere stato a lui comunicato dal Signore (§ 297). Questo era un dato storico della vita di Gesù, in quanto il rito era stato istituito da lui nella notte in cui fu tradito, e come tale era certamente incluso nella catechesi sulla vita di Gesù impartita ai catecumeni prima del battesimo; ma oltre a ciò era anche un dato liturgico, in quanto le adunanze delle comunità cristiane s'imperniavano essenzialmente su questo rito. Ebbene, quando Paolo fu preparato da Anania al battesimo non ebbe da lui notizia di questo rito? E quando prese parte alle adunanze dei fedeli a Damasco e a Gerusalemme, e più tardi in Siria ed altrove, non celebrò anch'egli insieme con loro questo rito? Non sembra che se ne possa dubitare. E allora, come rimane vero che l'insegnamento del rito fu comunicato a lui proprio dal Signore? È legittimo supporre che l'insegnamento del rito gli venisse, circa nello stesso tempo, dall'interno e dall'esterno, dalla illuminazione di una rivelazione personale e dall'ammaestramento della catechesi liturgica: ambedue gli apporti si confermavano e schiarivano a vicenda, e Paolo assommandoli insieme li attribuì così conglobati alla provenienza più eccelsa. La dottrina mistica che egli espone occasionalmente circa l'Eucaristia (I Cor., 10, 16-17) sembra provenisse da particolari rivelazioni ben più che dalla comune catechesi. Il caso dell'Eucaristia può essere analogo a quello del matrimonio, del battesimo, e ad altri.
302. Ad ogni modo l'illuminazione soprannaturale era sempre una via eccezionale: parallela in parte ad essa, rimaneva la via ordinaria della catechesi. Le rivelazioni personali comunicavano ciò che volevano, e certamente non tutto quello che Paolo avrebbe desiderato: alle molte cose che le rivelazioni non dicevano, poteva supplire la catechesi debitamente investigata. E Paolo aveva bisogno di saper moltissime cose sia come ex-rabbino, sia come cristiano, sia come apostolo.
L'ex-rabbino conosceva la Bibbia in maniera eccellente, ma trasportato adesso sul campo cristiano quante oscurità dovette egli scorgere da principio nella completa visione dell'economia divina riguardo alla redenzione umana? Se il Messia era Gesù di Nazareth, quale sarebbe stata la sorte d'Israele che lo rinnegava? Quale la sorte della Legge di Mosè dopo la venuta del Messia? Quale la sorte dei popoli pagani, che non si davano alcun pensiero né della Legge né del Messia? Eppoi, del Messia Gesù bisognava conoscere molti particolari, sia della vita sia della dottrina, i quali erano stati certamente preadombrati nelle profezie messianiche della Bibbia: una profonda conoscenza dei fatti e detti di Gesù (234) non era forse una conferma, alla luce della Bibbia, della sua dignità messianica? Né basta: il Messia Gesù aveva stabilito taluni riti che dovevano esser praticati dai suoi fedeli, aveva costituito una qualche gerarchia che presiedesse ai fedeli; ma quanti e quali erano precisamente quei riti? quale il loro valore spirituale? come s'inquadravano essi nell'insegnamento generale di Gesù? come era costituita la gerarchia? in quale relazione stava questa gerarchia del tempo messianico con la precedente gerarchia teocratico-nazionale del popolo d'Israele?
Siffatti quesiti, e moltissimi altri d'ogni genere, si presentarono senza dubbio alla mente di Paolo nei primi tempi dopo la sua conversione: a gran parte di essi egli dette risposta mediante le sue rivelazioni personali e il ricorso alla catechesi comune, fino a che risalì alla fonte di questa recandosi ad esplorare Pietro a Gerusalemme.
303. Durante i quindici giorni passati in questa esplorazione, Paolo poté ricevere moltissime conferme chiarificatrici e anche acquisire elementi del tutto nuovi per lui. Non è difficile immaginarsi Paolo che ansiosamente domanda, passando da argomento ad argomento, e Pietro che risponde con la sicurezza del testimone oculare ma anche con l'appassionata accoratezza dell'uomo che ama.
Forse in un chiaro pomeriggio saranno usciti di casa insieme e, appena oltrepassato il muro settentrionale della città, Pietro avrà indicato a Paolo una piccola sporgenza rocciosa che stava presso la porta della città, pronunziando una sola parola: «Golgota». Poi lentamente, con tristezza infinita, avrà mormorato quasi a se stesso: «C'era sua madre... c'era Giovanni... io non c'ero!».
Di lì si saranno recati ad una tomba di tipo palestinese comune, situata a pochi passi dalla sporgenza rocciosa; e Pietro avrà ripreso a dire: «Qui lo deposero appena morto ... ma al mattino successivo al sabbato le donne vennero e non vi ritrovarono più il corpo... Maria corse ad avvisarmi... io mi precipitai qui insieme con Giovanni... entrai per primo io, lì, da quella porticina esterna... il corpo non c'era, ma vidi le bende giacenti ed il sudario, ch’era sulla testa di lui, non giacente insieme con le bende ma avvoltolato da parte (Giov., 20, 6-7). Mi allontanai... Maria rimase... poco dopo ella lo vide, là, presso quell'albero, e parlò con lui... corse ella ad annunziarlo a noi tutti, ma noi... noi non le prestammo fede!».
I due, poi, saranno rientrati in città, e attraversatala in buona parte, avranno piegato verso Oriente. Cammin facendo, Pietro avrà continuato nell'argomento di prima: «Ma in quello stesso giorno apparve anche a me...». A questo punto, Paolo l'avrà interrotto dicendo: «Sì, lo so; fu visto da te e in seguito dai Dodici; fu poi visto da più che cinquecento fratelli insieme, dei quali i più sono superstiti fino ad oggi, mentre taluni s'addormentarono; fu poi visto da Giacomo, quindi da tutti gli apostoli...». Qui Pietro a sua volta avrà interrotto Paolo dicendo: «Ma fu visto anche da te, là sulla strada, di Damasco». E Paolo avrà replicato: «Sì, come già sai, ultimo fra tutti, come da un abortivo, fu visto anche da me» (1 Cor., 15, 5-8).
304. Usciti dalla città, i due saranno scesi giù nella valle del Cedron, e risalendo alquanto lungo il Tempio saranno giunti al giardino del Gethsemani. Pietro avrà continuato: «Quella notte, dopo la cena pasquale, venimmo tutti qui... era un posto che egli prediligeva... i più si misero a dormire in questa casetta, vicino all'entrata... a me, a Giacomo e a Giovanni, egli disse di seguirlo più addentro nel giardino... giunti tutti là sotto, quell'olivo, egli cominciò a sgomentarsi ed angosciarsi... s'allontanò poi da noi quanto un lancio di sasso, e cadde sul suo volto pregando: Abba! Se è possibile passi da me questo calice!...». Paolo avrà fissato a lungo in silenzio il luogo indicatogli, e poi avrà mormorato: «Egli nei giorni della sua (vita di) carne offrì preci e suppliche a chi poteva salvarlo da morte, insieme con clamore grande e lacrime» (Ebrei, 5, 7). Ma frattanto un velo di tristezza si sarà nuovamente, steso sul volto di Pietro, che avrà soggiunto: «Sì, fratello, Paolo; eppure, mentre egli pregava con tanto clamore e tante lacrime, noi tre ci addormentammo pigri ed incuranti... e risvegliati da lui più volte ci addormentammo sempre di nuovo... giunse poi Giuda con i soldati... lo afferrarono e legarono, là; nello spazio fra quei due olivi... io mi lanciai contro uno degli armati, e con un colpo di spada gli mozzai un orecchio... egli lo risanò... poi, tutti fuggirono... tutti... e anch'io con loro…».
305. I due saranno usciti muti dal Gethsemani, e avranno rifatto la stessa strada percorsa, dal Maestro quella notte. Saranno così giunti nel quartiere sud-occidentale della città, ov'era la casa del sommo sacerdote. Avvicinatosi all'uscio aperto, Pietro avrà additato l'atrio interno che si scorgeva ,dal di fuori: «Ecco, qui lo condussero, per giudicarlo... lo richiusero in quella cella, là: in fondo all'atrio... ci stette alcune ore a ricevere scherni, schiaffi e sputi... io gironzolavo qui fra quest'uscio e l'atrio... e tre volte, capisci fratello Paolo? tre volte, affermai di non conoscerlo affatto... il gallo cantò; come egli mi aveva predetto, ma là seguitai a negare e rinnegare... cantò ancora una volta proprio quando egli era ricondotto nella cella dopo l'interrogatorio... mi guardò... uno di quegli sguardi che sapeva dare lui... ma non una parola, non una sola parola... a quello sguardo non ressi... uscii qui fuori annientato… mi appoggiai vedi? a quest'angolo, e piansi... ah! quanto piansi quella notte!.... e quanto piango ancora tutte le notti quando sento il canto del gallo!». Un singulto avrà interrotto il narratore; Paolo, commosso anch'egli, avrà risposto: «Fratello mio, il Signore ti ha perdonato... ma che devo dire io?... tu almeno non lo perseguitasti, io invece... ah! non son degno di essere chiamato apostolo, perché perseguitai la Chiesa d'Iddio!» (I Cor., 15, 9). E Pietro a sua volta: «Non dir questo, Paolo, no; .. tu non lo vedesti mai nella gloria della trasfigurazione, come lo avevo visto io... tu non lo vedesti mai umiliato a lavare i tuoi piedi, come lo avevo visto io umiliato a lavare i miei... anzi, vieni e ti farò vedere subito dove avvenne il fatto».
306. Pietro avrà condotto Paolo ad una modesta casa, distante pochi passi da quella del sommo sacerdote. Saliti al piano superiore, saranno entrati in una sala grande (Marco, 14, 15), e, Pietro avrà spiegato: «Qui fu tenuta l'ultima cena... i preparativi venimmo a farli io e Giovanni (Luca, 22, 8)... Gesù stava là sul divano in testa all'emiciclo... sui due divani a fianco a lui stavamo io e Giovanni (235)... più in là, a fianco a Giovanni, stava Giuda... sorta una questione di preminenza fra noi, Gesù quasi in risposta si alzò e s'accinse a lavarci i piedi... e cominciò. da me... lui, capisci Paolo? lui a me...». Paolo avrà chiesto: «Li lavò anche, a Giuda?» - «Sì, anche a Giuda, e poi... poi compì lo spezzamento del pane in ricordo di se... e tu Paolo lo sai...» - «Sì, me lo rivelò Gesù stesso; nella notte in cui fu tradito prese del pane e avendo reso grazie (lo) spezzò e disse: Questo è il mio corpo, quello (dato) per voi; ciò fate nel mio ricordo. Parimente (egli prese) anche il calice dopo aver cenato, dicendo: Questo Calice è il nuovo testamento nel mio sangue; ciò fate, ogni qual volta beviate, nel mio ricordo (I Cor., 11, 23-25). Ma dimmi, fratello Pietro; quando voi presenti udiste queste parole che impressione ne aveste?» - «Per un breve momento rimanemmo trasecolati; ma subito appresso ci ricordammo di un discorso che Gesù ci aveva fatto a Cafarnao molti mesi prima, e con cui ci aveva annunziato esser necessario mangiar la sua carne e bere il suo sangue per ottenere la vita eterna; molti dei discepoli di allora, udito quel discorso, si scandalizzarono e abbandonarono Gesù, noi invece rimanemmo; e avendoci Gesù chiesto: Anche voi volete andarvene? io gli risposi: Signore, da chi andremo? Parole di vita eterna (tu) hai; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo d'Iddio (Giov., 6, 68-69). Benedette quelle mie, parole! In questa sala, quella notte, il misterioso discorso di Cafarnao ci apparve chiarissimo».
I due saranno rimasti qualche tempo pensierosi nella sala, poi Pietro scotendosi avrà detto a Paolo: «Fratello mio, è già tardi, torniamo a casa, e obbedendo al precetto del Signore, compiremo anche questa sera insieme con i fratelli lo spezzamento del pane in ricordo di lui».
Più o meno di questo genere, ma naturalmente assai più ampia, fu l'esplorazione di Pietro fatta dal suo ospite nei quindici giorni di permanenza presso di lui.
307. Se la «crescita e rafforzamento» di Paolo come apostolo s'impernia sui due elementi fin qui visti, ossia le rivelazioni particolari e la catechesi apostolica, non bisogna tuttavia escludere l'apporto personale di Paolo; il quale nella sua mente rielaborò e plasmò insieme, i due elementi, adattandoli in maniera più diretta al particolare campo d'azione a cui egli era stato chiamato. Già alla sua conversione Anania gli aveva comunicato a nome del Cristo che egli doveva essere apostolo specialmente dei Gentili (§ 285), e tale destinazione gli era stata confermata nella visione avuta nel Tempio (§ 293); ora, unico era il Dio dei Giudei e dei Gentili, unico il loro redentore Cristo, e quindi unica era la dottrina da proporre agli uni e agli altri, ma ben poteva essere differente la maniera di proporre questa unica dottrina. Paolo, destinato ai Gentili, volle prepararsi una maniera particolare di presentare loro la dottrina del Cristo: a tale scopo alcuni elementi da mettere in maggior rilievo gli saranno stati forniti dalle sue rivelazioni particolari; altri ne avrà egli raccolti dalle sue investigazioni sulla catechesi; deduzioni, riconnessioni e richiami, avrà aggiunti egli stesso con le riflessioni della sua mente ripiena fin dalla sua giovinezza di pensieri biblici. Da questo lungo lavorio, sorse quello che Paolo chiama con fermezza il vangelo mio (236).
308. L'esempio di Paolo, del resto, non rimase solitario. Un cinquantennio più tardi l'apostolo Giovanni porterà a termine anch'egli un «vangelo suo», comportandosi esattamente come aveva fatto Paolo. La catechesi particolare a Giovanni deriverà anch'essa dal comune fondo apostolico, ma attraverso una particolare selezione fattane da lui e ben differente dalla selezione fatta ne dagli scrittori dei tre precedenti vangeli sinottici; Giovanni elaborerà per più di mezzo secolo il materiale del suo vangelo, mettendo in piena evidenza concetti fino allora non particolarmente rilevati e impiegando termini del tutto nuovi, come pure aveva fatto Paolo; la preparazione del nuovo tipo di catechesi, o «nuovo» vangelo di Giovanni, avrà lo scopo pratico di difendere la dottrina, del Cristo contro i nuovi nemici gnostici, come Paolo aveva avuto lo scopo pratico di diffonderla fra i Gentili; il vangelo di Giovanni batterà strade differenti da quelle dei vangeli sinottici ma perverrà alla stessa meta di questi, come la catechesi di Paolo aveva battuto strade diverse dalla catechesi di Pietro ma ambedue avevano terminato alla stessa meta (237).
309. L'identità di questa meta, di Paolo da una parte e degli altri apostoli dall'altra, fu oggetto di un aperto riconoscimento da ambedue le parti, e quasi di un accordo, in una circostanza solenne. Quando, al ritorno dal suo primo viaggio missionario, Paolo si recò al concilio apostolico in Gerusalemme (§ 355) vi si recò anche per ricevere un'aperta ed ufficiale approvazione al «suo vangelo» da parti dei maggiorenti di quella prima comunità cristiana: Esposi ad essi il vangelo che predico alle genti - privatamente poi (lo esposi) ai maggiorenti - affinché (io) non corra od abbia corso invano (Gal., 2; 2); il risultato di questa esposizione del vangelo di Paolo fu quanto di meglio egli poteva aspettarsi nel campo teoretico: I maggiorenti, infatti, non mi fecero alcuna aggiunta (correttiva), bensì al contrario vedendo che a me fu affidato il vangelo della incirconcisione come a Pietro (quello) della circoncisione - giacché Colui che rafforzò Pietro nell’apostolato della circoncisione rafforzò anche me nell'(apostolato delle) genti - e conoscendo la grazia a me data: Giacomo e Cefa e Giovanni, quei che compaiono essere colonne (della Chiesa), strinsero la mano a me e a Barnaba (in segno) d'accordo affinché noi (fossimo gli apostoli) nelle genti ed essi nella circoncisione (ivi, 6-9) (238).
Da questo episodio, che Paolo narra ai Galati da lui evangelizzati, egli trae una netta conclusione (ivi, I, 7-9): se alcuno sr presentasse ad annunziare ai Galati un altro vangelo diverso da quello di Paolo, sia maledetto, anche se fosse un angelo calato dal cielo; e la ragione è che altro vangelo non c’è (ivi, 7) fuor di quello di Paolo. In conclusione, ciò che Paolo chiama il vangelo mio era, quanto alla sostanza, uguale a quello di Pietro e dei maggiorenti della chiesa di Gerusalemme (239), e da costoro approvato pienamente.
310. Ecco, in conclusione, come Paolo dovette impiegare il periodo che va dalla sua conversione al termine della sua dimora in Tarso (anni 36-43). L'apostolato effettivo dovette essere scarso; intensissima, al contrario, dovette essere la sua preparazione all'apostolato futuro, la quale consistette soprattutto in questa «crescita e rafforzamento» di spirito che abbiamo cercato di esplorare. Se la dimora in Arabia avvenne in un luogo deserto e fu alquanto lunga, si prestò bene a questo lavorio interno; ma anche durante le dimore a Damasco e a Tarso il lavorio certamente continuò, cosicché in Paolo si sviluppò sempre più l'uomo perfetto, nella misura della statura della pienezza del Cristo (§ 295).
Ormai, egli è pronto. Per muoversi, aspetta soltanto un cenno divino, come un guerriero che avendo affilato e forbito accuratamente le sue armi aspetta un cenno del condottiero per gettarsi nella mischia. Del mondo, che cosa gl'importa più? I grandi guadagni che offre il mondo non sono per lui che *** (§ 170) in confronto con l'amore per il Cristo: Insieme con Cristo sono crocifisso; vivo ma non più io; bensì vive in me Cristo (Gal., 2, 19-20). Tuttavia c'è molto da fare: c'è da compiere quel molto, che ancora manca ai patimenti del Cristo (Coloss., 1, 24), integrandoli con patimenti sofferti insieme con lui e per lui nella propagazione del suo vangelo. Certo, suo sommo desiderio sarebbe di disfarsi ed esser con Cristo, perché (ciò è) di gran lunga assai meglio (Filipp., 1, 23); tuttavia egli deve pazientare e patire e lavorare per il Cristo stesso, ossia per i suoi fedeli (ivi, 24); perciò è preso in mezzo da questi due desideri, di unirsi col Cristo aldilà e di lavorare per lui al di qua. Ad ogni i modo, è superiormente tranquillo: qualunque cosa avvenga, sarà magnificato Cristo nel mio corpo, sia mediante vita sia mediante morte. Per me infatti il vivere (è) Cristo, e il morire un guadagno (ivi, 20-21).
Chi era più degnò di stringere nel suo pugno il dominio del mondo, un uomo in tali condizioni di spirito, oppure il Cesare del Palatino con le sue trenta e più legioni dislocate su tutto il mondo conosciuto? Se il mondo è dominato dall'idea, era più degno Paolo; se è dominato dalla forza, era più degno Cesare.
La Storia, con la sua scelta fra i due, ha dato la risposta.
311. DIMORA IN ANTIOCHIA. Mentre Paolo si preparava a Tarso, il Cristo a sua volta gli preparava il campo di lavoro rispondente alla preparazione di lui.
Quando Paolo, perseguitando la chiesa di Gerusalemme, aveva paventato una maggiore disseminazione della nuova fede (§ 258) aveva previsto giustamente; i cristiani che s'allontanarono da Gerusalemme per sfuggire alla persecuzione di Paolo, oltre a disperdersi per la Palestina, si recarono fino in Fenicia e Cipro ed Antiochia, a nessuno annunziando la parola (evangelica) se non unicamente ai Giudei (Atti, 11, 19). Questi fuggiaschi, dunque, diffusero, la nuova fede ma rivolgendosi soltanto ai Giudei, col quale termine Luca designa i seguaci della religione giudaica in genere; siano essi ellenisti della Diaspora o palestinesi: cosicché quéi fuggiaschi missionari ritenevano che valesse anche per loro la norma del Cristo mortale, il quale era stato inviato soltanto per le pecore andate in rovina della casa d'Israele (Matteo,15, 24) e non, direttamente, per i pagani. Sennonché nel frattempo la nuova fede era penetrata in Samaria, distretto eretico da vecchia data e ampiamente paganizzato da recente data; dippiù Pietro stesso, a Cesarea; aveva concesso il battesimo al centurione Cornelio il quale, sebbene «proselita» del giudaismo, era nondimeno pagano di nascita: e tali erano anche i suoi familiari (Atti, 10, 24.48). Indubbiamente l'orizzonte della propaganda Cristiana si ampliava anche in Palestina; ma l'ampliamento più decisivo, che doveva esser l'inizio della valanga mondiale, avvenne fuori della terra sacra d'Israele:
312. Fra i nostri fuggiaschi missionari, vi furono alcuni, uomini Ciprioti e Cirenei, i quali giunti ad Antiochia annunziarono (la parola) anche ai Greci (240) evangelizzando il Signore Gesù (ivi, II, 20). Questi ardimentosi che si rivolsero ai pagani Greci erano dunque Giudei ellenisti, nativi di Cipro o di Cirene. Non li conosciamo per nome, ma è molto probabile che alcuni di essi siano nominati poco appresso, ove quali insigni membri della comunità cristiana di Antiochia, compaiono Simeon il Niger, Lucio il Cireneo, Manaen fratello di latte di Erode il tetrarca (ivi, 13, 1). Di costoro non abbiamo altre notizie: solo si potrebbe congetturare, per ragioni niente affatto certe ma neppure del tutto spregevoli, che Simeon il Niger sia quel Simone che pochi anni prima aveva aiutato Gesù a portare la croce (241); non,ha invece fondamento l'ipotesi avanzata da qualcuno che Lucio il Cireneo sia Luca autore degli Atti, non concordando il nome, giacché Lucio non equivale a Luca, e neppure la patria, giacché le testimonianze antiche presentano sempre Luca come Antiocheno e mai come Cireneo. Ma se Luca non fu nel numero di questi Ciprioti e Cirenei che per primi ebbero l'ardimento di predicare il Cristo ai Greci in Antiochia, fu certamente una delle più preziose e anche più sollecite conquiste della nuova fede, egli Greco ed Antiocheno (cfr. § 317, nota).
313. L'ardimento fruttò subito e bene: ed era la mano del Signore con essi, e un gran numero che aveva creduto si convertì al Signore (ivi, 11, 21). La notizia di questa spirituale fioritura giunse anche a Gerusalemme, e allora le autorità di questa chiesa inviarono Barnaba ad Antiochia. Già sappiamo che Barnaba era cipriota (§ 292), come taluni dei predicatori di Antiochia, e senza dubbio condivideva la loro opinione circa la necessità di evangelizzare i pagani. Ciò poi che egli vide, giunto che fu ad Antiochia, lo riempì di gioia, ed esortava tutti a rimanere nella disposizione del cuore col Signore, perché era un uomo buono e pieno di Spirito santo e di fede (ivi, 23-24). Ma, oltre a ciò, il bravo Barnaba era un uomo pratico, e comprese subito esser necessario mettersi all'opera per far sì che una fioritura tanto promettente fosse seguita da una mietitura abbondante. Erano necessari dunque, in primo luogo, quegli operai della mietitura di cui aveva già parlato il Cristo Gesù (Matteo, 9, 37-38). Ma dove trovarli, adatti e ben preparati, immuni cioè da quelle prevenzioni nazionalistiche avverse ai pagani, le quali erano comuni fra i giudeo-cristiani?
Uno di siffatti operai Barnaba lo conosceva, ed era opportunissimo sotto tutti gli aspetti; ma da qualche anno viveva come da segregato e in un posto lontano, e chissà se avrebbe accettato di trasferirsi ad Antiochia. Tuttavia Barnaba volle tentare, e per riuscir meglio nel tentativo, non inviò già lettere o messi al futuro evangelizzatore, ma si recò egli in persona ad invitarlo. Ed ecco le scarne parole con cui ci è narrato questo grandioso fatto: Partì poi (Barnaba) per Tarso a cercar (ivi) Saul, e avendo (lo) trovato (lo) condusse ad Antiochia (Atti, 11, 25-26).
314. Se Barnaba mise gli occhi su Paolo in quella occasione, fu certamente perché conosceva le parole di Anania che alla conversione di lui gli aveva preannunziato l'apostolato fra i Gentili (§ 285). Ebbene, la fioritura di Antiochia sembrava fatta apposta per un evangelizzatore di pagani. Qualunque fosse stato il futuro campo d'azione di Paolo, egli trovava in Antiochia la porta d'ingresso in quel campo: fatte ivi le sue prime armi, Paolo avrebbe potuto in seguito trasferirsi dove voleva. Questo, in sostanza, dovette essere il ragionamento che il visitatore pieno di Spirito santo e di fede fece a Paolo quando l'ebbe ritrovato in Tarso; dal canto suo Paolo, ch'era in attesa d'una chiamata divina (§ 310), riconobbe questa chiamata nell'invito dell'antico amico: gli sembrò, anzi, che colui che lo aveva già introdotto agli apostoli in Gerusalemme (§ 292) lo introducesse adesso a quel mondo pagano a cui aveva coscienza d'esser destinato. Perciò, seguendo Barnaba, Paolo si trasferì da Tarso ad Antiochia. Era l'anno 43.
315. Ciò che seguì al trasferimento di Paolo, ci è comunicato anche questa volta con poche e scarne parole, più che mai sproporzionate alla notizia che contengono: Avvenne poi ad essi e di coadunarsi un anno intero nella chiesa e di impartire insegnamento a una gran turba: così pure (avvenne) che primieramente in Antiochia i discepoli fossero chiamati Cristiani (ivi, 26). Nella gran turba qui accennata dovettero essere inclusi pagani non solo di basso ceto, ma anche di condizione alquanto distinta - ad esempio, come quella di Luca - e torse taluni nobili e facoltosi; certo è che l'avvenimento fu tanto vasto e notorio, che provocò il sorgere e divulgarsi in città dell'appellativo «Cristiani».
L'appellativo, infatti, fu fabbricato certamente dai pagani, e non già come appellativo religioso ma soltanto civico e forse non senza una punta di bonaria ironia: gli Antiocheni, cioè, vedendo quella gran turba che si accalcava per mettersi alla sequela del Christòs, la considerarono quasi un «partito» di costui e designarono i membri di questo partito come Christianòi, in analogia agli appellativi di Caesariani, Pompeiani, ecc., dati ai seguaci del «partito» di Cesare, di Pompeo, ecc. Qualche studioso, anzi, ha pensato che l'appellativo fosse foggiato precisamente dai magistrati romani di Antiochia, fondandosi sulla ragione chè il suffisso -ianòi è originariamente latino, mentre un regolare suffisso greco avrebbe creato la forma Christioi oppure Christikòi: ma la conclusione può sembrare eccessiva, perché si hanno altri esempi, di appellativi di forma mista greco-latina, i quali, attestano l'influenza che la lingua dei governanti esercitava sull'idioma comune della regione (242). Fu dunque una designazione popolare, ispirata da una valutazione, puramente profana, ma che fa intravedere l'ampiezza dell'avvenimento che la provocò.
316. Fu anche il primo risultato stabile dell'operosità apostolica di Paolo. Quell'anno intero in cui egli e Barnaba lavorarono intensamente ffa i pagani di Antiochia produsse qualche cosa che porta già l'impronta di Paolo, cioè la perennità. È commovente notare che, mentre la comunità cristiana di Antiochia scomparve lungo i secoli assorbirà nel gorgo degli eventi umani, la sua designazione invece
ancor nel mondo dura
e durerà quanto il mondo lontana (Inferno 11, 60-61).
Ma questa perennità simbolica compare, appena compare Paolo, quasi fosse un sigillo impresso da lui. Finché esisterà sul mondo un seguace, del Mes­sia Gesù, sarà designato col termine con cui fu designata la gran turba conquistata da Paolo ad Antiochia. Nomen, omen.
In Palestina i seguaci di Gesù èrano designati dai Giudei ancora come Nazorei, e il nuovo appellativo ricevuto in Antiochia sembrò preannunziare le vie nuove su cui s'istradava la nuova fede. Ormai il centro propulsore del cristianesimo nel mondo diventava direttamente Antiochia, arsenale spirituale dislocato avanti in mezzo al paganesimo: Gerusalemme rimaneva, sì, la chiesa-madre sia dei Nazorei sia dei Christianòi, il quartier generale della Buona Novella, ma in pratica le armi per conquistare il mondo alla Buona Novella verranno estratte più dall'arsenale avanzato che dal quartier generale, più dall'ellenistica Antiochia che dalla giudaica Gerusalemme. La liturgia cristiana che nel sec. VII istituì nelle Gallie una celebrazione della cattedra antiochena di Pietro, in aggiunta alla precedente celebrazione della sua cattedra romana, fissò giustamente l'itinerario seguito dal quartier generale del cristianesimo, che nel suo graduale spostarsi da Gerusalemme verso Roma depose per qualche tempo le sue salmerie spirituali nell'arsenale di Antiochia.
317. VIAGGIO DELLE COLLETTE. PREPARATIVI AD ANTIOCHIA. Le relazioni della chiesa-figlia con la chiesa-madre rimasero cordiali; anzi le buone notizie inviate a Gerusalemme da Barnaba indussero a recarsi ad Antiochia alcuni membri della comunità di Gerusalemme ch'erano insigniti del carisma di «profeta», giacché nell'ufficio stesso di questi carismatici era di prodigarsi per il bene altrui (§ 215). E vennero, non soltanto per rafforzare spiritualmente la nuova comunità, ma anche per provvedere alle indigenze materiali dei cristiani di Gerusalemme; nella Città santa, infatti, i fedeli vivevano in grande penuria causata forse in parte dalla comunanza dei beni (§ 249 seg.), che protratta a lungo doveva aver prodotto seri inconvenienti, ma più ancora dai prodromi della grande carestia che infieriva già in varie regioni dell'Impero romano (§ 154).
L'annunzio della carestia fu dato da Agabo, uno dei «profeti» giunti da Gerusalemme, il quale parlò certamente in virtù del suo carisma in qualche adunanza liturgica dei fedeli antiocheni: è probabile che a questa adunanza fosse presente anche il nostro informatore Luca, secondo la testimonianza di alcuni documenti (243). A un annunzio così autorevole e di un fatto così pietoso, non si discusse, bensì fu deciso subito di contraccambiare con soccorsi materiali i soccorsi spirituali che erano provenuti dalla: chiesa-madre. Si raccolsero le offerte che ogni fedele poté fare secondo i propri mezzi, e radunate insieme queste collette furono inviate a Gerusalemme per mezzo di Barnaba e di Paolo.
È il «viaggio delle collette» avvenuto nel 44, e di cui già trattammo (§ 154).
318. La permanenza dei due in Gerusalemme certamente non fu lunga, sia perché si trattava soltanto di consegnare e distribuire i soccorsi inviati dalla carità degli Antiocheni, sia specialmente perché la comunità di Gerusalemme era vessata dalla persecuzione di Erode Agrippa. Giacomo il Maggiore, fratello dell'evangelista Giovanni, era stato ucciso (244); Pietro, imprigionato e poi miracolosamente liberato, si era sottratto ad ulteriori ricerche recandosi in un altro luogo (Atti, 12, 17); degli apostoli rimaneva in città soltanto Giacomo il Minore, il fratello del Signore, salvaguardato dalla grande venerazione che il popolo aveva per lui: i semplici fedeli in parte erano fuggiti e in parte vivevano guardinghi o nascosti. La morte del persecutore Agrippa, che seguì dappresso alla fuga di Pietro, avvenne probabilmente mentre Barnaba e Paolo si trovavano ancora a Gerusalemme (§ 154).
In queste circostanze così minacciose, Paolo certamente non ebbe agio di fare una, nuova esplorazione di Pietro (§ 291) né degli altri apostoli; tuttavia la sua conoscenza della catechesi storica dovette avvantaggiarsi anche in questa nuova visita al posti. Quando, infatti, egli e Barnaba ripartirono alla volta di Antiochia, non erano più essi due soli, avendo preso con sé Giovanni chiamato Marco. (ivi, 25). Costui è il futuro autore del II vangelo; di lui già sappiamo che era cugino di Barnaba, e che la casa di sua madre Maria era in Gerusalemme luogo di convegno di cristiani, tanto che ivi si ricoverò anche Pietro subito dopo la sua miracolosa liberazione dalla prigione (245); sappiamo anche che probabilmente era Marco quel giovanetto che fuggì via tutto nudo quando Gesù fu arrestato nel Gethsemani (246), e che forse erano proprietà di sua famiglia sia la casa dell'ultima cena sia il Gethsemani (247). Ora, quante notizie avrà ricevute Paolo da un testimonio quale Marco? Quanti particolari avrà egli raccolto nella casa di Maria, in cui si sarà recato più volte, seppure non vi avrà abitato insieme con Barnaba ch'era parente di quella famiglia? E il fatto stesso che Marco si decise a seguirli ad Antiochia per scopi missionari, non fu il risultato di fervorosi colloqui tenuti in quella casa ove tutto parlava di Gesù? Possiamo ben concludere che anche questa visita in Gerusalemme valse per Paolo come una nuova esplorazione, non di Pietro, ma di altri autorevoli testimoni.
319. Marco seguì Barnaba e Paolo ad Antiochia, come già Paolo aveva seguito Barnaba da Tarso ad Antiochia (§ 314), ossia quale operaio della mietitura spirituale. Ma nel frattempo l’orizzonte si era ampliato e i progetti si erano accresciuti: la comunità di Antiochia ribolliva di vita, si prevedeva vagamente un'effusione di questa vita al di fuori, e quindi erano opportunissimi nuovi cooperatori. I colloqui fatti a Gerusalemme nella casa di Maria guadagnarono il giovane Marco a queste prospettive; ma possedeva egli quella diuturna e specifica preparazione che Paolo già possedeva quando a Tarso fu invitato da Barnaba? Lo vedremo alla prova.
Da principio, tutto andò bene. I tre, giunti ad Antiochia, ripresero il precedente fervoroso lavoro in quella comunità, continuandolo per un tempo imprecisato; ma un giorno distintamente; risonò quella chiamata di Dio, di cm essi erano in vaga e trepida attesa. Durante un'adunanza liturgica, a cui partecipavano Barnaba, Simeon il Niger, Lucio il Cireneo, Manaen (§ 312), Paolo ed altri fedeli, insigniti di carismi, disse lo Spirito santo: «Mettete per me da parte Barnaba e Saul) per l’opera a cui me li sono chiamati» (Atti) 13, 2). Lo Spirito parlò certamente per bocca di qualcuno dei carismatici che assistevano all'adunanza, e l'autenticità dell'annunzio fu riconosciuta dagli altri «profeti» e «insegnanti» ivi presenti (ivi, I); ma l'annunziò non poteva essere del tutto inaspettato, bensì corrispose a qualche preghiera collettiva fatta dall’adunanza o a qualche privata comunicazione già ricevuta da Barnaba e Paolo. L'ardore della conquista spirituale agitava da molti giorni quella comunità, la quale faceva progetti e innalzava preghiere a Dio per conoscere il suo volere in proposito: il volere divino fu manifestato nella maniera testé vista.
320. Dopo questa illuminazione superiore, per vari giorni si dovettero fare piani, discutere progetti; preparare minutamente i mezzi più adatti per la buona riuscita dell'impresa missionaria. A quale regione pagana rivolgersi? A Cipro, all'Asia Minore meridionale o centrale, alla Jonia, alla Macedonia, all’Acaia? Tutte queste zone dovettero essere esaminate accuratamente, per vedere quali vantaggi e quali svantaggi presentavano, quali colonie giudaiche albergassero a cui rivolgersi prima che ai pagani, quali conoscenze si avessero in quelle colonie per munire i missionari di lettere commendatizie. Ogni cosa fu discussa, giacché quei fervorosi cristiani se possedevano i carismi possedevano anche un gran senso pratico, e se contemplavano il Cristo regnante nei cieli guardavano anche in faccia alle realtà della terra. Ma tutto questo lavorio preparatorio è omesso dalla narrazione, la quale alla notizia dell'elezione di Barnaba e Paolo aggiunge soltanto: Allora, avendo digiunato e pregato, e avendo imposto le mani su di essi, (li) congedarono (ivi, 3).
Dalle discussioni preparative non doveva essere risultato un programma definito in tutti i particolari; si erano scartate certamente regioni più lontane ed ardue, come la Macedonia e l'Acaia, e si era concluso che in questo primo tentativo era bene cominciare con una regione più agevole e facile, salvo poi estendersi altrove se gli inizi fossero andati bene: cominciando dal più facile, i missionari sarebbero poi stati diretti altrove dallo Spirito. Conforme a questo criterio fu scelta come prima meta l'isola di Cipro, per ragioni evidenti: di Cipro era Barnaba, come pure erano uomini Ciprioti alcuni di coloro che per primi avevano predicato ai Greci in Antiochia (§ 312); e anche Paolo, se non era già stato occasionalmente in quell'isola giacente di fronte alla sua Tarso; vi poteva avere conoscenze di vario genere; non mancavano quindi punti d'appoggio a Cipro, e ciò era un gran vantaggio. Dopo Cipro, avrebbero scelto i missionari.
Cominciava così il primo grande viaggio missionario di Paolo. Era l'anno 45 (§ 155).

IL PRIMO VIAGGIO MISSIONARIO
321. I partenti furono tre, ma i veri missionari erano due: ciò è quanto si ricava dalla narrazione del sottile Luca, il quale descrive, la partenza così: Costoro pertanto (cioè Barnaba e Paolo), inviati fuori dallo Spirito santo, discesero a Seleucia; e di là veleggiarono verso Cipro; e giunti a Salamina, annunciavano la parola d'Iddio nelle sinagoghe dei Giudei: avevano poi anche Giovanni (quale) assistente (***) (Atti, 13, 4-5). Cosicché, soltanto Barnaba e Paolo sono inviati fuori dallo Spirito santo, e sotto questa; guida essi iniziano la loro operosità in Salamina; invece Giovanni, ossia Marco, non gode di questa prerogativa, ed è soltanto un assistente dei due veri missionari. Questa sottile distinzione, in realtà, serve al narratore per preparare il lettore alla futura defezione di Marco.
Il tragitto seguito dai tre partenti fu l'ordinario:da Antiochia si recarono a Seleucia, ch'era il porto di Antiochia (§ 31), e da Seleucia toccarono Cipro a Salamina (§ 35). A Salamina cominciò l'operosità dei missionari.
322. CIPRO. Era norma costante dei primi evangelizzatori, e particolarmente di Paolo, di rivolgersi da principio al Giudei per annunziare loro il Messia Gesù, e, se i Giudei respingevano l'annunzio, essi si rivolgevano ai pagani: la nazione ch'era già stata la prediletta di Dio aveva ben diritto a questa precedenza, anche adesso che i suoi privilegi erano stati estesi a tutte le nazioni dal Messia Gesù; ma rispettato questo diritto di precedenza non ne rimanevano altri ai Giudei, equiparati ormai in tutto alle altre nazioni. Per avvicinare i Giudei a tale scopo, la migliore maniera era quella di presentarsi in sinagoga e servirsi ivi del diritto comune di parlare in pubblico durante un'adunanza (248); secondo quale procedura si parlasse nelle adunanze sinagogali, sarà descritto con precisione da Luca, quando riferirà il discorso fatto da Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (§ 331).
Così fece sempre Paolo; nei suoi discorsi sinagogali egli tentava convincere i Giudei sulla base delle sacre Scritture, che il Messia preannunziato in esse era Gesù di Nazareth, perché costui aveva adempiuto in se stesso le caratteristiche attribuitegli da quelle Scritture: era, dunque, una regolare dimostrazione storico-biblica, condotta tuttavia secondo le norme della comune esegesi rabbinica che già vedemmo (§ 76 segg.). Talvolta la sua dimostrazione era accettata almeno in parte, e in tal caso Paolo non si rifiutava di ritornare sullo stesso argomento con un nuovo discorso alla prossima adunanza; quando invece le sue conclusioni erano del tutto respinte, egli dichiarava apertamente di non avere altri doveri verso i suoi connazionali Giudei, e di rivolgersi quindi ai pagani.
323. Non ci viene riferito in particolare quale fosse il risultato di questa evangelizzazione nelle sinagoghe di Salamina, e neppure nelle altre dell'isola ove i Giudei erano numerosi (§ 35); ci è detto soltanto che i missionari avendo attraversato l'intera isola (ivi, 13,.6), pervennero da Salamina a Pafo, ossia quasi dall'estremità orientale a quella occidentale di Cipro. Evidentemente è una notizia molto riassuntiva, e, che si deve riportare a un lavoro di vari i mesi: la distanza; infatti, tra Salamina e Pafo è di 150 chilometri, e lungo questo percorso non dovevano essere pochi i centri abitati, ove quasi sempre doveva ritrovarsi, qualche nucleo di Giudei; anche sostando nei più popolati di questi centri solo il tempo strettamente necessario per spargere e veder dischiudersi la spirituale sementa, le settimane e i mesi dovettero volar via rapidamente.
Per via: indiretta possiamo supporre che il risultato di tutta questa operosità non sia stato scarso: da una parte non ci sono riferite particolari reazioni dei Giudei evangelizzati, che invece saranno vivissime altrove; d'altra parte se Barnaba più tardi ritornò a Cipro insieme con Marco (Atti, 15, 39) avrà fatto ciò non solo per interessi personali di lui cipriota, ma anche per curare i risultati di questa prima missione. Quando, dunque, i missionari ebbero attraversato tutta l'isola, un certo numero di germogli doveva essere spuntato lungo il loro tragitto: erano piccoli gruppi di Giudeo-cristiani, da cui si sarebbero sviluppate più tardi le chiese di Cipro.
324. Giunti i Pafo, ove risiedeva il governatore romano dell'isola (§ 35), i missionari poterono inaspettatamente allargare il loro campo d'azione. A quanto pare, essi si rivolsero come al solito ai Giudei del posto ed ottennero un bel successo con i loro discorsi in sinagoga, tanto che in tutta la città non si parlò che dei nuovi venuti: anche il governatore venne a sapere di loro, probabilmente come di dotti filosofi capitati a Pafo per loro motivi privati. Il governatore era in quel tempo Sergio Paolo, che Luca chiama giustamente proconsole (***) perché allora Cipro era provincia senatoria e quindi era governata, non da un propretore, ma da un proconsole, benché di grado pretorio (249). Egualmente Luca presenta Sergio Paolo come uomo intelligente (***); anche ciò sembra confermato dalle menzioni che Plinio il Vecchio fa di un Sergio Paolo quale fonte delle sue notizie probabilmente su Cipro (250) e che poté esser appunto il nostro: checché sia di ciò, il proconsole non era molto preso dagli affari di governo della sua isola, ch'era fuori di mano e tranquilla, perciò egli, spirito colto ed investigativo, riempiva i suoi otia con amicizie geniali e conversazioni di uomini dotti, ch'erano ricevuti volentieri in casa sua: da tutti egli sperava acquistar nuove cognizioni, anche da maghi, da astrologie da siffatti cultori di scienze occulte, che riscotevano tanto credito a quei tempi come ci attestano vari scrittori romani.
325. Ora, fra gli amici del proconsole aveva particolare autorità un Giudeo di nome Bar-Jesus («figlio di Gesù»). Luca lo chiama mago falso­profeta: ma bisogna aver presente che il termine mago designava quasi sempre una persona dotta, talvolta anche in senso moralmente buono (251), e nel caso nastro da tutta l'insieme si ricava che Bar-Jesus non era un uomo ignorante e grossolano, bensì versato nelle scienze dei suoi tempi, comprese quelle occulte; Luca inoltre lo chiama anche falso-profeta, e ciò mostra che fra le scienze da lui coltivate era compresa anche la divinazione, per cui volentieri egli si sarà spacciato come inviato di Dio ed avrà parlato a nome di Dio. E in realtà, per un Giudeo di quei tempi, la tentazione di atteggiarsi a inviato di Dio era particolarmente forte, e pochi anni dopo in Palestina i falsi profeti si fecero avanti a frotte (252).
Fu appunto questo carattere di «profeta» che mise Bar-Jesus m contrasto con i missionari. Forse egli li aveva uditi parlare in sinagoga, e aveva subito compreso che le loro idee erano agli antipodi rispetto alle sue; quando poi il proconsole s'interessò dei nuovi venuti, Bar-Jesus avrà cercato di prevenirlo in senso sfavorevole a loro, ma inutilmente. Sergio Paolo, infatti, mandò a chiamare gli interessanti stranieri per conoscere il loro pensiero: si diceva in città ch'essi parlavano di un certo Gesù il quale, essendo morto pochi anni prima e poi risuscitato, apportava una nuova vita a tutto il genere umano senza distinzione di stirpi; ebbene, esponessero con tutta libertà davanti a lui le loro dottrine, chè egli era ben pronto ad accettare quello che vi avesse ritrovato di buono. Questa disposizione franca e indipendente non era rarissima presso coscienze oneste a quei tempi di diffuso scetticismo, e Luca la presenta dicendo che il proconsole cercava di ascoltare la parola d'Iddio; egli dunque era anche un uomo equanime che voleva ascoltare e giudicar di persona, senza lasciarsi influenzare dalle opinioni altrui e nemmeno di dotti quali Bar-Jesus. Probabilmente i trattenimenti furono più d'uno, e fin da principio apparve che il proconsole si arrendeva agli argomenti dei due missionari, e specialmente di Paolo che doveva essere il principale oratore.
326. Bar-Jesus era presente, e il suo contegno è descritto da Luca in questo modo: Ad essi però contrastava Elymas il mago - giacché così è interpretato il nome di lui (253) - cercando di distornare il proconsole dalla fede (Atti, 13, 8). Lo schema di argomentazione svolto da Paolo dovette essere quello da lui preferito quando parlava ai pagani: partiva dalla conoscenza naturale del Dio unico, trattava quindi del Dio che si rivela dapprima agli Ebrei mediante i patriarchi e Mosè, e poi a tutto il genere umano mediante il Messia Gesù, del quale infine esponeva fatti e dottrine. A questa argomentazione Bar-Jesus avrà contrastato solo debolmente da principio, quando Paolo trattava della conoscenza naturale di Dio; ma quando sarà passato alla storia ebraica e specialmente a quella del Messia Gesù, il Giudeo mago e l'ex-rabbino cristiano avranno cozzato violentemente fra loro con citazioni messianiche delle sacre Scritture e contestazioni di vario genere. Ma ad un certo punto Saul, che (è) anche Paolo (254), ripieno di Spirito santo, fissandolo disse: «O pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo (255), nemico di ogni giustizia, non cesserai di pervertire le vie diritte del Signore? E adesso, ecco, la mano del Signore su te, e sarai cieco non vedendo il sole fino a (un certo) tempo». Subito, pertanto, cadde su lui oscurità e tenebra, e andando attorno cercava (persone che lo) guidassero per mano (ivi, 9-11).
327. In una situazione analoga si era già ritrovato Paolo sulla strada di Damasco, cieco e bisognoso di chi lo guidasse per mano (§ 266); ma là egli già aveva assentito al suo contraddittore, qui invece l'assenso del cieco smarrito non esisteva. Non sono mancate anche qui le spiegazioni naturalistiche proposte già là: il mago sarebbe stato di costituzione nevropatica, cosicché scosso dalle parole di Paolo e quasi ipnotizzato dal suo sguardo fisso su di lui, avrebbe sofferto di un momentaneo annebbiamento di vista. Dal che risulta che codesti critici non sono poi molto ricchi di trovate, giacché abbastanza noiosamente ricorrono sempre agli stessi metodi.
Non ci viene narrata la sorte successiva di Bar-Jesus. Di Sergio Paolo, invece, ci vien detto: Allora, avendo visto il proconsole l'accaduto, credette, essendo stato assai colpito (***) dalla dottrina del Signore (ivi, 12). Se egli credette, riconobbe per lo meno intellettualmente la verità del cristianesimo; ma la riconobbe anche ufficialmente, ricevendo il battesimo? Quest'ultimo punto non ci viene attestato, tuttavia può darsi che sia implicito nella dichiarazione ch'egli credette; d'altra parte la sua qualità di alto magistrato dell'Impero romano non era un serio ostacolo al ricevimento del battesimo, perché a questo tempo (anno 45) Roma non aveva ancora alcuna pregiudiziale contro il cristianesimo, e tanto poco importava che un magistrato di provincia si facesse cristiano quanto che si iniziasse ai misteri di Iside o desse il suo nome a una setta pitagorica.
328. ANTIOCHIA DI PISIDIA. Con l'episodio di Sergio Paolo termina la permanenza dei missionaria Cipro; era stata 'una permanenza, in complesso, fruttuosa, e specialmente l'adesione del proconsole aveva aperto i cuori dei missionari alle più belle speranze. In queste condizioni di spirito, e non avendo un programma minutamente tracciato (§ 320), i missionari abbandonarono l'isola per recarsi sul continente che sovrastava a Settentrione; ma appena giunti avvenne nella piccola comitiva un fatto spiacevole, sebbene forse non del tutto imprevisto: Avendo preso il largo da Pafo, quelli insieme con Paolo giunsero a Perge della Pamfilia; ma Giovanni, separandosi da loro, tornò a Gerusalemme (ivi, 13).
La traversata da Cipro alla Pamfilia fu una navigazione non lunga; sbarcati certamente ad Attalia, in breve raggiunsero Perge, a una dozzina di chilometri dal mare (§ 10). Ma già da questo breve viaggio su terra s'intravedeva che la Pamfilia era ben diversa da Cipro: se lì a Perge, ancora ai piedi della catena montagnosa del Tauro, il paesaggio appariva tra il desolato e il selvaggio, che cosa si sarebbe trovato inoltrandosi fra quelle montagne, su pessime strade, senza alcuna comodità, in pieno dominio di briganti? Queste considerazioni dovette farsi Giovanni, ossia Marco, durante la sosta a Perge, ma esse sopravvennero su altre di natura diversa che già da qualche tempo turbavano la sua mente.
329. Si sarà notato come la carovana dei tre viaggiatori sia qui designata con la nuova espressione quelli insieme con Paolo (***). Fino a questo punto il capo morale della comitiva era stato Barnaba; adesso, invece, il centro diventa Paolo, e gli altri sono gente che va appresso a lui. Senza dubbio la nuova espressione rispecchia la nuova situazione che si era venuta formando: alla partenza da Antiochia e nei primi tempi della permanenza a Cipro, Barnaba era in prima linea, ma quando cominciò l'intensa operosità missionaria venne in prima linea Paolo per naturale conseguenza di quella operosità; tutto era intrapreso da lui, tutto metteva capo a lui, e quindi inevitabilmente gli altri diventarono quelli insieme con Paolo. Ad ogni modo, finché si stava a Cipro, Barnaba aveva il vantaggio di ritrovarsi in patria e quindi di essere particolarmente utile per le sue conoscenze; ma anche questa sua prerogativa era molto scemata negli ultimi tempi, allorché la comitiva era entrata nell'ambiente pagano del proconsole, ed era poi cessata del tutto con la partenza dall'isola. Ebbene, Giovanni Marco doveva aver notato già da tempo questa diminutio capitis del suo cugino Barnaba, e giovane qual era non poteva esserne soddisfatto; adesso poi si aggiungeva quell'avventura di gettarsi a capofitto fra i burroni e le paludi, della Pamfilia, avventura richiesta dal solito Paolo a cui il buon Barnaba non aveva avuto la fermezza di opporsi. Ma era regolare e prudente tutto ciò?
Marco ammirava volentieri l'energia indomabile di Paolo, ma non riusciva a vedere per qual ragione tutti dovessero pensar come lui e specialmente seguirlo dov'egli andava. E nel suo spirito di viaggiatore novellino, ch'era uscito di patria per la prima volta, i ricordi della casa materna si affollavano ogni giorno più con una tenerezza tale da farlo quasi piangere: egli contrapponeva la sua mite madre Maria, la premurosa albergatrice di Pietro fuggito di carcere, a quel vulcanico Paolo che non aveva mai bisogno né di mangiare né di dormire, e confrontava la sua comoda e pia Gerusalemme con quella Pamfilia ricettacolo di demonii e di ladroni. La conclusione fu che, al momento di riprendere il viaggio da Perge verso l'interno, Marco lo riprese verso il mare, avendo deciso di tornarsene a Gerusalemme.
Paolo sentì molto la defezione di Marco, e se ne ricordò per lungo tempo (§370). Barnaba non osò seguire il cugino, e rimase con Paolo. Ma poi i due insieme avranno scusato la debolezza del giovane allegando la mancanza in lui di una specifica preparazione (§ 3I9), e ricordando anche che egli in realtà non era mai stato nel numero dei missionari inviati fuori dallo Spirito santo (§ 321).
330. Scomparso Marco, i due superstiti si rimisero in cammino da Perge puntando direttamente al Nord, verso il centro dell’Asia Minore. Risalendo lungo il fiume Cestro, seguirono la strada che portava prima ad Adada e poi ad Antiochia di Pisidia, e così affrontarono subito la catena del Tauro di Pamfilia.
La distanza da Perge ad Antiochia era di circa 160 chilometri, ma per compiere questo tragitto erano necessari non meno di sei o sette giorni, tanto era faticoso e pericoloso il cammino. La strada, appena mulattiera, dapprima si sprofondava nei burroni percorsi dal fiume Cestro, poi man mano risaliva verso l'altopiano della Pisidia e si elevava a più di 1000 metri d'altezza, aggirandosi fra picchi nevosi, lande solitarie e dense boscaglie. Qui c'erano torrenti montani da guadare; là bisognava trovarsi un nuovo passaggio perché la mulattiera era franata, oppure aprirsi un varco fra la selvaggia vegetazione che si era ispessita. Dappertutto incombeva la minaccia delle antiche bande di ladroni, rafforzate continuamente da schiavi fuggiaschi, che facevano buoni colpi sui mercanti di passaggio; in nessun posto il viandante, spossato dopo una giornata d'incessanti sforzi,. poteva ripromettersi al calar della notte qualcosa di meglio che un diroccato caravanserraglio, ove avrebbe mangiato soltanto ciò che si era portato con sé, si sarebbe disteso a terra fra il letame, avrebbe dormito al freddo alpestre, preparandosi inoltre ad essere risvegliato dalle urla dei lupi famelici che s'aggiravano nei dintorni. Solo oltrepassato il Tauro, lungo la strada più frequentata della pianura, si sarebbe potuto ritrovare uno di quei miserabili alberghi, raffigurati talvolta in documenti archeologici, ove si sostava con ripugnanza appena una notte, e se ne ripartiva subito la mattina appresso, dopo aver pagato salatamente la malfamata albergatrice.
Ma i due superstiti missionari non erano Marco e superarono tutte queste difficoltà, sostenendosi anche col pensiero che se quel duro cammino era percorso da mercanti in cerca di lucro, da legionari romani per disciplina militare, da funzionari dell'Impero per doveri d'ufficio, tanto più doveva esser percorso da apostoli del Messia Gesù per la gloria di lui. Fra il quarto e il quinto giorno il viaggio divenne più agevole: fu costeggiato il lago di Egher­dir (§ 27) in un paesaggio alpino, e dopo ancora un pernottamento o due si giunse ad Antiochia.
331. Come al solito, Paolo e Barnaba s'indirizzarono al quartiere dei Giudei, che attirati dal commercio delle pelli erano numerosi in città, e per i quali i viaggiatori avevano certamente lettere di presentazione. Senza perder tempo, il primo sabbato che venne essi si presentarono in sinagoga per iniziare la loro missione. La sinagoga era frequentata non solo dai Giudei di stirpe, ma anche dai non Giudei che simpatizzavano per la religione d'Israele, e che erano divisi nella classe inferiore dei «devoti» o «timorati» di Dio, e in quella superiore -dei «proseliti » (256): di questi pagani affiliati al giudaismo, Paolo ne incontrerà quasi dovunque nei suoi viaggi (257). Probabilmente si era sparsa già la voce dell'arrivo dei due che avrebbero esposto idee nuove, e per ciò quell'adunanza sinagoga le dovette essere più affollata del solito specialmente dai non Giudei.
La procedura dell'adunanza fu quella ordinaria che già conosciamo, ma. che qui è bene leggere colta dal vivo: Venuti nella sinagoga nella giornata del sabbato, si sedettero. Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, gli archi­sinagoghi mandarono a dir loro: «Uomini fratelli, se avete qualche parola d'esortazione per il popolo, parlate». Essendosi pertanto Paolo alzato e avendo fatto cenno con la mano, disse: «Uomini Israeliti e (voi) timorati di Dio, ascoltate...» (Atti, 13, 14-16). Una descrizione quasi uguale aveva già fatta Luca presentando l'ultimo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Nazareth prima di essere espulso dal villaggio della sua infanzia (Luca, 4, 16-30), con questa differenza che del discorso di Gesù non aveva riportato che l'enunciato iniziale. (258), mentre qui del discorso di Paolo riporta un ampio riassunto.
332. Lo schema di ragionamento fu quello usuale di Paolo (§ 326); solo che questa volta, parlando egli a chi già credeva nell'unico Dio, omise a principio la parte relativa alla conoscenza naturale di Dio, e cominciò con la rivelazione di Dio agli Ebrei per passare poi alla rivelazione mediante Gesù, corredando l'esposizione dei fatti con l'allegazione di passi messianici delle Scritture. Di particolare importanza fu la conclusione: Vi sia pertanto noto, uomini fratelli, che mediante costui (Gesù) è annunciata a voi la remissione di peccati, e (che) di tutte le cose di cui non poteste esser giustificati nella legge di Mosè è giustificato chiunque crede in costui (Atti, 13, 17-41).
La novità dell'argomento e la precisione dei fatti narrati riguardo a Gesù dovettero fare impressione; ma il punto culminante fu quel contrasto, presentato nella conclusione, fra l'insufficienza della Legge di Mosè a giustificare e la giustificazione effettiva operata dalla fede di Gesù. I Giudei di sentimenti farisaici fiutarono in queste parole un sentore di eresia, una ventata di rivoluzione, che non lasciava prevedere nulla di buono; invece i non Giudei, affiliati nei gradi di «timorati» o di «proseliti», vi intravidero l'alba d'un radioso giorno, in cui avrebbe brillato il sole della libertà spirituale. Ad ogni modo, l'argomento era troppo delicato per essere esaurito in una sola adunanza; perciò, allo sciogliersi della riunione, gli archisinagoghi ed altri pregarono i due di tornare al prossimo sabbato per trattare lo stesso argomento. Vi furono però uditori più infervorati che non tollerarono di aspettare una settimana, ma domandarono subito ai due stranieri vari schiarimenti su ciò che avevano ascoltato; questo vivo interesse era per Paolo e Barnaba un effetto della grazia d'Iddio, e conforme a questo criterio fu l'indole delle loro risposte: Molti dei Giudei e dei «devoti» proseliti seguirono Paolo e Barnaba, i quali conversando con essi li persuadevano a perseverare nella grazia d'Iddio (ivi, 43).
333. In quella settimana di attesa, la notizia passando di bocca in bocca si diffuse in tutta la città: non solo i Giudei ma anche i pagani, sia Greci che Orientali, sia letterati che artigiani, tutti vennero a sapere che il prossimo sabbato avrebbe parlato in sinagoga un Giudeo di Tarso, il quale era cittadino romano e da principio aveva perseguitato un certo Gesù di Nazareth, ma poi era passato al partito di lui avendolo visto risuscitato un giorno nei pressi di Damasco ed essendosi convinto ch'era una specie di semidio, ossia quel personaggio che i Giudei chiamavano il Messia; si diceva che l'oratore, educato com'era a Tarso, fosse un parlatore abile e vigoroso, e certo sarebbe stato interessante sentirlo svolgere quelle idee di indipendenza dalla Legge giudaica e di libertà spirituale con cui aveva chiuso il precedente discorso. Per la modesta città di monotona vita commerccia1e l'avvenimento fu straordinario, e perciò accadde che al seguente sabbato quasi tutta la città s'adunò ad ascoltare la parola d'Iddio (ivi, 44); quest'espressione parola d'Iddio è giusta dal punto di vista del narratore, ma psicologicamente è più esatta l'espressione di un codice (D: testo «occidentale»; § 119, nota) secondo cui la città venne ad ascoltare Paolo: ciò che interessava, infatti, era l’oratore con le sue idee innovatrici, mentre della parola d'Iddio quella folla di pagani ancora non sapeva con precisione che poco o nulla.
Già quell'enorme affollamento dette terribilmente ai nervi dei maggiorenti: vedendo pertanto i Giudei le turbe, furono pieni di gelosia (ivi, 45). Che cosa erano venuti a fare tutti quei pagani? A rendere impura con la loro presenza la sinagoga? O forse speravano sentire affermare, proprio in sinagoga, che la Legge di Mosè era uno strumento inadatto? Oppure, che davanti a Dio tanto valeva un Giudeo, quanto un Greco e un Barbaro e una Scita? Ubbie! S'attentasse quel Paolo di Tarso ad esporre siffatte idee, e tutti avrebbero visto quale accoglienza l'aspettava!
334. Il nuovo discorso di Paolo non ci è riportato: solo il codice surricordato dice vagamente ch'egli fece un ampio discorso circa il Signore, ossia Gesù. Ma per analogia possiamo congetturarne l'argomento: come le idee sulla giustificazione esposte nel discorso precedente sono le idee tipiche di Paolo che riappaiono nelle lettere ai Romani e ai Galati, così parlando questa volta specialmente di Gesù avrà affermato ch'egli era il Messia predetto dalle Scritture, e che era morto e risorto, e che la sua morte aveva apportato la redenzione a tutti gli uomini indistintamente, abolendo così la Legge di Mosè e la prerogativa dei Giudei, e simili idee usuali nelle sue lettere. Questa congettura è rafforzata dall'accoglienza che incontrò il discorso da parte dei Giudei, i quali contraddicevano alle cose dette da Paolo bestemmiando (ivi,45).A chi erano indirizzate queste «bestemmie» o ingiurie? Certamente all'eretico, a Paolo; ma, indirettamente, anche all'oggetto dell'eresia, a Gesù, che Paolo più tardi chiamerà scandalo per i Giudei (I Cor., 1, 23).
È facile ricostruire la scena. Man mano che Paolo portava avanti il discorso, i Giudei tentavano demolire la sua costruzione dialettica (all'incirca come fanno oggi i critici radicali con le lettere di lui e con la narrazione degli Atti); respingevano le sue testimonianze, deformavano il senso delle citazioni bibliche, e soprattutto ingiuriavano, ricoprendo di scherni Gesù, la sua vita, la sua dottrina e ogni cosa. Quando poi Paolo avrà proclamato che nel regno del Messia Gesù tanto vale un Giudeo quanto chi è d'altra stirpe, e che la Legge di Mosè è sostituita dal Vangelo, gli uditori non Giudei avranno applaudito calorosamente, ma ciò avrà fatto perdere ogni ritegno ai Giudei. Una tempesta di contumelie si sarà scaricata su Paolo, furenti minacce saranno state lanciate contro il rinnegato e il traditore, ed egli non avrà più potuto materialmente farsi udire.
335. Ma Paolo aveva preveduto questo epilogo, e ci si era preparato. Rimase egli ritto sul suggesto da cui parlava, non facendo alcun conto delle urla e delle minacce che lo investivano; a un certo puntò scambiò poche parole con Barnaba, che stava vicino al suggesto, e ambedue attesero ancora. Appena il clamore diminuì quant'era bastante per farsi udire, ambedue dichiararono con serena fermezza: Era necessario parlare la parola d'Iddio in primo luogo a voi; poiché la scartate e non giudicate degni voi stessi della vita eterna, ecco, ci rivolgiamo ai Gentili (Atti, 13, 46).
Avvenne la scissione. Paolo e Barnaba non misero più piede in sinagoga; ma ciò non significa che rimanessero inoperosi. La loro dichiarazione finale, che avrebbero abbandonato i Giudei per rivolgersi ai Gentili, aveva rallegrato costoro, che accolsero subito e volentieri le istruzioni impartite dai due missionari. Le adunanze si saranno tenute, non più in sinagoga, ma in una bottega, in una casa privata, all'aperto in un giardino, dove capitava: ma non per questo erano meno fruttuose. Quei pagani in cerca di luce intervenivano numerosi e volentieri, cosicché man mano si espandeva la parola del Signore su tutta la regione (ivi, 49). La propaganda avveniva spontaneamente: chi aveva assistito ad una adunanza rimanendone consolato, ne parlava al parente che abitava nella stessa casa, al mercante che dal suo lontano villaggio era capitato in città per affari, al soldato che dalla sua guarnigione distaccata in campagna contro i briganti era venuto a prendere ordini al quartiere generale; molti s'interessavano, intervenivano, rimanevano anch'essi consolati, e alla loro volta facevano propaganda. I due missionari si saranno prodigati recandosi qua e là, in città e fuori, fors'anche facendosi coadiuvare in un secondo tempo da qualche neofita più adatto e specialmente meglio fornito degli opportuni carismi (§ 211 segg.). Ogni tanto, chiuso un breve ciclo di preparazione, numerosi gruppi di frequentatori delle adunanze erano condotti sulla riva di qualche corso d'acqua, che scendeva giù dalla montagna vicina, ed ivi erano battezzati.
336. Questa operosità dovette prolungarsi per molti mesi, per più di un anno, giacché il movimento non poteva estendersi su tutta la regione di Antiochia in poche settimane. Ora, i Giudei non assistettero a questo risultato. senza impensierirsi: da principio, essi avevano creduto che, espulsi i due missionari dalla sinagoga, tutto sarebbe finito; ma adesso riscontravano che i due espulsi disponevano in proprio di una potenza spirituale che non attingeva nulla dalla sinagoga, anzi era diventata più agile ed efficace dopo il distacco. Eppure, non si poteva tollerare un contraltare di quel genere, che aveva tante cose in comune col giudaismo! Ma come sopprimerlo? Ricominciare le dispute non era il caso, perché quel Paolo era tutt'altro che disposto a lasciarsi confondere; non rimaneva che ricorrere a provvedimenti d'autorità, come già avevano fatto i Giudei di Damasco con lo stesso Paolo quando lo avevano costretto a fuggire calandosi in una sporta (§ 290).
I Giudei pertanto eccitarono le donne «devote» insigni e i primari della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono fuori dei loro confini (ivi, 50). Questa volta, dunque, non agì tanto il denaro come a Damasco, quanto l'influenza sociale. Le donne pagane affiliate al giudaismo della Diaspora furono sempre numerose, non solo nella classe inferiore dei «devoti» o «timorati», ma anche in quella superiore dei «proseliti», perché non esisteva per esse il grave inconveniente della circoncisione che ritraeva quasi sempre gli uomini da questa classe superiore; a Damasco tutte le donne non giudee, salvo alcune poche, erano affiliate al giudaismo (§ 33). In Antiochia di Pisidia si ricorse al credito sociale delle «devote» insigni, agendo per mezzo di esse sui loro mariti e parenti che avevano in mano l'amministrazione della città, affinché lo scandalo cessasse. Pretesti legali per raggiungere lo scopo erano facili a trovarsi, data la posizione di privilegio di cui godevano i Giudei nell’Impero.
La persecuzione, che ci viene appena menzionata, poté portare con sé qualcuna di quelle tribolazioni che Paolo ricorda d'aver sofferte (2 Cor., 11, 23-25): forse fu trascinato in sinagoga a ricevervi i regolamentari 39 colpi di flagelli (259), che egli in sua vita ricevette almeno cinque volte; forse fu vergheggiato dai magistrati civili, come gli accadde almeno tre volte; forse rimase vari giorni in carcere, che d'ora innanzi diventerà sempre più il suo alloggio. Non sappiamo nulla di preciso: certo è che alla fine una «spontanea» sollevazione popolare, minuziosamente preparata nella sua «spontaneità» dagli istigatori interessati, espulse dal territorio della città i due missionari.
337. Anche questa volta essi si ritrovarono preparati: quando contusi ed ammaccati furono fuori della città, i due, avendo scosso la polvere dei piedi contro di quelli, come Gesù aveva insegnato a fare (Matteo, 10, 14), andarono a Iconio. Erano essi così lontani dal sentirsi disanimati, che chiuso un campo d'azione ne aprivano subito un altro altrove. Ed eguali sentimenti provarono i nuovi cristiani che essi lasciavano in Antiochia, perché i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo (Atti, 13, 52). Forse questi discepoli avevano udito raccontare da Paolo e Barnaba, che quando gli apostoli erano stati flagellati dal Sinedrio di Gerusalemme, partirono godendo dalla presenza del Sinedrio, perché erano stati fatti degni per il nome (di Gesù) di essere vilipesi (Atti, 5, 41). Si era formata la persuasione, in quei neofiti, che senza patimenti e travagli il regno del Messia Gesù non si propagava, e quindi gioivano quando potevano contribuire alla sua propagazione patendo e travagliando.
Del resto questi paradossali sentimenti non erano particolari ai neofiti di Antiochia di Pisidia, bensì erano abituali anche in Paolo, il quale osava affermare: Perciò mi compiaccio nelle debolezze, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle strettezze (sopportate) per Cristo: quando infatti sono debole, allora sono forte (2 Cor., 12, 10). Ma anche Paolo, a sua volta, non aveva inventato di suo codesti paradossi, bensì li aveva soltanto ricopiati, avendoli estratti da quel supremo paradosso che era il Discorso della montagna (260).
338. ICONIO. Il viaggio da Antiochia di Pisidia a Iconio, avvenuto forse sui principii dell'anno 47, fu lungo un poco più di 130 chilometri. Accompagnati probabilmente da alcuni fervorosi neofiti di Antiochia, i due missionari attraversarono i brulli e deserti altipiani che si stendono fra le due città, e che appartengono al classico tipo della steppa asiatica; nelle zone meno paludose o meno coperte da incrostazioni saline erravano ampi greggi di pecore
e capre, che fornivano il materiale per le molte fabbriche di tessuti di Iconio. Nella città (§ 25) i Giudei non dovevano essere scarsi, attirativi dal commercio: Paolo, appena arrivato, avrà trovato facilmente modo di esercitare il suo mestiere presso qualche fabbrica gestita da suoi connazionali, seguendo la sua norma costante di guadagnarsi il pane col lavoro delle sue mani (§ 230).
339. Ma nello stesso tempo egli iniziò il lavoro spirituale, seguendo anche qui la sua norma di indirizzarsi prima di tutto ai Giudei: avvenne in Iconio che, secondo la stessa (costumanza), essi entrassero nella sinagoga dei Giudei e parlassero in maniera tale che credesse una gran moltitudine di Giudei e di Greci (Atti, 14, 1). È chiaro che anche qui abbiamo una relazione molto stringata, perché la conversione di questa gran moltitudine non poté essere che il risultato di una operosità relativamente lunga. La stringatezza prosegue riguardo ai fatti successivi, che si svolsero all'incirca come ad Antiochia di Pisidia. I Giudei che respingevano la dottrina dei missionari eccitarono ed esacerbarono (***) le anime dei Gentili contro i fratelli (ivi, 2): si riconoscono facilmente, in questi Gentili, non soltanto le persone di basso ceto, ma anche i ricchi industriali e coloro che più influivano sulla cosa pubblica.
Tuttavia i perseguitati non cedettero, bensì trascorsero molto tempo parlando con franchezza (appoggiandosi) sul Signore, il quale rendeva testimonianza alla parola della sua grazia, concedendo che segni e prodigi avvenissero per le mani di loro (ivi, 3). Agivano dunque in pieno i carismi, di cui erano adorni i missionari e il cui diretto scopo era la propagazione o il rafforzamento della fede (§ 211). Contro questo spiegamento di forze spirituali i Giudei ostili non avevano nulla da opporre, salvo la forza materiale: e difatti la opposero. La folla della città si scisse, ed alcuni erano con i Giudei, altri invece con gli apostoli; ma essendo avvenuta una sollevazione dei Gentili e dei Giudei insieme con i capi di costoro per malmenarli e lapidarli, (Paolo e Barnaba) avendolo risaputo si rifugiarono nelle Città della Licaonia, Listra e Derbe e nella regione d'attorno; e là stettero ad evangelizzare (ivi, 4-7).
340. L'epilogo, in sostanza, fu come ad Antiochia di Pisidia. Dati i criteri paradossali di Paolo, egli si sarà compiaciuto anche di questa persecuzione (§ 337), e ne avrà tratto la conclusione che il lavoro compiuto a Iconio era stato benedetto da Dio, perché era finito con ciò che umanamente appariva come un fallimento; e senza dubbio anche i neofiti di Iconio, come già quelli di Antiochia, saranno rimasti pieni di gioia e di Spirito santo. In questo capovolgimento di criteri umani sta tutto il segreto dei successi missionari di Paolo: l'uomo fallisce sempre; ma Dio trionfa sempre. È il segreto del Discorso della montagna, che troppo spesso non è stato afferrato da critici e da filosofi (261).
341. LISTRA; Fuggiti da Iconio, probabilmente verso i primi mesi dell'anno 48, i due missionari si rifugiarono in Licaonia nella cittadina di Listra (§ 26), situata a una quarantina di chilometri verso il Sud. La circostante regione era stepposa, deserta, e per di più infestata dai briganti, contro i quali un secolo prima aveva avuto molto da fare Cicerone al tempo del suo proconsolato in Cilicia; nella piccola città le industrie erano scarse ci nulle, e perciò i Giudei non vi erano affluiti in numero rilevante: non abbiamo, infatti, accenno che ivi esistesse una sinagoga, sebbene la sinagoga non mancasse mai nelle comunità giudaiche della Diaspora anche se costituite da un piccolo nucleo (262). Tuttavia qualche famiglia giudaica non mancava anche a Listra (cfr. Atti, 16, 3), e presso una di esse dovettero alloggiare i fuggiaschi, probabilmente presso la famiglia di Timoteo che verrà in prima linea nel successivo viaggio di Paolo (§ 372).
In queste condizioni, ai missionari non rimase che rivolgere la loro operosità quasi esclusivamente alla gente originaria del posto, ai Licaoni, politeisti semplici e incolti, che pur comprendendo più o meno la lingua internazionale greca, parlavano abitualmente il licaonio, di cui oggi sono rimaste solo poche iscrizioni frammentarie. Quel tanto di ellenismo ch'era penetrato a Listra aveva, come al solito, trasformato le antiche divinità locali, di tipo certamente naturistico (§ 59), fondendole con divinità greche e chiamandole con nomi greci: perciò anche i Licaoni di Listra veneravano Zeus ed Ermete, come pure avevano un tempio dedicato a Zeus e situato - a quanto pare ­ alla, porta della città (Atti, 14, 13). Essi inoltre conoscevano la leggenda di origine frigia, ma notissima nel mondo greco-romano, secondo cui due pastori, i coniugi Filemone e Bauci, ospitano nella loro capanna Zeus ed Ermete (Giove e Mercurio), presentatisi ad essi in forme umane, e ne sono ricompensati con l'esaudimento del loro supremo desiderio (Ovidio, Metamor., VIII, 620 segg.).
342. Un giorno dunque, forse nei pressi del tempio di Zeus, Paolo parlava all'aperto a un gruppo di gente affluita o al tempio per qualche festa o al mercato tenuto alla porta della città; Barnaba stava vicino a lui in silenzio. Come sempre in simili affluenze, non mancavano mendicanti che chiedevano la limosina; anzi uno di costoro, ch’era storpio dalla nascita, si era infiltrato nel gruppo degli uditori di Paolo, strascinandosi faticosamente per terra, e stava ascoltando con grande attenzione. L'oratore infatti parlava di un certo Gesù, ch'era Figlio di Dio ma si era fatto uomo ed era vissuto fra gli uomini per salvarli, e quel disgraziato, al sentir tale annunzio, lo aveva applicato subito a se stesso: se c'era questo Gesù che salvava, chi aveva bisogno di esser salvato più di lui, infelice fin dalla nascita? Era tanto viva la speranza accesa dall'annunzio nel suo cuore, che si rifletteva chiaramente anche sul suo volto. Paolo, che da esperto oratore seguiva sul volto degli uditori l'effetto delle sue parole, s'avvide della commozione dello storpio, e allora, avendolo fissato e vedendo che aveva fede di esser salvato, disse a gran voce: «Stà su in piedi, ritto!». E (quello) balzò su, e camminava (ivi, 9-10).
Già in parecchi miracoli operati da Gesù la fede era stata condizione essenziale per il miracolo (263); qui Paolo, seguendo lo stesso criterio, s'avvide che lo storpio aveva fede di esser salvato. Veramente la salvezza apportata da Gesù e predicata da Paolo era quella spirituale, non già la guarigione materiale; tuttavia la prima non escludeva la seconda, anzi poteva anche esigerla qualora avesse giovato alla salvezza spirituale di sé o di altri. Lo storpio pensò certamente alla propria guarigione; Paolo, con i suoi poteri carismatici, vide che quella guarigione avrebbe arrecato un giovamento spirituale agli astanti, ed operò il miracolo.
343. In realtà questo giovamento si ebbe stabilmente solo più tardi, mentre le sue prime manifestazioni furono goffe e smodate. Le folle, avendo visto ciò che Paolo aveva fatto, alzarono la loro voce in licaonio dicendo: «Gli Dei, fattisi simili ad uomini, discesero verso noi!». Chiamavano poi Barnaba Zeus, e Paolo Ermete, perché egli era il padrone della parola (***). L'identificazione dei due missionari coni due Dei fu certamente suggerita dall'episodio di Filemone e Bauci, di cui quei Licaoni credettero di assistere a una ripetizione: meravigliati della guarigione e sorpresi della perfetta corrispondenza della identificazione, essi si dettero a gridare in licaonio, la loro lingua più usuale e spontanea; la quale però era del tutto ignota a Paolo e Barnaba, cosicché costoro da principio non capirono di essere stati scambiati per due Dei. Se poi Paolo fu identificato per Ermete, ciò dipese non già dal suo aspetto fisico, come già dicemmo (§ 187), bensì dal fatto che egli era il padrone della parola, ossia l'oratore ufficiale di quella coppia di Dei.
Fino a questo punto la cosa passò liscia, e i Licaoni poterono credere che i due presunti Dei godessero di essere stati riconosciuti e di essere acclamati così cordialmente. Ma la scena cambiò quando alle acclamazioni s'aggiunsero i fatti, per comprendere i quali non c'era bisogno di capire il licaonio. Inoltre il sacerdote di Zeus che è davanti alla città (264), avendo portato tori e ghirlande davanti alle porte, voleva offrire un sacrifizio insieme con le turbe. Davanti a questi fatti, tutto diventò chiaro per i due missionari: quella gente si preparava a compiere nientemeno che un atto di idolatria in loro onore!
Udendo (ciò) gli apostoli Barnaba e Paolo, lacerate le loro vesti, si slanciarono fuori nella folla, gridando e dicendo: «Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo uomini, sottoposti alle stesse vicissitudini (***) di voi, dandovi la buona novella di convertirvi da codesti (Dei) vani al Dio vivente, che fece il cielo e la terra e il mare e tutte le cose in essi, il quale nelle trascorse generazioni permise a tutte le genti di camminare per le loro strade: ciò non ostante non lasciò se stesso privo di testimonianza, beneficando, dal cielo dando a voi piogge e stagioni fruttifere, riempiendo di nutrimento e gaudio i vostri cuori» (Atti, 14, 14-17). I due divinizzati si lacerarono gli orli superiori delle tuniche per dimostrare visibilmente il loro sdegno a causa di quella divinizzazione, giacché - come già sappiamo (265) -questa era l'usanza dei Giudei davanti a una scena di sommo cordoglio. Il discorsetto che essi fanno ai Licaoni si adatta alla loro mentalità di idolatri naturistici (§ 59), e li richiama al principio del vero Dio autore della natura non senza impiegare pensieri e frasi ebraico-bibliche. L'impeto dei due per impedire quella cerimonia fatta in buonafede può sembrare oggi esuberante, ma solo a chi dimentichi che i due erano Giudei ed avevano quindi, un profondo e tradizionale orrore per ogni manifestazione di idolatria: e ciò conferma sempre più il contrasto assoluto del pensiero di Paolo con qualsiasi derivazione idolatrica (§ 281).
344. Il risultato immediato del discorsetto fu di impedire Il sacrifizio, ma un risultato più remoto fu di provocare un cambiamento troppo radicale nell'opinione che quei rozzi Licaoni s'erano fatta dei due divinizzati. I missionari stessi avevano confessato di essere uomini come loro; dunque - pensarono i disillusi divinizzatori -. essi facevano miracoli per virtù magica, come tanti altri predicatori che andavano in giro a quei tempi: perciò bisognava lasciarli fare, ma nello stesso tempo non fidarsi ciecamente di loro e sorvegliarli, giacché potevano un giorno servirsi dei loro arcani poteri per danneggiare e truffare; come facevano molti dei suddetti predicatori.
Passò così un tempo imprecisato, in cui Paolo e Barnaba continuarono la loro evangelizzazione senza disturbi e fecero un certo numero di discepoli (ivi, 20); ma poi la neutralità dei Licaoni fu cambiata in aperta ostilità dall'intervento dei Giudei di Antiochia e di Iconio. Costoro non avevano dimenticato le sconfitte morali ricevute, e avevano anche risaputo che i due missionari stavano a Listra a continuare fruttuosamente la loro propaganda. Una «spedizione punitiva» fu presto, organizzata, e certamente con l'aiuto di qualche Giudeo di Listra ottenne subito risultati definitivi: i quali ci sono comunicati nella solita maniera stringata: Ma giunsero Giudei da Antiochia e da Iconio, e avendo persuaso le turbe e lapidato Paolo lo trascinarono fuori della città, pensando che fosse morto. Sennonché, avendolo i discepoli circondato, levatosi su entrò nella città; e il giorno appresso andò via insieme con Barnaba a Derbe (ivi, 19-20).
345. Secondo queste linee principali la scena si ricostruisce facilmente. I Giudei sopraggiunti da fuori avranno lavorato segretamente qualche giorno, comprando persone influenti e persuadendo la plebe che i due erano volgari truffatori e pericolosi maghi; poi sarà stata lanciata a Paolo una sfida ad una pubblica discussione, i cui uditori erano già stati scelti e ammaestrati; durante la discussione improvvisamente gli uditori alzano grida contro il bestemmiatore di Mosè e il perturbatore della pace cittadina. La regolare lapidazione giudaica è subito decisa per Paolo, come già per Stefano (§ 256), ed eseguita immediatamente. Sotto i colpi Paolo cade svenuto ed è creduto morto; i lapidatori si affrettano a strascinarlo fuori della città, sia perché così vuole la Legge giudaica, sia perché la loro coscienza non è in regola di fronte ai magistrati civili; là fuori della città i cani randagi e gli uccelli rapaci provvederanno in una sola notte a fare scomparire il cadavere. Al calar della notte, per non farsi scorgere, i discepoli vanno a curare la salma, e invece salvano Paolo. Ma egli non vuole esporre i cristiani di Listra ad altre persecuzioni, e il giorno appresso, segretamente e trasportato forse su un giumento a causa delle ferite, si trasferisce a Derbe.
Se Paolo aveva alloggiato a Listra in casa di Timoteo (§ 341), nella notte successiva alla lapidazione egli sarà stato medicato delle sue ferite in quella casa dalle mani di Loide e di Eunice, rispettivamente nonna e madre di Timoteo, che più tardi Paolo ricorderà con particolare affetto (2 Timot., 1, 5); così pure egli ricorderà poi a Timoteo le persecuzioni subite, oltrechè ad Antiochia e Iconio, anche a Listra (ivi, 3, 11). E in realtà le persecuzioni di Listra furono, almeno sotto l'aspetto materiale, più gravi delle precedenti: la lapidazione subita allora riceve una menzione particolare nell'ampio elenco delle tribolazioni di Paolo (2 Cor., 11, 25), e alle cicatrici lasciate sulle sue membra da quella lapidazione sembra bene ch'egli alluda quando ricorda le
stigmate di Gesù ch'egli porta sul suo corpo (Gal., 6, 17). Come gli schiavi fuggiaschi ricevevano con un ferro rovente le stigmate di appartenenza ai loro padroni (§ 613), così Paolo è stato stigmatizzato quale schiavo di Gesù dalle cicatrici ricevute per la gloria di lui.
346. DERBE. Derbe (§ 26) era situata a una cinquantina di chilometri a Sud-Est di Listra. L'operosità dei due missionari in questa piccola borgata ci viene riferita in maniera più stringata del solito, giacché ci si dice soltanto che, avendo evangelizzato quella città e fatti molti discepoli, ritornarono, ecc. (Atti, 14, 21). Ma, anche da queste parole, possiamo raccogliere che la dimora in Derbe non fu brevissima, giacché per fare molti discepoli era necessario almeno qualche mese; aggiungendo questi mesi a quelli più numerosi passati a Listra, ci ritroviamo nell'anno 49 inoltrato (§ 155). Fra i discepoli fatti allora si può riconoscere quel Gaio Derbeo, che più tardi sarà compagno di viaggio di Paolo (ivi, 20, 4); forse i missionari avevano alloggiato a casa sua.
Quando, verso la fine della dimora in Derbe, Paolo e Barnaba cominciarono a pensare al ritorno, potevano seguire un itinerario molto opportuno per riportarsi al primo luogo di partenza: potevano proseguire verso Oriente attraverso l'Isauria e, superata la catena del Tauro alle Porte Cilicie (§ 7), giungere a Tarso dopo un viaggio di circa 250 chilometri; da Tarso poi era facile recarsi ad Antiochia di Siria, da cui erano partiti. Ma questo itinerario fu scartato, soprattutto per la ragione che ai due missionari stava a cuore rivedere le comunità fondate durante quei quattro o cinque anni e rafforzarle nella fede; fu perciò stabilito di ripercorrere in senso inverso l'itinerario seguito nel venire, facendo brevi soste nei vari luoghi. Nel frattempo Paolo e Barnaba avevano certamente ricevuto notizie dalle nuove comunità, e si erano persuasi che una loro visita sarebbe stata opportuna; d'altra parte il ripresentarsi in luoghi donde essi erano sempre partiti fuggendo, non doveva più esser pericoloso perché era passato del tempo e i magistrati locali erano in gran parte cambiati: del resto, bastava regolarsi con qualche accortezza non mettendosi in vista durante le varie soste, e nessuno avrebbe badato a loro. Ecco, pertanto, come ci viene narrato questo itinerario in senso inverso: Ritornarono a Listra, a Iconio e ad Antiochia, confermando le anime dei discepoli, esortando (li) a persistere nella fede e (ammonendoli) che «attraverso molte tribolazioni dobbiamo noi entrare nel regno d'Iddio». Avendo poi in pro di quelli imposto le mani (***) ad anziani in ciascuna chiesa, pregando con digiuni li affidarono al Signore nel quale avevano creduto (Atti, 14, 21-23).
347. Questa opera di stabile organizzazione fu, dunque, il vero scopo per cui i due missionari vollero rivedere le nuove comunità. Dopo la partenza dei fondatori quei nuclei cristiani erano rimasti isolati, salvo qualche rara corrispondenza epistolare che potevano aver ricevuta da Paolo e Barnaba: staccati ormai dalle sinagoghe locali, quei neofiti si saranno riuniti a pregare in case private, confortandosi coni carismi di cui erano ampiamente forniti (§ 211 segg.). Ma tale stato di cose non poteva essere che transitorio: in questa nuova visita i due fondatori provvidero a sostituirlo con una sistemazione stabile, imponendo le mani ad anziani, che essi prescelsero nelle singole comunità dopo aver udito il consiglio dei fratelli. Con questa imposizione i prescelti diventavano i dirigenti ordinari della rispettiva comunità, e ricevevano la potestà di presiedere alle adunanze e di compiervi il culto liturgico. Così organizzate, le singole comunità divenivano altrettante cellule viventi di vita propria, ma tutte compaginate nel corpo mistico del Cristo di cui facevano parte.
Compiuta la visita alle singole comunità, i due missionari giunsero di nuovo in Pamfilia, e ci si dice asciuttamente che questa volta evangelizzarono ivi anche Perge (§ 328). Di là scesero al porto di Attalia, donde fecero vela per la Siria e giunsero ad Antiochia (ivi, 25-26).
IL CONCILIO DI GERUSALEMME.
LA CONTESA DI ANTIOCHIA
348. Il bambino, quando ancora si sta formando nel seno di sua madre, ha già una vita sua propria che non è affatto la vita della madre, sebbene sia ancora una vita incompleta e dipendente da quella di sua madre; ma già in quel periodo di formazione tutto si va predisponendo nel bambino in maniera tale che egli un giorno possegga una vita non solo sua propria, bensì anche indipendente da quella della madre. Il distacco delle due vite conglutinate insieme è preparato gradualmente dalla provvida natura; e anche quando il bambino è venuto alla luce, egli è ancora unito alla madre mediante un tenue legame: solo allorché quest'ultimo legame è troncato dalla mano del maieutico, allora e non prima la nuova vita è del tutto indipendente.
Con ogni esattezza storica si può affermare che la Chiesa cristiana ­ nelle sue parvenze esteriori - è stata concepita e formata in seno alla Sinagoga giudaica, e che per un certo tempo la vita della prima è rimasta conglutinata con la vita della seconda, sebbene fosse una vita del tutto propria e nettamente indirizzata ad una totale indipendenza. L'ultimo lega,me, che unì ancora alla madre la figlia già nata, fu l'osservanza dei riti prescritti dalla Legge di Mosè: troncato questo legame, la Chiesa acquistò vita autonoma del tutto indipendente dalla Sinagoga.
349. Chi osò praticare questo troncamento, di conseguenze incalcolabili per la storia dell'umanità, fu Paolo. Egli dunque, sotto questo aspetto, fu il maieutico della Chiesa.
Circa cinque secoli prima Socrate si era presentato come maieutico delle spirito, affermando di continuare sulle menti dei suoi discepoli la professione di sua madre Fenarete, ch'era stata levatrice. Il paragone era calzante: tuttavia Socrate non troncò nulla, non dichiarò abolito nulla, e salvo le intemperanze dei Sofisti non respinse nulla. La sua arte maieutica non era audace: essa si limitava ad aiutare le menti dei suoi discepoli a partorire spiritualmente.
Al contrario l'audacia di Paolo, valutata storicamente, è immensa. Egli tronca una tradizione religiosa millenaria; dichiara abolito un codice ch'è base unica della vita per una nazione intera, e soprattutto lo dichiara abolito in nome della stessa autorità divina che lo aveva promulgato; respinge come priva ormai di valore la lettera di quel codice che formava il vanto, la fierezza, la prerogativa, la nobiltà di tutta una nazione, e che aveva ricevuto la testimonianza di migliaia di martiri.
Né egli agisce alla leggiera, prevedendo solo vagamente le conseguenze della sua audacia; anzi le ha previste in maniera nettissima; e gliene piange il cuore: Vorrei infatti essere io stesso anatema dal Cristo in pro dei miei fratelli, i miei congiunti secondo la carne: i quali sono Israeliti, dei quali (è) l’adozione e la gloria e i patti e la legislazione e il culto e le promesse, dei quali (sono) i patriarchi, e dai quali (è sorto) il Cristo in quanto alla carne, ecc. (§ 167). Bastano queste righe a dimostrare la piena coscienza che Paolo aveva del suo gesto; eppure egli troncò quell'estremo legame con ogni risolutezza, sebbene con mano tremante dalla commozione. Quali furono i motivi che lo spinsero a tanto? Li vedremo riprendendo la nostra narrazione.
350. Quando Paolo e Barnaba, reduci dall'Asia Minore, giunsero ad Antiochia, avendo radunato la chiesa, annunziarono quante cose avesse fatto Iddio per mezzo di loro e come avesse aperto ai Gentili la porta della fede (Atti, 14, 27). Frase tipica era questa, della porta della fede aperta ai Gentili, e che rispecchia bene l'impressione profonda ch'ebbero i cristiani di Antiochia all'udire i racconti di Paolo e Barnaba: era l'intero mondo pagano che si apriva al Vangelo, erano turbe innumerevoli e regioni sconfinate che domani potevano essere incluse nel regno del Messia Gesù. Davanti a questa radiosa visione quanto apparivano anguste la minuscola Palestina e quel poco di Siria ove finora era risonata la Buona Novella! Quanto radi ed esigui sembravano i gruppi di cristiani fino allora costituiti! In quell'adunanza si saranno alzati commossi ringraziamenti al cielo per l'assistenza prestata ai due missionari nel passato, ma insieme si saranno fatti grandiosi progetti per il futuro, onde si avverasse al più presto quella radiosa visione del mondo pagano conquistato al Cristo. In questo ambiente di entusiasmo Paolo e Barnaba rimasero un tempo non breve (ivi, 28), sì da consumarvi il resto dell’anno 49 e forse gli inizi del 50 (§ 155).
Siffatto entusiasmo si spiega facilmente presso quei cristiani Antiocheni, i quali provenivano in minor parte dal giudaismo ellenistico ch'era d'idee più larghe del giudaismo palestinese, e in maggior parte dal paganesimo (§ 312 segg.): né gli uni né gli altri giudicavano essere necessario imporre particolari condizioni ai pagani desiderosi d'entrare nella Chiesa, salvo la fede nel Cristo e il battesimo; se poi qualcuno dei Giudei ellenisti fattisi già cristiani amava ancora osservare talune prescrizioni rituali del giudaismo da cui egli proveniva, facesse pure con libertà, seguendo cioè un'opinione personale della sua coscienza, ma senza pretendere d'imporre agli altri confratelli quelle prescrizioni come obbligatorie. No, nessun obbligo: i pagani convertiti non avevano mai osservato quelle, prescrizioni giudaiche, e quindi non avevano alcun motivo per osservarle adesso; ma neppure i Giudeo-ellenisti. convertiti, perché la loro adesione al Cristo aveva sostituito e sublimato la loro dipendenza dalla Legge di Mosè, donando ad essi libertà rispetto a quella Legge provvisoria. Queste disposizioni di spirito spiegano l'entusiasmo di cui erano pieni quei cristiani Antiocheni vedendo che Dio aveva aperto ai Gentili la porta della fede.
351. Ma i Giudei palestinesi non la pensavano precisamente così: anch'essi aprivano la porta ai Gentili, sì, ma l'aprivano solo a metà, introducendo soltanto coloro che accettassero anche i riti giudaici. Il loro ragionamento faceva appello agli insegnamenti di Gesù. Non aveva affermato Gesù stesso di esser venuto, non già ad abrogare la Legge giudaica, bensì a compierla (Matteo, 5, 17)? Non aveva egli stesso osservato puntualmente questa Legge? Non aveva rivolto la sua opera di evangelizzazione unicamente ai Giudei, con precisa esclusione dei non Giudei (§ 311)? Del resto, era tanto chiaro che il patto stretto da Dio con Abramo non poteva essere abolito, quanto era chiaro che le promesse di Dio non possono fallire; se invece si aboliva la circoncisione e gli altri riti giudaici richiesti da quel patto, si venivano a smentire le promesse di Dio. Giammai! La nazione di Abramo sarebbe stata in eterno la nazione prediletta da Dio, contraddistinta appunto dalla circoncisione: su ciò non cadeva dubbio; soltanto che adesso, essendo già venuto il Messia, anche i Gentili potevano essere accolti in massa alla sequela del Messia, purché s'incorporassero alla nazione prediletta da Dio accettando la circoncisione. Dunque, la porta della fede aperta a tutti, sì, ma con una anticamera davanti, rappresentata dalla Legge giudaica. Chi non passava per quell'anticamera, non poteva raggiungere la porta.
Contro questo ragionamento si poteva, obiettare il caso del centurione Cornelio, il quale sebbene pagano incirconciso era stato accolto nella Chiesa da Pietro (§ 311), ma quello era stato un caso del tutto eccezionale che non poteva esser preso a norma generale, tant'è vero che Pietro stesso aveva dovuto giustificare il suo operato davanti all'adunanza generale, appellandosi all'esplicito precetto ch'egli aveva ricevuto da Dio di agire in quella maniera (Atti, 11, 1-18).
352. La maggioranza dei cristiani palestinesi pensava in questa maniera; ma i rappresentanti tipici e più fervorosi di questa idea si riconoscono facilmente in quei sacerdoti di Gerusalemme che già avevano ricevuto la fede (ivi, 6, 7), e in quei Farisei divenuti parimente cristiani che più tardi richiesero apertamente l'osservanza della Legge giudaica (ivi, 15, 5).
Questione di religione o di razza? Dell'una e dell'altra insieme, giacché sempre nella storia d'Israele religione e razza si erano compenetrate a vicenda: si adorava il vero Dio Jahvè, perché si era discendenti di Abramo. Adesso ch'era venuto il Messia Gesù, questa norma conservava ancora tutto il suo valore. Soltanto che chi non aveva nelle vene il sangue di Abramo, poteva compensarlo con un Ersatz, con un surrogato: accettasse egli la circoncisione e il resto della Legge, e solo a questa condizione sarebbe stato discepolo del Messia Gesù.
Se tutto, ciò sia razzismo o no, è questione che non ci riguarda. Ci preme invece, segnalare che precisamente contro questa tesi insorse con tutte le sue energie Paolo, precisamente quel Paolo che ai nostri giorni è stato presentato come un fanatico Giudeo, da qualche ignorantissimo reggitore di popoli.
353. L'aperto contrasto fra le due correnti apparve per la prima volta ad Antiochia. Passato qualche tempo dal ritorno di Paolo e Barnaba, in quella fervorosa comunità giunsero dalla Palestina alcuni giudeo-cristiani i quali intimarono apertamente ai loro confratelli Antiocheni provenienti dal paganesimo: Qualora non siate stati circoncisi secondo la costumanza di Mosè, non potete esser salvati. (Atti, 15, 1). Siffatta intimazione, mentre ammoniva quei cristiani che essi in sostanza non erano cristiani, chiudeva praticamente quella porta della fede ch'essi con tanto giubilo avevano contemplata aperta ai Gentili. Chi avrèbbe avuto adesso il coraggio di parlare ancora del Messia Gesù a pagani, se come condizione essenziale, si doveva imporre la circoncisione e gli altri riti giudaici? Già per la propaganda giudaica la circoncisione era stata un ostacolo sommo, e pochissimi uomini erano entrati nel grado superiore dei «proseliti» appunto perché questo esigeva la circoncisione (§§ 331, 336); e alla circoncisione si dovevano aggiungere le norme sul riposo del sabbato, sulla purità dei cibi, sull'evitare i contatti con pagani, e tutta quell'interminabile legislazione che già vedemmo accompagnare in ogni singola azione un Israelita osservante (§ 80 segg.). Esigere tutto ciò da un pagano, equivaleva a chiudergli sulla faccia la porta della fede nel Cristo. In conclusione, né quegli Antiocheni erano veri cristiani, né erano in grado di chiamare altri pagani al cristianesimo: nulla era stato fatto nel passato, nulla si poteva fare nell'avvenire.
354. Ma naturalmente l'intimazione non fu accolta con acquiescenza; dalla notizia dataci si comprende che la reazione fu vivacissima, e che di essa i principati rappresentanti furono Paolo e Barnaba: Sorti pertanto dissenso e discussione non piccola da parte di Paolo e Barnaba contro di quelli, si stabilì che Paolo e Barnaba ed alcuni altri di loro salissero su a Gerusalemme dagli apostoli e anziani (per consultarli) riguardo a questa discussione (ivi, 15, 2). La procedura fu normale; poiché nella discussione nessuna delle due parti cedeva, si concluse che la decisione fosse deferita alla chiesa-madre. La questione era di tal natura che implicava un principio generale, e poteva compromettere la futura propagazione della Chiesa: bisognava perciò risalire alle autorità somme della Chiesa e ricevere da esse una norma valevole per sempre. Le autorità somme di tutta la Chiesa erano gli apostoli e anziani di Gerusalemme, di cui anche la comunità di Antiochia riconosceva i poteri.
La designazione di Paolo come delegato fu fatta dall'adunanza dei fedeli, ma corrispose anche ad una rivelazione da lui avuta in proposito (§ 298); inoltre, egli recò con sé un giovane Antiocheno convertito dal paganesimo, ma tutto ardore e attività: si chiamava Tito (Gal., 2, l), ed era destinato a diventare uno dei più fidi collaboratori di Paolo.
355. Il viaggio dei delegati avvenne sulla fine dell'anno 49, o più probabilmente sui principii del 50 (§ 156), e fu fatto per via di terra. Essi scesero lungo la Fenicia e la Samaria, sostavano nelle comunità cristiane incontrate lungo il percorso, narrando la conversione dei Gentili, e producevano grande letizia in tutti i fratelli (Atti, 15, 3). Arrivati a Gerusalemme, furono accolti dall'adunanza generale di quella comunità, nella quale si distinguevano tre gruppi in relazione alla rispettiva autorità (ivi, 4): Il gruppo più elevato era quello degli apostoli, di cui in quel momento erano presenti in città Giacomo «fratello» del Signore, Cefa (Pietro) e Giovanni il futuro evangelista, e costoro figuravano quali colonne (Gal., 2, 9); sotto a questo c'era il gruppo degli anziani, ch'erano i consiglieri e cooperatori dei dirigenti; infine, c'erano i semplici fedeli. Davanti a questa adunanza i delegati fecero una relazione sia della loro opera evangelizzatrice, sia della questione che ne era sorta e per cui erano stati inviati; ma, oltre a questa relazione pubblica, Paolo trattò in privato della questione con i maggiorenti della comunità, anche per esporre ad essi il «suo vangelo» particolare (§ 307), e gli incontri privati fra le due parti poterono essere più d'uno.
Il risultato delle trattative con i maggiorenti fu, come già sappiamo (§ 309), la piena approvazione del vangelo particolare a Paolo e la divisione delle zone di evangelizzazione. Con ciò anche la discussione sorta ad Antiochia, riguardo all'osservanza dei riti giudaici, era implicitamente risolta: il vangelo particolare a Paolo non imponeva questi riti, anzi li escludeva; quindi, se quel «suo vangelo» era stato approvato, i riti risultavano esclusi almeno per i provenienti dal paganesimo, a cui Paolo indirizzava il «suo vangelo». Ottenuta questa approvazione dei maggiorenti, ossia soprattutto degli apostoli, Paolo aveva già il sopravvento.
356. Sennonché i partigiani delle osservanze, ossia i cristiani giudaizzanti, erano ben lungi dal disarmare. Com'era da aspettarsi, essi provenivano dalla corrente dei Farisei (Atti, 15, 5), ma da Paolo, loro antico collega; sono designati come falsi fratelli insinuatisi per abolire la libertà spirituale arrecata dal Cristo e riportarla alla schiavitù della Legge (Gal., 2, 4). Costoro dovettero dapprima lavorare nell'ombra, visto che dai maggiorenti c'era ben poco da sperare, e poi dettero battaglia aperta su un caso concreto. Gridando allo scandalo, essi denunziarono che Tito il giovane compagno di Paolo, non aveva ricevuto la circoncisione, e non si poteva tollerare che in tale stato egli prendesse parte ad assemblee cristiane, a fianco a scrupolosi osservanti delle prescrizioni giudaiche: si circoncidesse dunque, e allora tutto sarebbe stato regolare. Sennonché la questione, più che al caso singolo, si riferiva al principio generico; per il caso singolo Paolo avrebbe potuto anche cedere, perché la circoncisione era per lui un rito ormai privo di valore, e più tardi egli stesso per ragioni pratiche ammetterà 1a circoncisione di Timoteo (§ 373); ma siccome il caso di Tito era stato accampato per implicare il principio generico, Paolo non cedette, e Tito non venne circonciso (266).
Ma anche dopo questa sconfitta i giudaizzanti non si dettero per vinti, e seguitarono a brigare in segreto; in risposta, Paolo seguitò a propugnare la sua tesi, sicuro dell'appoggio degli apostoli o esplicito o implicito. Si tenne una nuova adunanza a cui intervennero oltre agli apostoli e agli. anziani (Atti, 15, 6), anche i semplici fedeli di Gerusalemme e i delegati di Antiochia (ivi, 12). Si discusse a lungo, ma naturalmente ognuna delle due parti contrastanti rimase sulla sua opinione. La decisione fu raggiunta soltanto quando si alzarono a parlare le autorità supreme.
357. Il primo fu Pietro. Il suo discorso, pervenutoci in riassunto schematico, si direbbe un documento ante tempus della curia papale di Roma: equilibrato, penetrante, e soprattutto realistico. La questione doveva essere risolta, non da apprezzamenti personali, ma dalla realtà dei fatti. Questa realtà fu mostrata da Pietro in tre punti: da principio, egli ricordò che l'evangelizzazione dei Gentili era cominciata già da molto tempo, alludendo particolarmente alla conversione del centurione Cornelio di cui egli stesso aveva dovuto giustificarsi (§ 351); quindi, fece notare che quegli antichi pagani convertiti avevano ricevuto i carismi dello Spirito santo in egual modo che i Giudei convertiti, pur non osservando la Legge di Mosè; infine, definì questa Legge un giogo intollerabile che nessun Giudeo in realtà aveva mai portato integralmente, e ad essa contrappose la grazia del Messia Gesù che sola poteva recare salvezza a pagani e a Giudei (ivi, 7-11).
Quando Pietro ebbe finito il discorso, tutta la moltitudine tacque, ossia cessarono le singole contestazioni e i rilievi personali che avevano prolungato la precedente discussione. Era il silenzio di chi non ha più nulla da obiettare: aveva parlato Pietro. Ma non tacquero i delegati di Antiochia, i quali si affrettarono a recare nuovo e recentissimo materiale di prova alla tesi di Pietro; tutta la moltitudine tacque, ed ascoltarono Barnaba e Paolo che narrarono quanti segni. e prodigi fece Iddio nei Gentili per mezzo loro (ivi, 12). Questi dati di fatto, raccolti dall'esperienza del viaggio missionario testé compiuto, confermavano con la pratica la tesi di Pietro: se Iddio aveva operato quei prodigi fra cristiani incirconcisi, dava ben segno di esser contento di loro sebbene incirconcisi.
358. Tuttavia rimaneva ancora un punto oscuro: chissà che cosa pensava su tutta la questione Giacomo, il «fratello» del Signore? Egli godeva di somma autorità fra i cristiani per quella sua parentela e per la qualità di apostolo, ed era anche stimatissimo dai Giudei osservanti per la sua vita sommamente austera (267): questo suo generale prestigio lo aveva reso come il punto d'incontro fra Giudei e cristiani di Gerusalemme, mentre poi da una frase di Paolo (Gal., 2, 12) si argomenta che un gruppo di cristiani giudaizzanti si accentrava particolarmente attorno a lui, e forse abusava del suo nome per avvalorare le proprie idee. In quell'occasione l'unica vaga speranza dei giudaizzanti era rimasto Giacomo: se egli avesse parlato, avrebbe forse rialzato le loro sorti, demolite dal discorso di Pietro. Difatti Giacomo parlò; ma col suo discorso, mentre confermò l'opinione che si aveva di lui come uomo attaccatissimo al giudaismo; deluse anche la segreta speranza dei giudaizzanti.
Egli si schierò senz'altro con l'opinione di Pietro: i pagani che si convertivano non dovevano esser molestati con le prescrizioni giudaiche. D'altra parte questi convertiti, alla loro volta, dovevano avere taluni riguardi per i cristiani provenienti dal giudaismo, astenendosi da certe pratiche a cui i pagani non attribuivano importanza: a questo proposito egli menzionò quattro proibizioni che esamineremo qui appresso (Atti, 15, 13-21).
359. I discorsi di Pietro e di Giacomo offrirono la base a un documento ufficiale, ossia al «decreto» emanato dal concilio per risolvere la questione proposta dai delegati venuti da Antiochia. Eccone il testo secondo la forma «orientale»:
Gli apostoli e gli anziani fratelli, ai fratelli (provenienti) dai Gentili che (sono) in Antiochia e Siria e Cilicia, salute.
Poiché udimmo che alcuni di noi usciti di (qua) vi perturbarono con discorsi sconvolgendo le anime vostre, (uomini) ai quali non demmo mandato: parve bene a noi, ritrovatici (in ciò) concordi, di scegliere degli uomini per inviarli a voi insieme con i nostri cari Barnaba e Paolo, (i quali sono) persone che hanno esposto la loro vita per il nome del Signor nostro Gesù Cristo. Inviammo pertanto Giuda e Sila, che vi esporranno a voce le stesse cose. Parve bene, infatti, allo Spirito santo e a noi, di non imporvi nessun ulteriore peso, salvo queste cose necessarie: (cioè) astenersi dagli idolotiti, e dal sangue, e dai soffocati, e dalla fornicazione. Dalle quali cose guardandovi, farete bene. State sani (Atti, 15, 23-29).
Da questa forma «orientale» differisce alquanto la forma «occidentale» (§ 119, nota) nelle quattro proibizioni finali, perché di solito i codici di questa seconda forma enumerano soltanto tre proibizioni (tralasciando i soffocati), ma in compenso aggiungono il precetto di carità di non fare agli altri ciò che non si vuole che sia fatto a se stessi. È praticamente certo che il testo originale è quello della forma «orientale», mentre l'«occidentale» è un ritocco praticato nel sec. II o III su quel testo con la mira di renderlo un piccolo codice morale, quasi un catechismo, ad uso dei cristiani provenienti dal paganesimo; questa forma ritoccata, infatti, astrae dalle circostanze storiche che provocarono il decreto, mentre aggiungendo il precetto di carità inserisce un argomento che in realtà non era mai venuto in discussione (268).
360. Il decreto pertanto, nella prima parte, dichiara che i cristiani provenienti dal paganesimo non hanno alcun obbligo di praticare la circoncisione e le altre prescrizioni della Legge giudaica (nessun ulteriore peso) salvo ecc.); con ciò è respinta la pretensione dei giudeo-cristiani presentati si ad Antiochia ad imporre la circoncisione. Ma i provenienti dal paganesimo non sono i soli cristiani della Diaspora, bensì hanno come confratelli anche i provenienti dal giudaismo; perciò gli ex-pagani si astengano da certe pratiche che, pur essendo indifferenti per se stesse, tuttavia per antichissima tradizione sono considerate abominevoli dai loro confratelli ex-giudei, e con ciò mostreranno una caritatevole deferenza verso costoro; alla fine si ricorda loro, ad abundantiam, di astenersi da altre pratiche illecite per se stesse ma comunissime nel paganesimo.
Delle quattro proibizioni del decreto, le prime tre riguardano le pratiche abominevoli per i Giudei, e sono il mangiare sia carni di sacrifizi offerti agli idoli (cioè idolotiti), sia sangue, sia carni di animali macellati senza previo dissanguamento (cioè soffocati); la quarta proibizione invece riguarda una pratica illecita per se stessa, la fornicazione.
Le proibizioni degli idolotiti, del sangue e dei soffocati, erano sostanzialmente contenute nei sette precetti dei figli di Noè («precetti Noachici»), che seconda la legislazione rabbinica dovevano essere osservati dai non Israeliti che dimorassero sul territorio d'Israele (Sanhedrin, 56 b). L'abominio per gli idolotiti derivava dall'opinione che cibandosi di essi si veniva quasi a partecipare al sacrificio idolatrico ch'era stato offerto per mezzo di essi; l'abominio per il cibarsi di sangue, o di bestia uccisa senza previo dissanguamento, derivava dall'antichissima opinione dei Semiti - accettata anche dalla Legge mosaica (cfr. Genesi, 9, 3-4; Levitico, 17, 10-14) - che il sangue fosse sede dell'anima, e perciò cibandosene si veniva ad assorbire l'anima della bestia con tutte le sue brutali qualità.
361. Sennonché, nel campo pratico, l'astenersi dagli idolotiti e dalle carni di animali non dissanguati non era cosa facile a quei tempi per chi viveva in mezzo a pagani, perché queste carni abominate dai Giudei erano messe in vendita promiscuamente con altre carni nei mercati, dato che i comuni compratori pagani non attribuivano importanza alla loro provenienza. Ebbene, almeno nei pasti in comune (agapi) fatti in una comunità cristiana, gli ex-pagani dovevano astenersi da tali cibi per riguardo agli ex-giudei. Era dunque un precetto soprattutto caritatevole, da osservarsi per riguardo a coloro che Paolo più tardi chiamerà i deboli (Rom., 14, 1 segg.; cfr. I Cor., 10, 23 segg.), i quali si sarebbero scandalizzati a vedere i propri confratelli cibarsi di carni abominate; quando però l'occasione di scandalo altrui fosse cessata, venendo a mancare cristiani che sentissero quell'abominio, cessava anche il precetto non esistendo più il motivo di carità su cui si basava.
Tuttavia l'osservanza di queste proibizioni si mantenne a lungo nella Chiesa, anche quando ogni occasione di scandalo era cessata: non solo nell'anno 177 i martiri di Lione dichiarano che essi come cristiani non possono mangiar sangue (in Eusebio, Hist. eccl., V, 1, 26), ma anche nei secoli seguenti e perfino nel Medioevo inoltrato s'incontrano inaspettati prolungamenti dell'antico abominio, dovuti certamente alla somma autorità del decreto apostolico nonché a inveterate usanze sporadiche difficilmente sradicabili.
362. La quarta ed ultima proibizione riguarda la fornicazione. Con questo termine (***), secondo l'opinione di alcuni studiosi, sarebbe qui indicata soltanto il matrimonio contratto fra certi gradi di parentela in cui la Legge giudaica lo interdiceva; ma quest'opinione è difficilmente dimostrabile, e in contrario sta il fatto che quel termine indicava abitualmente, soprattutto fra i pagani, il rapporto sessuale fra uomo e donna non coniugati. Se poi nel decreto la fornicazione è ricordata a parte, sebbene sia proibita per legge naturale; ciò è dovuto all'enorme diffusione ch'essa aveva raggiunta fra i pagani, tanto da sembrare legittimata dal comune consenso.
Già Cicerone si era incaricato di difenderla esplicitamente, appellandosi appunto all'uso comune: ...Quando non si è fatto ciò? Quando è stato ripreso? Quando non è stato permesso? Quando insomma è avvenuto che ciò ch'è lecito non sia lecito? (pro M. Coelio, 20). Molti altri scrittori pagani di circa quell'epoca ci scherzano sopra, o ne attestano in altro modo la diffusione (269); la quale era tanta e così radicata che molto più tardi, dopo quattro secoli di cristianesimo, poteva avere su un giovane catecumeno figlio di una fervorosa cristiana quell'influenza che è documentata nei primi libri delle Confessioni di Agostino. Si aggiunga che in molti culti pagani la fornicazione si era infiltrata come ordinaria appendice, ricevendone quasi una legittimazione religiosa (§§ 15, 31, 35; 41, 71, 72, ecc.). Ora, data questa mentalità dei pagani, era opportuno ricordare, almeno in fondo al decreto e ad abundantiam, l'illiceità intrinseca di tale pratica ai cristiani ex-pagani.
363. Il decreto del concilio, come annunziava il suo stesso testo, fu inviato ad Antiochia per mezzo di Giuda e Sila, rappresentanti della comunità di Gerusalemme, accompagnati da Barnaba e Paolo che ritornarono in sede. Di Giuda sappiamo solo che si chiamava Barsabba (Atti, 15, 22), «figlio di Sabba (del Vecchio?)», il quale patronimico è attribuito anche a quel Giuseppe che fu proposto insieme con Mattia per sostituire Giuda Iscariota nel collegio degli apostoli (Atti, 1, 23); se i due erano fratelli - come sembrerebbe dal patronimico - questo Giuda doveva essere un antico cristiano, forse discepolo diretto di Gesù, e perciò così autorevole nella comunità di Gerusalemme. L'altro inviato, Sila, ricomparirà quale compagno di viaggio di Paolo, e certamente è la stessa persona di Silvano nominato nelle lettere di lui; come, Paolo, anch'egli godeva della cittadinanza romana (ivi,16, 37), e probabilmente era un Giudeo ellenista. Ambedue, Giuda e Sila, erano insigniti del carisma di «profeta» (§ 215).
I messi e il decreto, di cui fu fatta pubblica lettura, furono accolti con somma gioia dalla comunità di Antiochia. I due «profeti» accesero sempre più con i loro discorsi carismatici l'ardore di quei cristiani; poi Giuda tornò a Gerusalemme, mentre Sila rimase presso quella comunità piena di zelo missionario, che corrispondeva alla sua inclinazione.
La grave questione si era conclusa, in sostanza, con una vittoria di Paolo, giacché il decreto del concilio aveva sancito la sua tesi fondamentale del distacco della Chiesa dalla Sinagoga; eppure Paolo nelle sue lettere, anche quando tratterà di argomenti già contemplati dal decreto, non accennerà mai ad esso, sebbene per lui fosse il documento della sua vittoria e una specie di corona d'alloro. È sentimento di umiltà? È implicito dissenso circa le tre prime proibizioni del decreto? Non sappiamo. Certo è che, se dissenso vi fu, si riferì ad argomenti di valore transitorio e che oggi sono scomparsi da lungo tempo: invece, sull'argomento principale e di valore perenne vi fu pieno consenso, e questo fu ottenuto in virtù del principii propugnati. da Paolo.
Egli è il maieutico spirituale della Chiesa cristiana (§ 349).
***
364. Tuttavia un dissenso avvenne realmente poco dopo, e non già implicito ma esplicito, e precisamente riguardo all'applicazione delle proibizioni del decreto, e proprio fra i due artefici principali di quel decreto. È la famosa contesa di Antiochia, di cui abbiamo notizia soltanto dalla lettera di Paolo ai Galati (2, 11 segg.).
Che il fatto avvenisse quasi immediatamente dopo il concilio di Gerusalemme, si conclude sia dalla consecuzione dei fatti esposti nella lettera, sia dalla circostanza che Paolo e Barnaba si ritrovavano ancora insieme in Antiochia, il che ci riporta a poco prima del secondo viaggio missionario di Paolo (§ 370). In questo tempo, dunque, Pietro si recò da Gerusalemme ad Antiochia forse: per ragioni riconnesse con l'evangelizzazione dei Gentili, la quale pur avendo il suo centro in quella città interessava egualmente il capo della chiesa-madre di Gerusalemme. Rimanendo egli per qualche tempo fra i cristiani di Antiochia, ch'erano in maggioranza pagani convertiti, si accomunò con ogni franchezza alle loro usanze: quindi entrava nelle loro case, si sedeva alle loro mense, prendeva parte a fianco a loro alle agapi della comunità ove non si badava se le carni imbandite fossero di bestia offerta in sacrifizio idolatrico, ovvero non dissanguata, ovvero impura secondo la Legge giudaica. Pietro faceva tutto ciò con libertà e larghezza, sebbene applicasse a se stesso, Giudeo, ciò che il decreto del concilio secondo la nuda lettera aveva accordato ai pagani convertiti: ma Pietro, attraverso la nuda lettera, risaliva legittimamente allo spirito del decreto, e questo spirito concedeva a lui proveniente dal giudaismo la stessa libertà concessa ai cristiani provenienti dal paganesimo; inoltre, la carità era salva, perché nessuno si scandalizzava del suo accomunarsi con ex-pagani.
365. Ma, in mezzo a questo idillio, ecco capitare da Gerusalemme i soliti giudaizzanti: erano taluni che venivano da Giacomo (***), cioè appartenevano al gruppo accentrato attorno all'autorevolissimo «fratello» del Signore, e forse anche erano stati inviati da lui per uno scopo qualsiasi, ma facilmente si coprivano del suo nome per accreditare i propri principii (§ 358). Costoro, al vedere Pietro così accomunato con ex-pagani, gridarono anche questa volta allo scandalo, inaugurando così la lunga serie di oche capitoline che sempre pretesero di salvare il Campidoglio della Chiesa molto meglio dello stratega difensore di quella rocca. Lo schiamazzo delle oche allarmate impressionò Pietro, il quale nella caritatevole speranza di riottenere la quiete si ritrasse ed appartò dal frequentare gli ex-pagani, temendo quelli della circoncisione (Gal., 2, 12). Ma l'esempio dato dal capo degli apostoli non poteva non influire su altri; ecco quindi che simularono insieme con (***) lui anche gli altri Giudei, cosicché anche Barnaba fu guadagnato alla loro simulazione (ivi, 13).
I giudaizzanti venuti da Gerusalemme non domandavano di meglio: erano stati sconfitti, sì, nel campo dottrinale dal decreto del concilio, ma adesso prendevano la loro rivincita nel campo pratico. L'additare un apostolo quale Pietro che evitava di frequentare gli ex-pagani equivaleva a dimostrare che le prescrizioni giudaiche erano in pieno vigore, nonostante il decreto del concilio. Se Pietro aveva parlato nel concilio in favore dell'abolizione della Legge e se aveva approvato il decreto, lo aveva fatto per le pressioni di quel mestatore di Paolo - gracidavano le oche capitoline –ma il vero, Pietro appariva adesso qui, nell'evitare gli ex-pagani di Antiochia. Si ritornasse quindi all'antico: gli ex-pagani da una parte, e gli ex-giudei da un'altra parte. Ambedue i gruppi certamente facevano parte della Chiesa del Messia Gesù, ma in due scompartimenti del tutto separati: troppo nobile era un discendente d'Abramo per trattenersi nello stesso scompartimento di un Greco o di un Romano, e troppo santo era un circonciso per accomunarsi con chi non aveva ricevuto quel taglio!
366. Queste argomentazioni che dalla pratica risalivano alla teoria furono nettamente indovinate da Paolo, che allontanò il pericolo sottraendo ai giudaizzanti la base delle loro argomentazioni. Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi in faccia a lui perché era colto. in fallo (***). Queste parole di Paolo mostrano ch'egli prese aperta e franca posizione contro Pietro, opponendosi a lui in faccia e non dietro le spalle come usavano fare i giudaizzanti; ma sono anche parole che non alludono in alcun modo a un contegno violento ed altezzoso da lui tenuto. Per disarmare i giudaizzanti; Paolo si rivolse a Pietro parlando con quello zelo di cui aveva la prerogativa, ma anche con quella carità ch'era prerogativa comune ai primitivi cristiani.
367. Eppure quest'episodio, nel suo insieme così umano e così cristiano, è stato interpretato nei più svariati sensi. È superfluo dire che gli antichi luterani ci gongolavano sopra, supponendolo una scenata tracotante ed ingiuriosa fatta contro Pietro (simile a un dipresso a quelle contumelie che Lutero lanciava a getto continuo contro il papa di Roma): e costoro non meritano alcuna risposta. Anticamente Clemente d'Alessandria suppose che il Cefa qui nominato non fosse l'apostolo Pietro ma un ignoto fra i 72 discepoli di Gesù (presso Eusebio, Hist., eccl., I, 12, 2); la quale opinione, sebbene ripresa più tardi e anche ai nostri giorni da qualcuno, non ha in suo favore alcuna prova mentre ha molti indizi in contrario. Vari antichi, fra cui specialmente Girolamo, supposero che il dissenso di Antiochia fosse una scena concordata in precedenza fra Pietro e Paolo onde respingere più efficacemente gl'intrighi dei giudaizzanti: sennonché le considerazioni fatte in contrario da Agostino (epp. 40, 75, 82, in Migne, Patr. Lat., 33) hanno demolito una volta per sempre anche questa ipotesi. È certo invece che Paolo ebbe la convinzione che la condotta di Pietro fosse errata e dannosa, ed è altrettanto certo che gliene fece vive rimostranze.
Ma quando vidi che (Pietro e i suoi imitatori) non camminavano diritti secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, (essendo) Giudeo, vivi gentilescamente e non giudaicamente, come costringi i Gentili a giudaizzare? (Gal., 2, 14); L'ammonizione poté esser fatta in una riunione generale della comunità, anche per riparare alla sgradita impressione prodotta sugli ex-pagani dall'abbandono in cui li lasciava Barnaba, già loro zelante maestro. Le ragioni addotte dall'ammonizione furono i capisaldi della dottrina di Paolo: un Giudeo convertito al Cristo sa di non esser giustificato dalle opere della Legge giudaica ma dalla fede nel Cristo; dunque se egli, giustificato già dalla fede nel Cristo, si mostra ancora bisognoso delle opere della Legge, si mostra ancora peccatore e dichiara insufficiente la fede nel Cristo; no, abbandonare la Legge per la fede non è peccato, ma è abbandonare ciò ch'è abolito per ciò ch'è istaurato, è scambiare una morte antica con una vita nuova, altrimenti il Cristo sarebbe morto invano (ivi, 15-21).
368. L'errore contestato da Paolo a Pietro fu un errore di condotta pratica non di dottrina, come vide già Tertulliano sentenziando col suo stile tacitiano: Conversationis fuit vitium, non praedicationis (De praescr., 23); Pietro non aveva rinnegato nessuno dei principii dottrinali stabiliti nel concilio di Gerusalemme; tuttavia in pratica non si comportava conforme ad essi, credendo in buona fede di evitare con quel suo contegno urti e contrasti. Gli antichi protestanti che adducevano l'episodio di Antiochia come prova della fallibilità dottrinale del papa di Roma cadevano in un palese errore storico; per di più confondevano l'infallibilità del maestro che insegna con l'impeccabilità del cristiano che opera, ignorando forse anche che il papa di Roma si confessa dei suoi peccati ed errori come qualunque altro cristiano cattolico.
Paolo non riferisce il risultato della sua contestazione a Pietro, ma non ci può esser dubbio che costui l'abbia accettata amorevolmente e abbia modificato in conformità ad essa la sua condotta. Quegli apostoli non vivevano che per la propagazione della Buona Novella, e qualunque utile contributo a questa propagazione era per essi sempre benvenuto, tanto più se veniva da uno zelante evangelizzatore come Paolo. Ombrosità e superbi puntigli personali non esistevano in quegli uomini, ornati di carismi e dedicati totalmente al Cristo (270).
369. Se l'episodio di Antiochia fu in sostanza un atto di carità, libera in Paulo ad arguendum, humilis in Petro ad obediendum (Agostino), è da scorgersi un atto di carità anche nel silenzio che Luca negli Atti mantiene sullo stesso episodio. Egli, Antiocheno, conosceva indubbiamente questo fatto avvenuto nella sua città, e del quale gli avrà parlato occasionalmente Paolo più d'una volta: eppure, egli lo tace del tutto. Perché, questo silenzio?
Ponderate le varie circostanze, sembra inevitabile concludere che questo silenzio del bene informato ma anche prudente Luca fu suggerito a lui, storico, sia dalla sua venerazione per il capo degli apostoli, sia dal suo attaccamento alla disciplina della Chiesa, e probabilmente anche da un esplicito invito di Paolo.
Luca scrisse gli Atti un quindicennio dopo l'episodio, allorché la situazione generale era del tutto cambiata e i cristiani giudaizzanti non erano più una grave minaccia per la Chiesa, ma andavano assottigliandosi o si staccavano del tutto da essa. In tali circostanze era opportuno propalare sempre più una debolezza umana commessa con buone intenzioni dal capo della Chiesa? ,
Narrandola ancora, non si sarebbero offerte armi ai nuovi nemici della Chiesa e della sua costituzione gerarchica?
D'altra parte uno storico imparziale non ha il dovere di riferire tutti i fatti a lui noti, se questi non entrano nel quadro del suo lavoro. Ora, il quadro degli Atti era il fatto generico della diffusione della Chiesa nel mondo (§ 91), non la minuta cronistoria di questa diffusione e tanto meno i criteri secondo cui questa diffusione si stava svolgendo; cosicché l'episodio di Antiochia non entrava nel quadro degli Atti, e Luca poté ometterlo pur rimanendo uno storico obiettivo e veritiero.
Anche le sacre Scritture ebraiche contenevano un tipico esempio di siffatte omissioni: i libri delle Cronache (Paralipomeni), narrando i fatti del re David, avevano tralasciato di narrare l'adulterio e il conseguente omicidio commessi da lui, sebbene ambedue questi delitti fossero stati già narrati nel libri di Samuele. Ebbene, come l'autore delle Cronache aveva taciuto i due indecorosi fatti per riverenza al grande re d'Israele, così Luca tacque la debolezza di Pietro per la riverenza delle somme chiavi (Inferno, 19, 101).
IL SECONDO VIAGGIO MISSIONARIO
370. L'esultanza prodotta nella comunità di Antiochia dalla libertà spirituale sancita col decreto apostolico ebbe subito la sua ripercussione nell'ardore missionario di quella comunità. Paolo propose a Barnaba di tornare a visitare i centri cristiani già impiantati nel loro precedente viaggio. Barnaba era disposto al viaggio, ma desiderava condurre nuovamente con sé il cugino Giovanni Marco, colui che nel precedente viaggio li aveva abbandonati a Perge per tornarsene a Gerusalemme (§ 329); ciò mostra che nel frattempo Marco era tornato ad Antiochia, forse al seguito di Pietro, attiratovi dal fervore operoso di quella comunità. Ma Paolo non volle saperne di Marco, giudicando che dopo la defezione precedente non era persona di cui fidarsi per le loro imprese future.
La discussione fra i due fu vivacissima: per designarla il medico Luca impiega un termine della sua professione, e dice che fra i due ci fu «parossismo» (***); cioè esasperazione, uno stato d'animo che rassomigliava a un accesso di febbre violenta (Atti, 15, 39). E per quanto discutessero, i contendenti non riuscirono a mettersi d'accordo: anche sotto i carismi dell'apostolato era rimasto in Paolo l'«uomo» con tutta la sua rude tenacia (§ 288), la quale diventava tanto più inflessibile quando si trattava di una causa, ritenuta giusta; dal canto suo Barnaba, che nel precedente viaggio era stato tanto condiscendente con Paolo da cedergli la direzione della missione (§ 329), questa volta non volle accondiscendere non tollerando di staccarsi dal suo caro cugino. Ciò, stando alle apparenze: se poi sotto queste apparenze; , ci fossero altre ragioni più segrete e forse più nobili, non sappiamo (271). La conclusione fu che si separarono l'uno dall’altro, e Barnaba avendo preso seco Marco navigò a Cipro (ivi, 39).
La separazione fra i due non produsse inimicizia: anche in seguito Paolo ricorderà Barnaba con deferenza (Gal., 2, 9; 1 Cor., 9, 6), così pure la sfiducia ch'egli aveva per Marco si dissiperà più tardi e Paolo accoglierà il giovane al suo seguito facendo molto assegnamento su lui (Coloss., 4, 10; Filem., 24; 2 Timot., 4, 11). Ad ogni modo Barnaba, staccatosi da Paolo e ritornato a Cipro certamente anche per scopi missionari (§ 323), scompare dalla storia delle origini cristiane e non sappiamo più nulla di lui, salvo che da tardive leggende.
In sostituzione di Barnaba, Paolo prese con sé Sila che aveva tutte le qualità di un buon missionario (§ 363); e subito partì da Antiochia, iniziando così il suo secondo viaggio missionario. Era la fine dell'anno 49, o più probabilmente l'inizio del 50 (§ 157).
371. Paolo aveva la mira su nuovi campi di lavoro, ma non dimenticava gli antichi: perciò, in questo nuovo viaggio, volle dapprima visitare le comunità già fondate in Asia Minore, per poi recarsi dove lo Spirito gli avesse suggerito; scelse 'quindi l'itinerario diretto già scartato al ritorno dal precedente viaggio, quello che ricollegava Derbe, attraverso la catena del Tauro, con Tarso e con Antiochia (§ 346).
Partiti da questa città Paolo e Sila attraversarono l'Amano al passaggio delle «Porte Siriache» (§ 7), e così dalla Siria entrarono in Cilicia: strada facendo, sostarono presso le comunità di queste due regioni, che già conoscevano Paolo (§ 294), rafforzando le chiese (Atti, 15, 41). Ripartiti dalla Cilicia, certamente da Tarso, affrontarono la scalata del Tauro alle «Porte Cilicie» (§ 7). Se la scalata del Tauro di Pamfilia compiuta cinque anni prima era stata dura (§ 330), questa del Tauro di Cilicia era enormemente più ardua e pericolosa. Già nel secondo giorno di cammino la pessima strada s’ingolfava fra strettissime gole di montagne, che lasciavano vedere appena uno spiraglio di cielo su in alto: man mano che i due vi andanti s'avanzavano potevano trovare torrenti da attraversare a guado, e frane che avevano ostruito il passaggio; potevano udire rimbombo di massi che rotolavano dall'alto, e urla di bestie feroci rintanate fra le rocce; potevano imbattersi in bande di ladroni istallati da secoli in quei paraggi, o in cadaveri di bestie e di uomini abbandonati lungo la strada: ma non incontravano né un centro abitato né un ricovero per la notte. Al calar prematuro dell'oscurità bisognava fermarsi sotto un albero o al riparo di qualche roccia, mangiare un po' di cibo portatosi appresso, avvoltolarsi nel proprio mantello e poi stendersi in terra a dormire, dopo essersi muniti contro i circostanti pericoli affrontati per la gloria del Cristo col segno della croce di lui. Altro non c'era da fare. Il preciso punto delle «Porte Cilicie» era - ed è ancor oggi - una vera fenditura nella roccia di qua e di là dal sentiero le rupi si innalzano per qualche centinaio di metri, e sono così vicine l'una all'altra che su una semplice tavola si potrebbe passare da una parte all'altra. Nel punto più stretto i Romani avevano impiantato fra le due rupi una vera porta, che si apriva e si chiudeva: un piccolo corpo di guardia custodiva la porta, che così serviva da ottimo posto di sorveglianza militare e poliziesca.
372. Valicato il Tauro, i due viandanti contemplarono dall'alto la sterminata pianura della Licaonia, che essi erano costretti ad attraversare a costo di differenti ma non minori fatiche. Di primavera, che doveva essere la stagione di questo viaggio, quella pianura è tutta verdeggiante ma pantanosa, echi non conosce le piste da seguirsi rischia di sprofondare nel fango; ai tempi di Paolo la pianura era molto sfruttata a pascolo, e i numerosi greggi potevano offrire ai viandanti qualche alimento, come le capanne dei pastori potevano fornire qualche ricovero per la notte.
Dopo una decina di giorni di viaggio, i due missionari giunsero a Derbe (§ 346); ma di questa prima sosta fatta presso gli antichi confratelli non ci sono tramandate notizie. Di là passarono a Listra, ove forse come la volta precedente alloggiarono in casa di Timoteo (§ 341); certo è che da questo momento Timoteo entra nella sfera d'attrazione di Paolo, e non ne uscirà più. Questo giovane era probabilmente orfano di padre: educato dalla madre Eunice e dalla nonna Loide, ambedue fervorose giudee, aveva risentito di questa educazione femminile e pia, ed era venuto su di carattere affettuoso, delicato; quasi timido, e molto devoto (2 Timot., I, 4 segg.); tuttavia non era circonciso perché suo padre, forse un impiegato greco o romano, era stato pagano. Il giovane era divenuto cristiano, insieme con la madre e la nonna, nella precedente dimora di Paolo. Durante l'assenza di costui, si era mostrato molto operoso nel mantenere viva la fiamma della nuova fede non solo a Listra ma anche nei dintorni, cosicché a lui rendevano (buona) testimonianza i fratelli (ch'erano) in Listra e Iconio (Atti, 16, 2).
Questa specie di noviziato era un buon segno agli occhi di Paolo, il quale mise gli occhi su Timoteo e gli propose di diventare suo cooperatore: la proposta, del resto, doveva corrispondere oltrechè all'inclinazione anche a una segreta speranza del giovane, il quale perciò accettò senz'altro. E così il numero di tre missionari vagheggiato da Barnaba fu di nuovo raggiunto: soltanto che, al posto di Barnaba e Marco, c'erano adesso Sila e Timoteo.
373. Ma riguardo al nuovo adepto esisteva una difficoltà. Essendo Timoteo incirconciso, sebbene figlio di donna giudea, poteva suscitare le solite recriminazioni da parte dei Giudei che i missionari avrebbero incontrati lungo il viaggio: ora, si prevedevano difficoltà così numerose specialmente da parte dei Giudei, che sarebbe stato opportuno rimuovere almeno questa. Il rito, secondo Paolo, era abolito ed ormai inutile; ma l'osservarlo ancora per carità e pro bono pacis, poteva essere ammesso. Secondo questa norma pratica si regolò Paolo, che circoncise Timoteo.
Fu, questo suo gesto, un rinnegamento della tesi da lui sostenuta al concilio apostolico (§ 356)? No, nessun rinnegamento. Là si trattava di necessità, qui di liceità: là si era discusso se il rito fosse necessario per ottenere la salvezza nel Cristo, ma nessuno aveva sentenziato che fosse illecito praticarlo a chi per ragioni tradizionali voleva praticarlo; qui la pratica del rito fu dovuta a ragioni tradizionali, ma non significò affatto neppure implicitamente che il rito fosse necessario. Ciò è chiarissimo: tuttavia non sono mancati studiosi che hanno respinto questa notizia per la ragione che, avendo Paolo rifiutato di circoncidere Tito, non poteva adesso circoncidere. Timoteo. Sennonché codesti storici, che fanno la storia a dispetto dei documenti, troveranno pure in seguitò che Paolo pratica altri riti giudaici, e precisamente su se stesso (§ 448, 540); ma egli farà ciò per seguire la sua solita norma, son diventato per i Giudici come Giudeo, al fine di guadagnare i Giudei (I Cor., 9, 20). E la norma seguita nel caso di Timoteo: carità pratica, non necessità dottrinale.
374. Timoteo, circa ventenne (cfr. I Timot., 4, 12), conosceva fin dall'infanzia le sacre Scritture ebraiche (2 Timot., 3, 15). Dopo la sua adesione a Paolo, ricevette l'imposizione delle mani sia da lui (2 Timot., I, 6) sia dal consiglio degli anziani (I Timot., 4, 14); divenuto come segretario dell'apostolo, lo seguirà quasi dappertutto comprese Gerusalemme e Roma, lo rappresenterà in vari casi, sarà da lui associato nell'invio di buon numero delle sue lettere, e ne riceverà due da lui quando se ne sarà distaccato.
Partiti da Listra, i tre missionari passarono per le altre comunità cristiane fondate nel precedente viaggio, comunicando le decisioni del decreto del concilio apostolico: ed esse si rafforzavano nella fede e si accrescevano di numero giorno per giorno (Atti, 16, 5).
Terminata così la visita, agli antichi campi di lavoro, Paolo si rivolse a campi nuovi. Quali scegliere, fra tante regioni ancora all'oscuro della Buona Novella? Paolo rivolse il suo sguardo alla provincia proconsolare dell'Asia (§ 12 segg.), fornita di densa popolazione e di colonie giudaiche; ma il suo progetto di recarsi colà con i due compagni fu impedito da un intervento arcano, che ci viene riferito con queste parole: Essi attraversarono la Frigia e la regione Galatica, essendo stati impediti dallo Spirito santo di annunziare la parola (del Vangelo) in Asia (Atti, 16, 6). I tre missionari, dunque, si erano diretti verso l'Asia proconsolare, cioè ad Occidente, ma un intervento dello Spirito li fece deviare verso la Frigia (§ 19) e la regione Galatica (§ 23 seg.), cioè a Settentrione.
375. Di che natura fosse questo impedimento messo dallo Spirito non ci vien detto: forse fu una comunicazione carismatica per mezzo di qualche «profeta», ma poté anche essere un avvenimento qualsiasi permesso dalla Provvidenza che impedì l'ingresso nell'Asia proconsolare. E non fu tutto qui; la narrazione prosegue dicendo: Giunti poi presso la Misia, tentarono di andare nella Bitinia, e non (lo) permise loro lo Spirito di Gesù; essendo poi passati lungo la Misia, discesero in Troade (ivi, 7-8). Veniamo perciò a sapere che i tre missionari si mossero dalla Galazia settentrionale, dove li abbiamo 1él sciati, dirigendosi verso Occidente, ma quando furono vicini alla Misia (§ 17) ebbero un'altra comunicazione arcana dello Spirito di Gesù di non entrare nella Bitinia, ch'era a Nord della Misia; allora costeggiando la Misia, si diressero verso la Troade (§ 18) nell'angolo nord-occidentale dell'Asia Minore lungo il mare.
Evidentemente qui abbiamo una delle relazioni sommarie frequenti negli Atti, la quale delinéa appena il tracciato generale dell'itinerario senza precisare il numero, la durata e l'occasione delle soste intermedie. I due impedimenti messi dallo Spirito, all'ingresso sia in Asia sia in Bitinia, erano probabilmente in relazione col fatto che in quelle due regioni erano già penetrati altri annunziatori del Vangelo, mentre Paolo aveva per norma di non entrare mai in campi dissodati da altri ma di dissodarne egli stesso di nuovi (Rom., 15, 20; 2 Cor., 10, 15); l'autore degli Atti, a cui preme presentare l'ingresso e l'operosità di Paolo in Europa, sorvola su questa sua dimora in Asia Minore riassumendola nelle poche parole riferite. Essa tuttavia dovette prolungarsi vari mesi, sì da occupare il resto dell'anno 50 e forse gl'inizi del 51, e vi accaddero due fatti di particolare importanza.

376. GALAZIA. Un fatto importante fu la malattia subìta da Paolo, non quella della spinosità alla carne (§ .199), bensì la malattia violenta ma breve e a ciclo chiuso di cui già trattammo (§. 197). L'altro fatto è riconnesso con quest'ultima malattia, perché da essa Paolo fu costretto a interrompere il suo viaggio, a fermarsi in un ignoto posto, e tale sosta preterintenzionale fu l'occasione in cui egli evangelizzò per la prima volta i Galati (Gal., 4, 13-15). Da ciò si conclude inevitabilmente che l'ignoto posto ove Paolo si fermò era nella regione Galatica, che qui Luca dice essere stata attraversata da Paolo; inoltre, coloro che in quella occasione furono evangelizzati da Paolo per la prima volta erano veramente Galati, come li chiama egli nella sua lettera, ossia abitavano la parte settentrionale della provincia romana, della Galazia, ove si erano insediate le tribù galatiche al tempo della loro invasione,. con la zona centrale ad Ancira (§§ 23-24).
Questi dati di fatto permettono di risolvete la questione dei destinatari della lettera indirizzata da Paolo ai Galati. Tutti gli antichi interpreti fino al sec. XIX inoltrato hanno creduto che Paolo s'indirizzi ai veri Galati, ossia agli abitanti della parte settentrionale della provincia omonima; da circa un secolo in qua molti studiosi hanno invece preferito gli abitanti della parte meridionale della provincia, e secondo tale opinione i destinatari della lettera sarebbero gli abitanti di Antiochia Pisidica, Iconio, Listra e Derbe, evangelizzati da Paolo nel suo primo viaggio.
Ma sta in contrario che questi ultimi non avrebbero mai potuto esser chiamati Galati, per la semplice ragione che erano e si chiamavano Pisidii o Licaoni, come pure parlavano licaonio (§ 343); né la loro incorporazione amministrativa alla provincia della Galazia sopprimeva in alcun modo i loro appellativi particolari, come mostrano le iscrizioni (§ 24). Inoltre, se Luca qui dice che i tre missionari attraversarono la regione Galatica, intende senza dubbio il territorio delle tribù galatiche nella parte settentrionale della provincia e non già la provincia in genere, perché i missionari provenivano dalla Pisidia e Licaonia, che facevano generalmente parte della provincia romana della Galazia, e quindi già stavano nella provincia: perciò essi, essendo stati impediti dallo Spirito santo di evangelizzare l'Asia proconsolare, attraversarono la Frigia e la regione Galatica propriamente detta, pur rimanendo nell'ambito della provincia.
Altre sottili ragioni addotte per sostenere l'opinione della Galazia meridionale sono dotti appigli, e non infirmano punto queste sode e chiare ragioni su cui si fonda l'antica opinione.
377. La concentrata narrazione degli Atti va dunque diluita con le notizie offerteci dalla lettera ai Galati. Abbiamo quindi che i tre missionari, a causa della malattia di Paolo, si fermarono in un posto imprecisato della regione Galatica; sennonché il loro arrivo fu un avvenimento molto importante per gli abitanti del posto, perché costoro insieme con molte buone doti avevano il difetto d'una insaziabile curiosità. Giulio Cesare, che aveva conosciuto personalmente il carattere dei loro antenati delle Gallie, mette più volte in rilievo questa loro curiosità insieme con una grande leggerezza ed impulsività d'animo: secondo lo scrittore romano i Galli avevano l'abitudine di fermare il viaggiatore o il venditore ambulante, affollandosi tutti attorno a lui per udire ciò che egli sapeva o aveva inteso dire lungo la strada, e sulla base di queste dicerie prendevano lì per lì gravi decisioni (272). Quanto poi ai veri Galati, l'oratore Temistio nel sec. IV d. Cr. li dipinge con gli stessi colori, perché afferma che erano intelligenti e docili, ma quando compariva in mezzo a loro il mantello d'un filosofo rimanevano appesi ad esso come il ferro alla calamita (273).
Dato siffatto carattere, si comprende che i tre missionari diventarono subito il grande argomento del giorno per tutta la contrada. Paolo, nella sua ripugnante malattia, fu curato con ogni affetto da quei cordiali paesani, i quali come egli stesso ci attesta si mostravano pronti a cavarsi gli occhi per lui (§ 197 seg.). Ma nello stesso tempo essi volevano sapere chi fossero quei tre sconosciuti viaggiatori, e dove andassero, e perché fossero capitati lì da loro, e che notizie recassero dai paesi attraversati, e quali idee politiche e religiose avessero. Naturalmente l'insaziabile curiosità fu messa subito a profitto prima da Sila e Timoteo, finché Paolo giaceva in grave stato, e poi anche da Paolo durante e dopo la convalescenza; e casi quei semplici paesani furono evangelizzati; in maniera occasionale rispetto ai programmi di Paolo, ma non meno efficace di altre evangelizzazioni previste e preparate.
378. Il successo fu grandissimo: Paolo fu accolto come un angelo di Dio, anzi come lo stesso Cristo Gesù (Gal., 4, 14). Si può ritenere con sicurezza che Giudei esistessero nella regione Galatica; ma dovevano essere poco numerosi e non acrimoniosi, e perciò questa prima predicazione di Paolo si svolse liscia e piana, senza le solite ostilità giudaiche, come se egli parlasse unicamente a pagani ben disposti. Tuttavia non tardarono a far capolino, venuti da fuori, i cristiani giudaizzanti, e la seconda volta che Paolo tornerà fra i suoi cari Galati (§ 450 seg.), troverà che quei seminatori di zizzania già avevano cominciato ad agire: dal canto loro i Galati, dando ancora una volta prova del loro carattere leggiero e volubile, mostreranno di non essere insensibili alle lusinghe dei seduttori, per cui Paolo farà accorate esortazioni durante la seconda permanenza fra loro (Gal., 1, 9; 4, 16; 5, 3). Ciò non ostante il pericolo crebbe, e quando da lontano Paolo lo riseppe scrisse ai pericolanti la sua lettera vibrante di sdegno e d'amore (§ 504 segg.).
Terminata la fruttuosa permanenza fra i Galati, e riacquistata pienamente la sanità, Paolo con i compagni si rimisero in viaggio e giunsero nella Troade (§, 18); avvicinandosi così all'Europa. Là, non lontano dall'omerica Troia, Paolo si tenne in attesa: i due primi avvertimenti arcani gli avevano impedito l'accesso nell'Asia proconsolare e nella Bitinia, guidandolo negativamente; ma egli forse prevedeva anche un avvertimento positivo, che lo indirizzasse nel nuovo campo di lavoro.
379. L'attesa non fu lunga, e fu anche, allietata dall'incontro di una cara persona che sarà un altro compagno di viaggio, Luca. Poiché la narrazione degli Atti (16, 10 segg.) impiega la prima persona plurale (§ 92) per comunicare la partenza da Troade, se ne conclude che il narratore si congiunse col gruppo dei tre missionari in questa città o poco prima.
Come mai Luca si trovava in quei luoghi? probabilmente egli aveva interessi personali a Filippi in Macedonia, dove egli si staccherà da Paolo (ivi, 40) e dove più tardi di nuovo si congiungerà con lui (ivi, 20, 6), e per navigare in Macedonia dall'Asia Minore nord-occidentale il porto più comodo era Troade: si può pure congetturare con ogni verosimiglianza che egli facesse periodiche visite sia a Filippi sia a Troade anche per la sua professione di medico, giacché a quei tempi i discepoli di Esculapio meglio accreditati viaggiavano molto; proseguendo nelle congetture, è lecito supporre che Luca avesse risaputo della recente malattia di Paolo, e messosi premurosamente alla ricerca di lui per offrirgli la, sua assistenza, lo raggiungesse circa nella zona di Troade. Comunque si siano svolti i fatti, Luca trovò Paolo in buona salute, e naturalmente volle informarsi dei suoi futuri progetti: udendo che non aveva una meta fissata bensì era in attesa che Iddio gliela manifestasse, il premuroso Luca non avrà mancato di attirare l'attenzione di lui particolarmente sulla Macedonia.
380. Forse un giorno, passeggiando ambedue nel porto di Troade, Luca avrà indicato a Paolo la direzione della Macedonia: questa regione, ecco, stava là oltre Tenedo, l'isola sacra ad Apollo situata di fronte al porto; bastava un paio di giorni di navigazione per arrivarci. Ed era una regione di grandi speranze; Luca che ne era assai pratico poteva assicurarlo, e di tutto cuore avrebbe messo a servizio dei missionari le numerose conoscenze che aveva là. Anzi, vedeva Paolo là nel porto quegli uomini dalle ampie clamidi e dai cappelli a larghe tese? Erano mercanti Macedoni; e Luca che ne conosceva l'indole da lunga data, era sicuro che molti di essi potevano esser guadagnati facilmente alla Buona Novella.
A queste indicazioni, il cuore di Paolo avrà sussultato come quello d'un mercante a cui si prospetti l'occasione d'uno straordinario lucro: anch'egli sentì allora più che mai di essere un mercante, non già di materie ma di spiriti. Tuttavia era in attesa del cenno divino, e non poteva decidere da sé stesso; solo che, ritornato quella sera all'alloggio col cuore tumultuante, prima di stendersi sulla stuoia a dormire avrà pregato lungamente il Signore degli spiriti, affinché illuminasse il suo nei riguardi della proposta fattagli dal buon medico.
Poi Paolo s'addormentò, ma la sua preghiera fu esaudita quella notte stessa; ed ecco in che maniera, secondo il racconto di Luca: E una visione fu vista da Paolo di notte. Un certo uomo Macedone stava ritto e lo pregava e diceva: «Passato in Macedonia, aiutaci!» (Atti, 16, 9). L'uomo sarà apparso con l'ampia clamide e il cappello a larghe tese, nella foggia dei Macedoni visti nel porto il giorno precedente; il suo invito insistente di passare in Macedonia avrà tolto ogni dubbio sul significato della visione. Ad ogni modo Paolo al mattino comunicò a Luca e agli altri compagni la visione avuta, e trovò tutti consenzienti; Luca infatti, includendosi per la prima volta nel gruppo, prosegue il narrare: Come vide la visione, subito cercammo di uscire in Macedonia, concludendo che Iddio ci aveva chiamato ad evangelizzare quelli (ivi, 10). La partenza avvenne subito appresso.

381. FILIPPI. Quei quattro uomini che salparono quel, giorno da Troade rappresentavano un fatto storico d'incomparabile importanza, cioè l'irruzione del cristianesimo in Europa. Veramente essi non erano i primi cristiani che toccassero l'Europa, perché a questo tempo (anno 51) la Buona Novella era, certamente già penetrata in Roma e forse in qualche altro posto; ma degli altri evangelizzatori non conosciamo né il nome né altri particolari, cosicché la loro opera può essere simbolicamente rappresentata dai nostri quattro che salparono da Troade. E pensare che, un secolo prima, Giulio Cesare aveva vagheggiato il progetto di costituire Troade centro dell'Impero romano (§ 18), sostituendola a Roma! Paolo invece, che fin da questo tempo mirava a Roma, vagheggia il progetto precisamente inverso, perché si muove da Troade con l'intenzione di costituire Roma il centro del regno di Cristo. Il progetto di Giulio Cesare, non era troppo grande per i mezzi di cui egli disponeva, eppure fallì; il progetto di Paolo era tangibilmente paradossale, eppure ha trionfato. È la solita caratteristica che accompagna la diffusione del cristianesimo, quella di trionfare nelle circostanze più paradossali.
La navigazione fu felice; i 230 chilometri che separano Troade da Neapolis (Cavalla) furono percorsi in due giorni, compresa una breve sosta nell'isola di Samotracia che sta circa a metà viaggio. Sbarcati a Neapolis (§ 37), i missionari raggiunsero a piedi in due o tre ore Filippi (§ 37), ch'era la città più importante del distretto (274).
382. A Filippi i Giudei erano così scarsi di numero che non avevano neppure un edificio per la sinagoga, di modo che si adunavano al sabbato in un «oratorio» (proseuchè) all'aria aperta presso un corso d'acqua non lungi dalla città (275): l'acqua era necessaria per le abluzioni prescritte dalla Legge mosaica, e si è pensato che il corso d'acqua fosse il Gangite (§ 37), che passa a meno di due chilometri a Occidente della città, se pur non era una delle tante fonti che avevano dato alla città il suo antico nome di Krenides («Fontane»).
Fedele alla sua norma di preferenza iniziale per i Giudei, Paolo si presentò coni compagni a questo luogo d'adunanza nel primo sabbato che venne. Ciò che vi trovò non era atto ad incoraggiare un missionario: non c'erano che delle donne, alcune delle quali pagane di nascita e affiliate al giudaismo nella classe dei «devoti». Ma Paolo non si perse d'animo, e parlò egualmente a quell'uditorio; e una certa donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città di Tiatira, «devota» d'Iddio, ascoltava; e il Signore le aprì il cuore per applicarsi alle cose dette da Paolo (Atti, 16, 14).
Questa donna doveva chiamarsi Lidia più di soprannome (la Lidiana) che di vero nome, perché era della città di Tiatira, la quale - come già vedemmo (§ 17) -, era attribuita spesso alla regione della Lidia invece che a quella della Misia; quella città era una colonia di Macedoni e gran centro del commercio della porpora, il che spiega la presenza della donna in Macedonia e la sua attuale occupazione. La quale certamente fruttava bene e manteneva la donna in condizioni di particolare agiatezza, come risulta dalla sua condotta successiva.
Ella infatti, quando fu sufficientemente catechizzata, si battezzò insieme con la famiglia, di cui certamente era a capo: forse era vedova, ad ogni modo aveva senno ed energia bastevoli a sostenere il peso sia della famiglia sia dell'azienda commerciale che gravavano su lei. Quando la sua famiglia fu cristiana, si presentò al gruppo del nostro informatore e disse: «Giacché mi avete giudicata esser credente al Signore, entrate in casa mia e dimorate(ci)». E ci forzò (ad alloggiare ivi) (ivi, 15).
383. Se la donna forzò i missionari, è chiaro che essi da principio declinarono l'invito; conforme ai principii di Paolo di non aggravare economicamente nessuno, essi preferivano di restare nella dimessa locanda da mercanti, ove si erano istallati, piuttosto che alloggiare in quella ben fornita casa. Ma la padrona ne fece quasi una questione morale: come? essi l'avevano giudicata degna di entrare nella casa spirituale del Signore, e non la giudicavano degna di ospitarli nella sua casa materiale? Bisognò cedere, umiliandosi ad alloggiare signorilmente. Più tardi, scrivendo ai cristiani di questa città, Paolo ricorderà che soltanto da essi in tutta la Macedonia aveva acconsentito a ricevere alcuni soccorsi in denaro (Filipp., 4, 10-20); è facile perciò scorgere come principale erogatrice di questi soccorsi la facoltosa padrona del porporificio.
L'incontro di Paolo con la donna Lidia era un'occasione troppo allettante perché il Renan se la lasciasse sfuggire senza intrecciarvi un idillio secondo il suo gusto: Paolo, cioè, avrebbe sposato la Lidia. La ragione addotta è l'espressione o genuino collega, traducibile anche o genuino Syzygo (Filipp., 4, 3), di cui già trattammo mostrando che l'espressione si riferisce a un uomo e non a una donna (§ 244); ma la ragione vera è soltanto il desiderio del Renan d'inventare un romanzetto. Ragazzate pietose.
384. Dopo questo episodio iniziale non abbiamo altre notizie fino all'episodio finale, con cui si concluse la dimora a Filippi; ma possiamo essere sicuri che la dimora, protratta si alcuni mesi, fu operosa e fruttuosa. Il metodo di lavoro fu certamente quello già seguito nelle varie fondazioni del primo viaggio missionario: dalle prime conoscenze fatte fra i Giudei si sviluppavano man mano altre relazioni, che qui a Filippi furono quasi tutte con pagani; di casa in casa, di quartiere in quartiere, si passò poi anche ai dintorni della città e forse anche a qualche borgata più distante, di modo che a un certo punto si ebbe un bel gruppo di seguaci della Buona Novella. Accenni ad ostilità da parte di Giudei nei primi tempi non ne abbiamo, e non fa meraviglia dato il loro esiguo numero. Questa prima fondazione europea, insomma, fu abbastanza agevole, e il ripensare ad essa sarà per Paolo sempre una consolazione e una fierezza; dodici anni più tardi, indirizzandosi a questi suoi primi figli, egli userà termini di particolare tenerezza: Mi è testimonio Iddio! che ho (gran) desiderio di tutti voi nelle viscere di Cristo Gesù... (Filipp., 1, 8); Fratelli miei, amati e desiderati, allegrezza e corona mia... (ivi, 4, 1).
Come altrove, anche a Filippi ben presto Paolo trovò zelanti cooperatori tra i primi neofiti, specialmente tra le donne. Fra queste ci sono ricordate Evodia e Syntyche, le quali collaborarono nel vangelo insieme con Paolo (ivi, 4, 2-3); fra gli uomini, oltre al problematico Syzygo (§ 244), sono ricordati un Clemente (ivi, 3) - che alcuni autori antichi identificarono con Clemente Romano, ma probabilmente a torto - e specialmente Epafrodito: costui, chiamato da Paolo fratello e cooperatore e commilitone mio insieme con molte altre lodi (ivi, 2, 25-30; 4, 18), si recò da Filippi a Roma mentre Paolo vi era prigioniero, recando gli i soccorsi materiali di quella comunità; a Roma egli cadde gravemente malato, ma guarito ritornò portando ai Filippesi la lettera del prigioniero (§ 629 segg.).
385. In conclusione, la fondazione e il consolidamento della nuova comunità erano andati troppo bene perché Paolo ne fosse pienamente soddisfatto. Certo: era mai possibile che, in qualsiasi posto, si costituisse un gruppo di seguaci del Messia morto in croce senza che anch'essi fossero in qualche modo messi in croce? Perché mai anche a Filippi non erano avvenute le subdole trame di Antiochia Pisidica (§ 336), la sollevazione popolare di Iconio (§ 339), la lapidazione di Listra (§ 345), che avevano dato sapore cristiano al primo viaggio missionario? A Paolo doveva sembrare, lì a Filippi, di mangiare un cibo insulso perché privo di quel tipico sapore, e ne era impensierito: forse pregò Dio di condire le sue fatiche con un po' del paradosso emanante dal Discorso della montagna (§ 337), altrimenti non egli era ben sicuro di lavorare per il Cristo e con il Cristo. La sua preghiera infatti fu esaudita, ed egli ebbe questa sicurezza al termine della sua permanenza a Filippi, quasi sigillo di garanzia. Venne cioè la persecuzione.
386. La scena è presentata così bene dalle sobrie parole di Luca, che sarebbe male sostituirle. Avvenne pertanto che, mentre noi andavamo (abitualmente) all'«oratorio», ci venisse incontro una certa servetta che aveva uno spirito Pitone, la quale procurava molto lucro ai suoi padroni vaticinando. Costei, messasi a seguire Paolo e noi, gridava dicendo: «Questi uomini sono servi del Dio altissimo, i quali vi annunziano una via di salvezza!». E ciò faceva per molti giorni. Infastidito però Paolo e rivoltosi allo spirito, disse: «Ti comando in nome di Gesù Cristo di uscire da essa!». E uscì in quella stessa ora (Atti, 16, 16-18).
La servetta, o schiava, era una delle tante donne indovine della religiosità pagana, che potevano avere in sé del medium e dell'ossesso; costei particolarmente possedeva uno spirito Pitone (***) che era creduto la spirito speciale del vaticinio e della divinazione.
Secondo la mitologia (Ovidio, Metam., I, 443 segg.) Pitone era il serpente che anticamente pronunziava gli oracoli a Delfo, ma Apollo l'uccise e pronunziò gli oracoli in sua vece: di qui l'appellativo di Pithio dato al dio, e il nome di Pithia dato alla sacerdotessa di Apollo a Delfo. Ma gli scrittori greci chiamavano «pitone» anche chi era ventriloquo: tale era forse anche la schiava in questione, come pensò già Agostino (De civit. Dei, 11, 23); comunque sia, la donna pronunziava oracoli, divinava il futuro, e compieva quegli altri atti eccezionali e vistosi che i pagani, ordinariamente si aspettavano da chi possedesse l'arcano potere di Apollo Pithio. Naturalmente Paolo non credeva ad Apollo, e giudicò invece che la donna fosse posseduta dal demonio, alla pari di tanti ossessi ch'erano stati liberati dal Cristo Gesù, e dei quali egli stesso aveva parlato tante volte ai suoi catecumeni narrando loro la vita di Gesù. È vero che questo spirito Pitone sembrava benigno e non maligno, giacché proclamava che i missionari erano servi del Dio altissimo e che annunziavano la via di salvezza; ma Paolo era ben lontano dal prestar fede a queste proclamazioni chiassose, e le giudicava uno stratagemma diabolico; si rammentava, infatti, che pure davanti al Cristo Gesù gli spiriti immondi si erano mostrati ossequiosi, e avevano proclamato: Tu sei il Figlio d'Iddio (Marco, 3, 11), e ciò nondimeno Gesù li aveva scacciati. Paolo, puntuale imitatore di Cristo (I Cor., 11, 1), lo imitò anche in questa occasione, e servendosi dei suoi poteri carismatici scacciò lo spirito Pitone.
387. Ma vennero subito le conseguenze pratiche. Come si è vista, l'ossessa aveva dei padroni, più d'uno, forse un gruppetto di sacerdoti pagani che sfruttavano abilmente un caso così opportuno ricavandone molto lucro. Sennonché, con la liberazione dell’ossessa, questa fontana di denaro, si seccò di colpo, e l'azienda era rovinata; di qui i guai, come ci racconta nuovamente Luca: Vedendo però i padroni di lei ch'era cessata la speranza del loro lucro, avendo afferrato Paolo e Sila li trascinarono nell’agorà davanti agli arconti. È avendoli condotti agli strateghi, dissero: «Questi uomini perturbano la nostra città, essendo Giudei, e annunziano costumanze che non è lecito a noi accettare né praticare, essendo Romani» (Atti, 16, 19-21). Nell'agorà, o foro, siedeva il tribunale, ove funzionavano gli arconti o strateghi (§ 37), che erano in realtà i duumviri della colonia romana: Davanti a questi magistrati è presentata l'accusa, la quale non menziona affatto la vera ragione del lucro cessato, bensì abilmente fonde insieme motivi di ordine pubblico (perturbano), di antisemitismo (essendo Giudei), e di attaccamento alle costumanze romane. Ce n'era d'avanzo per fare impressione sui giudici.
388. E infatti, nella discussione tenuta in pubblico, la folla insorge furiosa contro gli imputati. Gli strateghi, risentendo dell'eccitazione popolare e trattandosi di due forestieri vagabondi, agiscono sommariamente: a che scopo perder tempo con interrogatori, testimonianze, discolpe e simili formalità? Due cialtroni mestatori di quella fatta, che vengono dal di fuori a perturbare le tranquille colonie romane, si mettono a posto con pochi provvedimenti rapidi e precisi.
In primo luogo, seduta stante; le verghe. Risuona l'ordine tradizionale indirizzato ai littori: Submovete, fate largo tra la folla ... despoliate, denudate i condannati ... verberate, battete con le verghe estratte dal fascio littorio! La folla acclama soddisfatta. I condannati accennano a parlare, gridano qualche frase: le urla della folla ricoprono le loro voci, e nessuno bada a loro trattandosi certamente delle solite implorazioni e lamentele di gente condannata alle verghe. La verberatio è inflitta con grande severità. Ma non basta: per ogni evenienza, si dà l'ordine che i due condannati siano trattenuti in carcere, e custoditi con cura particolare. Il carceriere, per eseguire scrupolosamente l'ordine, rinchiude quei due uomini malconci e sanguinanti nella segreta più interna, ed assicura i loro piedi ai ceppi.
389. Finalmente Paolo poteva sentirsi soddisfatto! Quella sera, nell'oscurità del carcere, steso a terra col corpo tutto piaghe e i piedi attenagliati nei ceppi, egli acquistò la certezza che anche la comunità di Filippi era benedetta dal Cristo e che anche qui egli aveva lavorato per il Cristo: la persecuzione glielo dimostrava! Sono pieno di consolazione, sovrabbondo di gaudio in ogni tribolazione nostra (2 Cor., 7, 4).
Paolo comunicò questi suoi sentimenti a Sila, che gli stava vicino, e udì senza meraviglia che anch'egli pensava nella stessa maniera. Gioirono insieme di perfetta letizia. Un solo rammarico provavano: pensavano ai loro fratelli che a quell'ora erano radunati, forse in casa della Lidia, a pregare per essi prigionieri e a celebrare la cena del Signore; i due segregati avrebbero desiderato di stare insieme con loro, mentre qui nel carcere udivano nell'oscurità le rauche voci di altri prigionieri che bestemmiavano ed imprecavano. In compenso vollero accomunarsi, meglio che potevano, con i lontani fratelli adunati, e si misero anch'essi a recitar quelle preghiere e a cantar quegli inni che erano abituali nelle adunanze cristiane: forse anche cantarono, in dolce nenia orientale, qualche paradosso. del Discorso della montagna «Beati i dolenti...». «Beati i perseguitati...» (§ 337). Ci dice infatti il nostro informatore che verso la mezzanotte, Paolo e Sila pregando inneggiavano a Dio: i prigionieri poi li ascoltavano (Atti, 16, 25).
Per i ladri ed assassini colà racchiusi, il fatto era certamente inesplicabile: pregare, quando bisognava bestemmiare? cantar inni, quando bisognava infrangere ceppi e sfondare porte? Essi forse supposero che i due strani compagni di carcere fossero in arcana relazione con qualche potente spirito, e che lo stessero invitando con i loro inni di venire a liberarli.
390. Anzi, poco dopo, la loro supposizione si mutò per essi in assoluta certezza; e anche qui il racconto di Luca non può essere sostituito. Improvvisamente avvenne un terremoto grande, tanto da esserne scosse le fondamenta del carcere: si aprirono. poi subito tutte le porte, e i legami di tutti furono sciolti. Risvegliatosi il carceriere e viste aperte le porte della prigione, estratta la spada stava per uccidersi, credendo che i prigionieri fossero fuggiti via. Ma Paolo gridò ad alta voce dicendo: «Non ti fare alcun male, giacché stiamo tutti qui!» Chiesti allora dei lumi, (il carceriere) balzò dentro e tremante si gettò ai (piedi di) Paolo e Sila; condottili poi fuori, disse: «Signori, che cosa devo fare affinché (io) sia salvato?». E quelli dissero: «Credi nel Signore Gesù, e sarai....salvato tu e la casa tua». E parlarono la parola del Signore a lui insieme con tutti quelli della casa di lui. E (il carceriere) avendoli condotti (con sé) in quella stessa ora della notte, (li) lavò dal (sangue delle loro) piaghe: e fu battezzato egli e tutti i suoi, subito. Avendoli poi fatti salire in casa sua, preparò (loro) là tavola, e si rallegrò con tutta la famiglia avendo creduto in Dio (Atti, 16, 26-34). È chiaro che qui Luca intende parlare, non soltanto di un terremoto, ma di un miracolo. È anche regolare che i razionalisti ammettano, di solito, il terremoto, ma respingano il miracolo: nella penisola Balcanica i terremoti non sono rari, e uno più o uno meno conta poco.
Ma che un terremoto spalanchi porte di carcere sbarrate, e soprattutto che sciolga piedi attenagliati da ceppi, non è mai avvenuto e non può avvenire per leggi fisiche: ci vuole un'eccezione a queste leggi, ossia un miracolo. - Miracolo no, mai! Si dica piuttosto che è un'aggiunta leggendaria.
Ma il narratore Luca è testimonio quasi oculare, ed è obiettivo. - Non fa niente! In questo e somiglianti casi si neghi che parli Luca, o almeno che sia testimonio diretto ed obiettivo.
Ecco, in sostanza, come si ragiona da coloro che si presentano come difensori dei diritti della ragione.
391. Per Paolo e Sila il miracolo, o qualcosa di equivalente, era in parte preveduto: tale era forse anche per gli altri prigionieri, che avevano riflettuto sul pregare ed inneggiare dei due ultimi arrivati.
Il carceriere era in condizioni di spirito ben differenti: risvegliato dal terremoto, si preoccupò prima di tutto della propria responsabilità, ch'era gravissima in caso di fuga dei carcerati; ma rassicurato poi da Paolo, rientrò in sé e scorse anch'egli un elemento misterioso in ciò ch'era avvenuto. Probabilmente egli già sapeva che Paolo e Sila predicavano una nuova religione; vedendo, poi, sia il loro contegno in prigione sia gli effetti del terremoto, ne concluse che la loro religione era vera. forse aveva udito più volte lungo la strada la donna ossessa proclamare ch'essi annunziavano la via di salvezza; ricordandosi di ciò, egli domandò loro che cosa doveva fare per esser salvato. La semplicità e il fervore del carceriere furono sufficiente garanzia per Paolo, il quale dopo una sommaria istruzione battezzò lui e tutta la sua famiglia: in seguito lo Spirito, col suo intervento diretto, avrebbe fatto il resto.
L'opportuna cenetta, consumata fraternamente insieme dal battezzatore e dai battezzati, finì per mettere ogni cosa a posto.
392. Ma c'erano in città altre persone che non si sentivano a posto, ed erano gli «strateghi» del giorno precedente. La loro procedura nel giudicare quei due forestieri era stata troppo sbrigativa, e poteva avere strascichi assai spiacevoli: forse, a giudizio finito, i magistrati ricevettero informazioni sui due imputati da qualche persona che li conosceva e che non si era lasciata trascinare dalla furia popolare; forse le persone informatrici furono inviate proprio dalla Lidia, o anche accompagnate da lei stessa, che aveva modo e motivo di farsi ascoltare dai magistrati. Costoro, in conclusione, dovettero convincersi che i due condannati non erano né colpevoli né persone volgari, anzi godevano di una certa autorità civile non ben precisata; cosicché avrebbero potuto ricorrere alle autorità romane della provincia, dimostrando di essere stati condannati con procedura contraria a tutto il jus romano. La recensione «occidentale» (§ 119, nota) aggiunge come particolare motivo il terremoto, che avrebbe spaventato i magistrati: e questa aggiunta ha in suo favore ogni verosimiglianza, giacché se i magistrati avevano risaputo che i due predicavano una nuova religione, era troppo naturale per menti pagane ricollegare il terremoto con l'ingiusta condanna dei due predicatori.
Il risultato fu che, fattosi giorno, gli strateghi inviarono i littori (al carceriere) dicendo: «Rilascia quegli uomini». Il carceriere annunziò queste parole a Paolo: «Gli strateghi hanno inviato (l'ordine) che siate rilasciati; perciò adesso, usciti, andatevene in pace». Ma Paolo disse a quei (littori): «Dopo aver battuto in pubblico e non sottoposti a giudizio noi, che siamo uomini Romani, (coloro ci) gettarono in carcere, e adesso nascostamente ci gettano fuori. No, davvero! Bensì, venuti essi stessi, ci conducano fuori!» I littori annunziarono agli strateghi queste parole. Si spaventarono (quelli) sentendo ch'erano Romani, e venuti si raccomandavano a loro, e condottili fuori (li) pregarono di allontanarsi dalla città. Usciti quindi dalla prigione, entrarono dalla Lidia; e visti i fratelli (li) esortarono, ed uscirono (Atti, 16, 35-40).
393. Lo spavento dei magistrati, quando appresero che Paolo e Sila erano cittadini romani, era pienamente giustificato. Già udimmo da Cicerone una precisa sentenza in proposito: Che un Cittadino romano sia legato, è un misfatto; che sia percosso, è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio (276), e la sentenza del giurista romano si fondava sulla legislazione esplicita. La lex Valeria del 509 av. C. aveva proibito di percuotere un cittadino romano senza una previa ed esplicita decisione popolare; la lex Porcia del 248 aveva proibito in qualunque caso di applicare la verberatio a un cittadino romano. Quei magistrati, invece, avevano violato direttamente queste due leggi, e per di più avevano condannato i due romani senza regolare processo e senza ascoltare le loro giustificazioni, cose anche queste proibitissime dal jus romano; di qui, il loro spavento.
Le conseguenze potevano essere molto gravi ed estendersi a tutta la colonia romana locale, come era avvenuto in casi analoghi. Né sarebbe valsa la scusa che Paolo e Sila erano Giudei di nascita: non contava nulla, infatti, la differenza di stirpe per chi aveva la cittadinanza romana, e pochi anni più tardi Flavio Giuseppe attribuirà a particolare colpa di Gessio Floro, ultimo procuratore romano della Giudea, l'aver violato questa legge nei riguardi di Giudei: Ciò che nessuno (aveva osato) in precedenza, osò allora Floro, facendo flagellare davanti al tribunale ed inchiodare in croce uomini dell'ordine equestre, dei quali se la stirpe era giudaica, la dignità tuttavia era romana (Guerra giud., II, 308).
394. Perché mai i due imputati non manifestarono già davanti al tribunale la loro cittadinanza romana? Molto probabilmente perché lì avvenne tutto in maniera tumultuaria, e fra le urla del popolo e la concitazione dei magistrati essi non riuscirono a farsi ascoltare da costoro. Ma quando i due prigionieri videro che i magistrati, ancora ignari della loro cittadinanza romana, volevano metterli in libertà soltanto per far dimenticare l'irregolarità di procedura generica, allora manifestarono quella loro qualità, ch'era il punto più grave. L'effetto fu immediato: i magistrati, cedendo in pieno, vennero in persona, chiesero scusa, si raccomandarono; ma, sempre per lo spavento che li agitava, insistettero per mettere tutto in tacere, e pregarono i due offesi Romani di allontanarsi dalla città.
Su questo punto Paolo non aveva difficoltà, mentre invece se fosse rimasto contro il desiderio dei magistrati si sarebbe ritrovato in perenne ostilità con essi. Perciò poco dopo partì, dopo avere esortato e salutato la comunità in casa della Lidia. Partì insieme col compagno di prigionia, Sila. A Filippi rimase Luca, come comprendiamo dal fatto che la narrazione da questo punto impiega nuovamente la terza persona plurale: la permanenza di Luca fu dovuta probabilmente al desiderio di lasciare presso la recente comunità una specie di vicario che, oltre ad essere pieno d'ardore, era anche pratico della città (§ 379). Quanto al terzo missionario, Timoteo, non è detto esplicitamente che partisse con Paolo alla volta di Tessalonica e poi di Berea; ma certamente egli fu più tardi insieme con Paolo a Berea (Atti, 17, 14; § 496) e dalle iscrizioni delle lettere ai Tessalonicesi appare come ben noto a costoro, e quindi doveva essersi presentato ad essi insieme con Paolo e Sila.
395. TESSALONICA. Partiti da Filippi, i missionari attraversarono Amfipoli (§ 37) ed Apollonia; e giunsero a Tessalonica (§ 38) dopo un viaggio di circa 150 chilometri. Se ai nostri giorni a Salonicco i Giudei rappresentano circa la metà della popolazione, anche nella (Tes)salonica dei tempi di Paolo già dovevapo essere molto numerosi, e questa fu la ragione per cui egli vi fece la prima sosta dopo Filippi.
Arrivato, Paolo si mise subito al suo doppio lavoro, a quello materiale per guadagnarsi il pane e a quello spirituale per guadagnare le anime. Prese alloggio presso un certo Giasone, probabilmente un Giudeo che originariamente si chiamava Gesù (§ 228), e trovò da esercitare il suo mestiere manuale (§ 230) presso Giasone ci altrove, cosicché più tardi poteva ricordare ai Tessalonicesi di essere stato lavorando notte e giorno sì da non esser d'aggravio a nessuno (I Tess., 2, 9; cfr. II, 3, 8); riprese, cioè, a tessere panni cilicii subito dopo aver fatto a piedi 150 chilometri e sentendosi ancora addosso non bene rimarginate le piaghe ricevute a Filippi. Tuttavia il lavoro manuale rendeva poco, e col tempo i missionari dovettero ritrovarsi in gravi strettezze: lo comprendiamo dal fatto che Paolo per ben due volte acconsentì a ricevere da Filippi soccorsi materiali (Filipp., 4, 16; §, 383).
396. Il lavoro spirituale fu iniziato conforme al solito metodo dì rivolgersi prima di tutto ai Giudei in sinagoga; ivi per tre sabbati discusse con loro (argomentando) dalle Scritture, dischiudendo (il senso di esse) e dimostrando che il Cristo doveva patire e risorgere dai morti, e (affermando): «Costui è il Cristo, Gesù, che io vi annuncio» (Atti, 17, 2-3). I passi delle Scritture discussi erano quelli messianici, specialmente quelli che preannunziavano i patimenti del futuro Messia (Cristo): e appunto questo era il grande ostacolo da superare, perché i Giudei prevedevano il Messia come il sommo trionfatore nazionale che sarebbe passato di vittoria in vittoria, mentre Paolo lo additava loro in un poverissimo artigiano morto in croce.
Il risultato di queste discussioni sinagogali fu che dei Giudei credettero soltanto alcuni (ivi, 4); ma Luca, riassumendo il quadro completo dell'operosità missionaria, aggiunge che si convertì una grande moltitudine dei «devoti» (e) Greci, inoltre non poche donne insigni (277). I «devoti», affiliati al giudaismo, furono conquistati in buona parte in sinagoga; ma attraverso loro, e grazie a un'intensa attività svolta fuori della sinagoga, dovettero esser conquistati i molti Greci tuttora pagani; è notevole che furono in buon numero anche le donne di alto ceto che accettarono la fede. L'immagine del Messia che patisce e muore in croce per la salvezza dell'umanità intera, mentre era respinta dalla maggioranza dei Giudei, era invece accolta da molti pagani: i primi erano offesi da quella umiliazione del Messia e da quella uguaglianza di Giudei e pagani nel regno della salvezza, mentre i secondi scorgevano in quella umiliazione il prezzo della salvezza e in quella uguaglianza la glorificazione della dignità umana.
397. La minuta assistenza a tutti questi neofiti fu un'opera spossante per i missionari, e specialmente per Paolo. Dopo aver passato gran parte della giornata al telaio, egli si alzava di là con le mani intorpidite e le ginocchia fiaccate, e andava ad istruire un gruppo di catecumeni che l'attendeva in qualche bottega: passava poi in una casa, ove un'intera famiglia voleva prepararsi al battesimo; più tardi l'attendeva in una abitazione signorile una nobile dama, che voleva interrogarlo su alcuni punti della sua dottrina: forse scendendo dall'appartamento della dama egli sarà stato fermato già nel cortile da un gruppo di schiavi, che gli avranno domandato ansiosi se anche per loro esisteva una «salvezza». Rientrato poi in casa, a notte già fatta, avrà trovato un vecchio Giudeo che l'aspettava per discutere su alcuni passi delle Scritture, ed egli si sarà trattenuto a lungo con lui al lume di una lucerna come già aveva fatto Gesù con Nicodemo. Infine, prima di stendersi sulla stuoia a dormire, si sarà accuratamente informato da Sila e Timoteo, se erano andati da, quell'infermo che li aveva richiesti: se avevano riconciliato quei due catecuméni in contesa fra loro: se avevano bene spiegato a quel gruppo di schiavi pagani in attesa del battesimo che la fornicazione e l'inganno non sono mai in nessun caso permessi, e quindi divenuti cristiani avrebbero dovuto abbandonare queste loro vecchie abitudini e non più mostrarsi simili ai pagani che ignorano Iddio (I Tess., 4, 4-5).
Ripensando egli più tardi all'insieme di questa, spossante operosità, gli sembrava di essere stato nelle condizioni di una balia circondata da una nidiata di bambini, ai quali ella deve badare in tutto, e in questo ufficio egli descrive se stesso con lepida commozione nel passo che già riportammo (§ 169). Ma anche a Tessalonica, come era avvenuto altrove, i missionari furono ben presto coadiuvati da qualche neofita meglio provvisto di carismi, che poi rimase a continuare l'opera loro (cfr. I Tess., 5, 12).Certo è che i carismi dovettero diffondersi in questa comunità con abbondanza, anche per mezzo di prodigi, e questa fu la principale ragione del suo rapido e solido sviluppo (ivi, I, 5).
398. Il successo, in realtà, fu grandissimo. Non mancò la tribolazione, ma fu unita col gaudio: i Tessalonicesi accolsero la parola (del Signore) in tribolazione molta con gaudio di Spirito santo (ivi, 6). Formatisi in questa maniera, quei neofiti divennero ben presto di esempio e di incitamento per altre comunità vicine e lontane. Circa un anno più tardi, Paolo poteva render loro questa testimonianza: ...Cosicché siete diventati d'esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell'Acaia; da voialtri, infatti, la parola del Signore è risonata fuori non solo nella Macedonia e nell’Acaia, ma in ogni luogo la vostra fede verso Iddio si è diffusa, cosicché non c'è bisogno per noi di dire alcunché (ivi, 7-8).
Proseguendo ancora, l'encomio rivolto da Paolo a questi neofiti ci permette di intravedere uno dei principali impulsi spirituali che li portò alla conversione: Vi convertiste verso Iddio dagli idoli, per servire a Dio vivente e vero, e per aspettare il Figlio di lui dai cieli, che (egli) risuscitò dai morti, (cioè) Gesù che ci scampa dall'ira veniente (ivi, 9-10). Essi, dunque, furono attirati al cristianesimo non solo dall'idea del Messia Gesù morto e risorto, che Paolo aveva presentata in sinagoga, ma anche dall'aspettativa che questo Messia sarebbe ritornato dai cieli ed avrebbe scampato i suoi seguaci dall'ira veniente.Senza dubbio Paolo aveva parlato del ritorno di Gesù dai cieli ano che alle altre comunità da lui fondate, ma non abbiamo prove che questo punto della dottrina di Paolo facesse altrove tanta impressione come qui a Tessalonica.
399.- Come già sappiamo (278), fin dal sec. I av. Cr. nel popolo giudaico si era diffusa, ove più ove meno, l'aspettativa di qualche grandioso avvenimento che cambiasse il corsa delle cose umane: il «secolo presente», tutto ingiustizia e dolore, doveva essere sostituito da un «secolo veniente» di giustizia e felicità. Ma c'era divergenza d'opinioni riguardo al modo di questa sostituzione. Alcuni, più frementi nella loro aspettativa ma meno numerosi, prevedevano una sostituzione fulminea: una conflagrazione cosmica avrebbe distrutto il «secolo presente», e subito appresso il Messia calando dai cieli avrebbe inaugurato il «secolo veniente», che era l'escatologico regno di Dio; nel giorno dell'ira veniente, al giudizio universale, i fedeli Israeliti sarebbero stati accolti nel regno di Dio - dopo essere risorti, se già morti, oppure entrandovi bell'e vivi, se sorpresi ancora in vita - mentre i reprobi pagani sarebbero stati travolti dall'ira, divina.
Invece altri Giudei, più numerosi, pensavano ad una sostituzione graduale: dapprima sarebbe apparso il Messia che avrebbe inaugurato il regno di Dio, non escatologico ma terreno, e così già s'iniziava l'abolizione del «secolo presente», perché il regno messianico avrebbe segnato il trionfo d'Israele sulle nazioni pagane; questo regno sarebbe durato per un'epoca imprecisata, e solo al chiudersi di tale epoca sarebbe avvenuta la vera sostituzione del «secolo presente» con l'escatologico «secolo veniente».
400. D'altra parte, a questo periodo della vita di Paolo (anno 51), anche nel mondo pagano erano diffuse vaghe aspirazioni a un rinnovamento generale. La mole dell'Impero romano si faceva sempre più pesante, mentre nella casa dei Cesari s'offuscava sempre più l'antico splendore. Alle pazzie di Caligola erano succedute le sozzure di Messalina; uccisa costei nel 48, era sottentrata Agrippina, la quale con i suoi intrighi dominava l'imbelle Claudio a tal punto, che tre anni dopo ella se ne sarebbe sbarazzata avvelenandolo. Molti si domandavano dove si andava a finire? Che ne sarebbe stato dell'Impero, governato da una tiranna e da un rammollito, quando fossero insorti i Parti dall'Oriente e i Barbari dal Settentrione? Si aggiungano i molti prodigia che verso quei tempi andavano succedendo: terremoti, comete, piogge di fuoco, parti mostruosi di uomini e di animali, un nugolo di uccelli rapaci che s'insediava sul Campidoglio, un fulmine che colpiva il monumento di Druso padre di Claudio, il tempio di Giove che si apriva da sé (278-a). Che cosa significavano tutti questi prodigia? Evidentemente erano. gli Dei - così pensavano i dotti ed il volgo - che inviavano ammonimenti per un futuro immediato: qualche grandioso avvenimento stava per accadere, e il corso delle cose sarebbe stato cambiato.
I Tessalonicesi, anche prima della predicazione di Paolo, dovevano aver conosciuto ambedue queste aspettative, quella giudaica attraverso i molti Giudei insediati fra loro, e quella pagana attraverso le relazioni continue della loro città col centro dell'Impero: e la generica corrispondenza fra le due aspettative non avrà mancato d'impressionare anche i più spregiudicati. Poi era venuto Paolo, che nelle sue istruzioni catechetiche aveva riferito ad essi minuziosamente il discorso escatologico fatto da Gesù ai suoi discepoli il martedì precedente alla sua morte: dalle parole di Paolo i Tessalonicesi avevano appreso che anche Gesù aveva preannunziato qualcosa di analogo a ciò che aspettavano sia i Giudei sia i pagani.
401. In primo luogo l'edificio più santo di tutta la terra, il tempio ebraico di Gerusalemme, sarebbe stato distrutto e di esso non sarebbe rimasta pietra su pietra; si sarebbe infatti scaricata la grande tribolazione, accompagnata dall'inizio delle doglie (278-b), ossia da guerre, terremoti e carestie in luoghi diversi. Inoltre, dopo quella tribolazione, si sarebbero oscurati il sole e la luna, sarebbero cadute le stelle dal cielo, e a ciò avrebbe tenuto dietro la «parusia» del Figlio dell'Uomo; Gesù sarebbe disceso dal cielo sulle nubi, con possanza e gloria, ed avrebbe raccolto a sé i suoi eletti dalle quattro parti del mondo.
Tutto ciò era stato predetto da Gesù con molta precisione; ma altrettanto preciso non era stato egli riguardo al tempo in cui questi vari fatti sarebbero accaduti. O meglio, riguardo al tempo della grande tribolazione era stato abbastanza preciso: era infatti ricorso al paragone dell'albero del fico che quando inturgidisce i ramoscelli e spunta le foglioline dimostra che l'estate è vicina, e ne aveva concluso che tutto sarebbe avvenuto durante la generazione contemporanea, ossia entro un quarantennio circa. Invece, riguardo al tempo della parusia, aveva detto asciuttamente che soltanto il Padre celeste conosceva il giorno e l'ora di essa, ma nessun altro, neppure gli angeli in cielo e neppure il Figlio.
402. Riflettendo su queste affermazioni di Gesù, e anche riavvicinandole alle aspettative giudaica e pagana, i Tessalonicesi si andarono man mano convincendo che, non solo la grande tribolazione, ma anche la parusia del Cristo glorioso calante dai cieli era imminente; dal momento che Gesù non aveva né affermato né escluso l'imminenza della parusia, i neofiti di Tessalonica - come del resto altri gruppi cristiani altrove - estesero anche alla parusia la designazione del tempo assegnato per la grande tribolazione, e perciò l'assegnarono alla generazione contemporanea: entro un quarantennio, dunque, il Cristo glorioso calando dai cieli avrebbe sostituito il «secolo presente» di iniquità e di peccato col «secolo veniente» di giustizia e di gloria, e ivi egli avrebbe raccolto i suoi eletti dalle quattro parti del mondo.
Aveva Paolo insegnato loro anche questa imminenza della parusia? Ciò si vedrà in seguito (§ 430 segg.); ad ogni modo erano sempre vere le parole che già udimmo da lui pronunziate a loro lode, di essersi convertiti per servire a Dio vivente e vero, e per aspettare il Figlio di lui dai cieli, che (egli) risuscitò dai morti, (cioè) Gesù che ci scampa dall’ira veniente (§ 398).

403. Dunque anche a Tessalonica, come già a Filippi, le cose andavano bene: tanto bene che, egualmente come a Filippi, Paolo a un certo punto dovette impensierirsi per la mancanza di tribolazioni, giacché senza queste non gli sembrava di lavorare per il Cristo. E il Cristo lo tranquillizzò ben presto, mandandogli la solita tribolazione per mezzo dei soliti Giudei. L'imperturbabile Luca racconta in poche parole: Essendosi pertanto i Giudei ingelositi e avendo raccolto alcuni malvagi uomini di piazza (***), e fatta folla, perturbarono la città; trattenendosi poi presso la casa di Giasone, ricercavano quelli (Paolo e Sila) per condurli davanti all’(assemblea del) popolo. Ma, non avendoli trovati, trascinarono Giasone e alcuni fratelli davanti ai politarchi gridando: «Costoro, che hanno sconvolto il mondo, anche qui si san presentati, e Giasone li ha accolti. E questi agiscono tutti quanti in contrasto con gli editti di Cesare, dicendo Che c'è un altro re, Gesù!» (Atti, 17, 5-7). I Giudei questa volta si servirono di una manata di quegli sfaccendati che anticamente non mancavano mai nei fòri e nelle agorà: Cicerone Il chiamava con termine pittoresco subrostrani, perché accalcandosi attorno a un oratore che parlava dall'alto dei rostri facevano la pioggia o il bel tempo a seconda di chi li aveva pagati; là a Tessalonica furono pagati dai Giudei, e quindi sposarono la loro causa.
Fra urla patriottiche e attestazioni di fedeltà a Cesare gridate a squarciagola, questi «rappresentanti del sentimento popolare» fecero un giro per la città e poi si radunarono davanti la casa di Giasone, dove alloggiava Paolo. Ma i ricercati, Paolo e Sila, non c'erano, probabilmente perché nel frattempo erano stati avvertiti e in tutta fretta si erano allontanati. In mancanza di meglio i dimostranti presero Giasone, e lo condussero davanti ai politarchi che presiedevano l’(assemblea del) popolo (§ 38). Il povero Giasone poteva essere accusato tutt'al più di aver ospitato Paolo; ma i dimostranti, per far più colpo sui magistrati, lo implicarono nell'accusa ben grave di favoreggiare chi violava gli editti di Cesare e contrapponeva a Cesare il re Gesù: era un delitto di alto tradimento, un crimen maiestatis.
404. È del tutto verosimile che Paolo, parlando ai suoi cristiani del regno di Dio, avesse attribuito a Gesù il titolo di re, ma naturalmente nel senso in cui Gesù stesso aveva asserito davanti a Pilato di avere un regno (Giov., 18, 36), o anche nel senso escatologico in cui Paolo stesso poteva affermare che la nostra cittadinanza (***) è nei cieli, da cui anche aspettiamo (qual) salvatore (il) Signore Gesù Cristo (Filipp., 3, 20). Gli zelanti denunziatori erano venuti a risapere di questo titolo dato a Gesù, e imbastirono su di esso la subdola accusa.
I politarchi di Tessalonica non furono focosi e precipitosi come i magistrati di Filippi (§ 388): imitarono piuttosto il contegno di Ponzio Pilato davanti alla analoga accusa addotta contro Gesù. Essi dovevano conoscere da gran tempo le facce di quei subrostani che venivano ogni giorno a schiamazzare sotto il loro tribunale, ed erano bene in grado di valutare la sincerità del loro zelo spiegato in favore di Cesare; d'altra parte, i politarchi non potevano risponder loro seccamente: «Via di qua, buffoni venduti! Quante dramme a testa avete ricevute dai Giudei per far questa scenata?» Certe verità non si dicono in pubblico. Quei magistrati ebbero paura delle conseguenze, e quindi divisero il male a metà: a un dipresso come Ponzio Pilato. Luca ci dice che essi, turbati dal contegno degli schiamazzatori, avendo preso garanzia (***) da Giasone e dagli altri, li rimandarono (Atti, 17, 9). In che consistesse questa garanzia non sappiamo: forse fu una somma di denaro depositata; forse fu una assicurazione verbale riguardo al futuro; per i magistrati fu certamente una scappatoia per trarsi d'impaccio senza aggravare troppo la propria coscienza. E così Giasone e gli altri cristiani tornarono alle proprie case.

405. Anche dopo questa conclusione gli spiriti non si erano calmati. Per evitare nuovi disordini, i fratelli subito di notte fecero partire Paolo e Sila per Berea (ivi, 10). Ormai Paolo era abituato a queste partenze precipitose da una nuova comunità da lui fondata: era segno che ivi tutto andava bene, secondo i principii paradossali del Discorso della montagna (§§ 337, 385).
Con un viaggio di circa tre giorni verso Sud-Ovest, Paolo e Sila arrivarono a Berea (§ 38): Doveva essere l'anno 51 inoltrato. Il soggiorno non fu lungo, e neppure tempestoso: quella cittadina remoti fu per Paolo un luogo, non di riposo, ma di calma. Come al solito, egli cominciò col presentarsi in sinagoga ove fu accolto bene, perché quei Giudei - ci dice Luca - erano più nobili di quelli ai Tessalonica (ivi, 11): nobiltà di spirito, naturalmente, giacché la stirpe era la medesima. La predicazione di Paolo li interessò al punto che si misero a investigare accuratamente le Scritture sacre, per riscontrare se corrispondevano a quanto Paolo annunziava: molti pertanto di essi credettero, e delle donne greche insigni e di uomini non pochi (ivi, 12). Questi Greci, in massima parte, dovevano essere affiliati al giudaismo; del loro numero fu Sopatro figlio di Pirro, che più tardi starà a fianco di Paolo (ivi, 20, 4)
Il fruttuoso lavoro e la tranquilla dimora furono interrotti dalla solita gelosia dei Giudei. Risaputosi a Tessalonica dove stesse Paolo e che cosa facesse, fu organizzata l'abituale spedizione che venne a sconvolgere Berea. Per prevenire tristi conseguenze i neofiti avviarono Paolo verso il mare per farlo imbarcare, probabilmente al porto di Dium che distava una cinquantina di chilometri da Berea: forse Paolo stesso aveva espresso il desiderio di abbandonare del tutto la Macedonia, per sottrarsi agli implacabili suoi persecutori.
406. A Berea rimase Sila, e con lui anche Timoteo che qui riappare (§ 394). Coloro che accompagnavano Paolo gli rimasero a fianco fino alla meta del nuovo viaggio, la quale fu Atene: da Dium o altro porto vicino, in tre o quattro giorni di navigazione si raggiungeva Atene dopo avere aggirato a Sud il capo Sunium, e questo sembra ben essere stato l'itinerario seguito da Paolo, invece di quello terrestre che scendeva attraverso la Tessalia e impiegava una dozzina di giorni. Tuttavia la recensione «occidentale» suppone che Paolo passasse lungo la Tessalia: È strano anche il fatto che gli accompagnatori di Paolo gli rimanessero a fianco fino ad Atene, donde poi ritornarono fino all'imbarco; perciò si è pensato che Paolo in quel tempo fosse sotto qualche grave attacco della sua malattia (§ 199 segg.), per cui non potesse esser lasciato solo: ma non è che una congettura.
Quando Paolo congedò ad Atene i suoi accompagnatori, li incaricò di dire a Sila e a Timoteo che venissero a raggiungerlo al più presto; difatti in seguito i due, provenienti dalla Macedonia, raggiunsero Paolo ma non già ad Atene, bensì a Corinto (Atti, 18, 5). In questo spazio di tempo è da collocarsi anche il viaggio di Timoteo, che fu inviato da Paolo a visitare la comunità di Tessalonica, e in tale occasione Paolo rimase ad Atene solo (l Tess., 3, 1-2), ossia privo anche di Sila. Fra le varie spiegazioni proposte per accordare queste notizie la più naturale sembra quella secondo cui Timoteo e Sila raggiunsero subito Paolo ad Atene; ma poi Timoteo fu inviato a Tessalonica, Sila altrove (forse a Filippi), e a missioni finite ambedue insieme raggiunsero Paolo a Corinto.
407.- ATENE. Chi s'immaginasse, Paolo in preda ad esaltazione estetica la prima volta che si aggirò nell'incantevole Atene, cadrebbe in un grave errore storico, dimenticando che in lui l’«uomo» era costituito dai ruderi dell'antico rabbino integrati dalla supercostruzione dell'apostolo cristiano. La sua vita spirituale era concentrata tutta nell'idea religiosa; ogni altra cosa non trovava diretta risonanza nel suo spirito, a un dipresso come in un filologo odierno tutto immerso in codici e papiri non trovano risonanza le corse di cavalli all'ippodromo. Anzi, il paragone è troppo fiacco: il filologo, infatti, potrà essere alieno ma non è direttamente ostile contro le corse all'ippodromo; Paolo invece, sia come ex-rabbino sia come apostolo cristiano, era direttamente ostile a ciò che vedeva per le vie di Atene e che formava la caratteristica della città. Questa sua condizione di spirito è riassunta con esattezza psicologica e storica da Luca quando dice: Mentre Paolo aspettava essi (Sila e Timoteo) in Atene, il suo spirito era in parossismo (***) dentro di lui, al vedere che la città era piena di idoli (Atti, 17, 16) (279).
408. L'odierno viaggiatore che visita Atene non può sottrarsi a un senso di esaltazione estetica, anche se egli è fervoroso cristiano e pur sapendo che gli oggetti da lui ammirati sono un minimo avanzo della bellezza rifulgente ai tempi di Paolo (§ 40). Ma ciò avviene oggi, dopo venti secoli di cristianesimo, quando l'idolatria materiale è del tutto svanita e quando gli oggetti ammirati sono ormai vuoti di ogni significato religioso essendo ridotti soltanto a creazioni di un'arte lecita. Ma allo spirito di Paolo essi si presentavano ben diversamente. In primo luogo quelle statue e pitture erano creazioni di un'arte illecita per lui ex-rabbino, perché la Legge ebraica proibiva ogni raffigurazione di esseri viventi; inoltre erano oggetti che attestavano e favorivano l'empietà idolatrica, perché erano ancora ripieni di un significato religioso che ai loro adoratori sarà apparso legittimo, ma per lui era una bestemmia contro il vero Dio.
Il Renan, anche qui, non si è lasciato sfuggire l'occasione per scrivere una pagina à sensation. Rivolgendosi tutto tremante alle statue di Atene, egli le esorta a tremare anch'esse perché è arrivato in città l'iconoclasta, quel piccolo e antipatico Giudeo di Paolo, il quale ha decretato la loro distruzione e già alza il martello contro di esse. Questa tirata teatrale poteva forse ai tempi del Renan spremere una pia lacrima dalla dama infarinata di cipria e di cultura, ma oggi dallo storico che guardi in fondo ai fatti spreme soltanto una smorfia di compatimento. Fatto sta che l'avanzo di quelle opere d'arte fu salvato in gran parte dal cristianesimo predicato da Paolo, mentre le nazioni barbariche che respinsero il cristianesimo gettarono il più di quelle statue nelle fornaci per farne calce. Paolo s'occupava di religione e non d'estetica, senza dubbio: ma, salvi i suoi principii religiosi, egli era anche in grado di esortare: Del resto, fratelli, quante cose sono vere, quante decorose, quante giuste, quante oneste, quante amabili, quante rinomate, qualsiasi virtù, qualsiasi laude, a queste ripensate (Filipp., 4, 8). In queste categorie da lui raccomandate, le arti belle potevano entrare a più d'un titolo, naturalmente purché non risultassero a scapito dei suoi principii religiosi. Le statue di Atene, invece, rinnegavano direttamente quei principii, perché erano idoli «in attività di servizio»; di qui il suddetto parossismo che provava Paolo al vederli.
409. In Atene la colonia giudaica non doveva essere numerosa, tuttavia vi possedeva una sinagoga: come al solito Paolo si presentò ivi da principio, esponendo la sua dottrina ai Giudei e ai «devoti», ma a quanto pare vi fece poca presa, Allora tentò di gettare la sua rete in altre acque, rivolgendosi. ai pagani: discuteva... nell'agorà ogni giorno con quei che capitavano (Atti, 17, 17).
Se la vita di Atene si svolgeva soprattutto nei luoghi pubblici, il cuore propulsore di quella vita era l'agorà. Tutto si faceva ivi: si comprava e si vendeva; si discuteva di politica e s'imploravano gli Dei; qua un retore arringava la folla, là un istrione parodiava personaggi celebri; in un lato del portico periferico si erano istallati gli Stoici per approfondirvi le dottrine di Zenone, di fronte a loro i seguaci di Epicuro sviluppavano quelle del loro maestro; stranieri di regioni lontane, vestiti in fogge peregrine, vi capitavano ogni tanto annunziando la potenza di qualche sconosciuto dio orientale, l'efficacia di qualche ignoto rito, o le virtù taumaturgiche dì pietre o piante misteriose.
Gli Ateniesi affluivano ogni giorno nell'agorà, passandovi maggior tempo che in casa propria. Oziosi, ciarlieri, beffardi, avidissimi di novità, volevano veder tutto, saper tutto: usciti dal circolo formatosi attorno a un giocoliere, passavano ad ascoltare un filosofo platonico che dissertava sulle idee eterne; dopo aver tempestato di domande un mercante giunto testè dall'India, poco più in là raccoglievano attentamente i responsi di una indovina egiziana che prediceva le sorti dell'Impero romano od esponeva i segreti dei suoi filtri amorosi. Questa folla dell'agorà è dipinta in pochi tratti da Luca quando dice che tutti gli Ateniesi e gli stranieri domiciliati (ivi) in niente altro occupavano il tempo che in dire o ascoltare quel che (c'era) di più nuovo (ivi, 21); col quale giudizio convengono vari scrittori pagani, a cominciar da Demostene e Tucidide, i quali rilevano la leggerezza, loquacità e curiosità degli Ateniesi.
410. Mischiato in quella folla, Paolo si sentiva non già sperduto ma angosciosamente solo (I Tess., 3, 1). Egli guardava quegli ansiosi di novità con l'occhio dell'assiduo lettore della Bibbia conforme alla visione di Ezechiele (34, 5 segg.), essi gli sembravano un gregge di pecore prive di pastore che erravano disperse su tutta la taccia della terra. Il pastore legittimo, Paolo era ben pronto a indicarlo loro: era il Messia Gesù. Ma come avrebbero essi accolto la sua indicazione? Ad ogni modo, tentare bisognava: e Paolo tentò.
I primi con cui egli venne a contatto dovettero essere quelli con cui discuteva... ogni giorno nell'agorà; ma costoro forse non gli dettero alcun peso, preferendo alla sua dottrina su Gesù le notizie del mercante giunto dall'India o i responsi dell'indovini egiziana. Tuttavia Paolo non si perse d'animo ed insistette, cercando qualcuno che almeno s'interessasse dell'argomento ed accettasse di discutere; difatti la sua insistenza fu osservata, e taluni filosofi s'incuriosirono di ciò ch'egli diceva: Alcuni poi anche (280) dei filosofi epicurei e stoici s'incontrarono con lui. E alcuni (di essi) dicevano: «Che cosa vorrà dire questo parolaio?» (281) altri invece: «Sembra un predicatore di divinità straniere»; (e ciò) perché annunziava Gesù e la Resurrezione. E avendolo preso, lo condussero sull'Areopago, dicendo: «Possiamo sapere quale (è) questa nuova dottrina da te insegnata? Cose peregrine, infatti, apporti alle nostre orecchie; vogliamo dunque sapere quali cose vogliono essere queste» (Atti, 17, 18-20).
411. Dal fatto che Paolo annunziava Gesù e la Resurrezione quei filosofi conclusero che egli era un predicatore di divinità straniere, e la loro conclusione non era errata; se poi essi mettevano alla pari Gesù e la Resurrezione ciò avvenne molto probabilmente - secondo l'opinione già espressa ai suoi tempi da Giovanni Crisostomo (282) - perché interpretarono la parola «resurrezione» come nome di una dea: esistendo in Atene altari alla Pietà, alla Modestia, alla Vittoria, e anche alla Contumelia e all'Impudenza, poteva benissimo un predicatore straniero venire a parlare di una dea Resurrezione. Gesù e Resurrezione sembrarono a quei filosofi una regolare coppia di Dei, maschio e femmina, analoga a tante altre coppie che popolavano il loro pantheon. In un malinteso somigliante cadde più tardi Maometto, quando udì da predicatori cristiani insegnare la Trinità divina del Padre, Figlio e Spirito: poiché in arabo la parola «spirito» (ruh) è femminile, Maometto credette che designasse una donna, moglie del Padre e madre del Figlio, la quale inoltre egli identificò con Maria Vergine (283).
412. E così Paolo si presentò all'Areopago. Originariamente questo nome designava una collina situata ad Occidente dell'Acropoli, ed alla quale si accedeva dall'agorà mediante una ripida scala scavata nella roccia: sulla sua cima, all'aria aperta, aveva avuto sede l'antico tribunale ateniese competente degli omicidii. Il nome era interpretato dalla leggenda come «collina di Ares», il dio dell'omicidio e della guerra corrispondente al Marte dei Romani, e valeva praticamente per «collina dell'omicidio»; la leggenda diceva anche che su quella cima Ares era stato giudicato dal tribunale degli altri Dei per un omicidio commesso. In realtà, il nome aveva significato a principio «collina delle Arài», ossia delle Eumenidi, perché sulle pendici della collina esisteva un tempio dedicato a queste divinità, nel quale offrivano sacrifizi coloro che venivano assalti dal tribunale ch'era sulla cima (Pausania, I, 28, 6). Ma, successivamente, il nome di Areopago rimase al tribunale per se stesso, anche quando esso cominciò ad adunarsi non più sulla scomoda cima della collina bensì in basso nell'agorà al Portico Regio (Stoà basìleios). All'epoca romana l'autorità dei tribunale, sotto un certa aspetto, era cresciuta, perché esso era diventato una specie di senato custode delle antiche tradizioni cittadine, con autorità di sentenziare su questioni religiose, morali e anche culturali. Sappiamo da Plutarco (Cicero, 24) che Cicerone si adoperò perché l'Areopago esprimesse un voto e una preghiera affinché il filosofo Cratippo rimanesse in Atene ad insegnare ai giovani.
413. Sorge, perciò, la questione se Paolo si presentò all'Areopago materiale oppure a quello morale, cioè se fu condotto sulla collina oppure davanti al tribunale giù nell'agorà. Vi sono ragioni non spregevoli in favore della presentazione al tribunale, ma tutto sommato è più probabile ch'egli fosse, condotto sulla collina. Il testo stesso, nel suo senso ovvio, suggerisce questa interpretazione, quando dice che «lo condussero sull’Areopago» (***). Inoltre, in tutto l'episodio non trapela il minimo, accenno che Paolo fosse inquisito ufficialmente da un tribunale, e tanto meno, ch'egli fosse oggetto di una precisa «scritta di empietà» quale quella ivi addotta 450 anni prima contro Socrate: non v'è accusa, non interrogatorio, non discussione, e neppure sentenza; né Paolo parla come un imputato davanti a giudici, ma come un privato qualsiasi davanti a dei privati che desiderano udirlo e che a un certo punto lo mandano via delusi e annoiati. Se dunque quel gruppetto di filosofi - che non dovevano esser molti - condusse Paolo sull’Areopago, ciò sembra da attribuirsi al desiderio di ritrovarsi in un posto che fosse abbastanza tranquillo e si prestasse ad una discussione ben più dell'affollata e rumorosa agorà. Là, su quella cima, c'erano gradini scavati nella roccia a semicerchio, riservati ai giudici; gli oratori, accusatore e imputato, prendevano posto nel mezzo su due apposite pietre. Così avvenne quella volta: il gruppetto di filosofi prese posto sui gradini; Paolo parlò loro stando ritto in mezzo all'Areopago (Atti, 17, 22). Ed ecco ciò ch'egli disse, secondo il riassunto abbastanza ampio che ce ne ha trasmesso Luca:
414. Uomini Ateniesi, in ogni cosa vi scorgo come molto timorati della Divinità. Passando infatti attravqso ed osservando i vostri oggetti di culto, trovai anche un'ara su cui era stato scritto "A ignoto dio". Ebbene,ciò che ignorando venerate, questo io annunzio a voi. Il Dio che fece il mondo e tutte le cose che (sono) in esso, costui essendo Signore del cielo e della terra non dimora in templi manufatti, né da mano di uomini è servito (quasi fosse) bisognoso di alcunché, egli che dà a tutti vita e respiro e ogni cosa. E fece da uno solo ogni stirpe di uomini, affinché abitassero su tutta la faccia della terra, avendo determinato tempi prescritti e i confini della loro dimora: affinché cercassero Iddio - se in realtà (avvenga che) ne vadano a tastoni e (lo) ritrovino - ancorché non lontano sia da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci moviamo, e siamo, come pure taluni dei poeti di parte vostra dissero: «Di lui infatti siamo anche stirpe». Essendo dunque della stirpe d'Iddio, non dobbiamo credere che ad oro o ad argento o a pietra, scultura d'arte e d'ingegno d'uomo, sia simile l’(ente) divino. Iddio pertanto, passando sopra con lo sguardo ai tempi d'ignoranza, presentemente annunzia agli uomini che tutti in tutti i luoghi facciano penitenza, giacché stabilì un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia mediante un uomo che (egli a ciò) destinò, fornendo a tutti la (garanzia della) fede (in esso) col risuscitarlo dai morti (Atti, 17, 22-31).
I radunati sull'Areopago stettero ad ascoltare, bene o male, fino a questo punto; ma quando intesero nominare la resurrezione dei morti si convinsero di star là a perder tempo. Perciò alcuni, probabilmente gli Epicurei, scoppiarono a ridere e si fecero beffe di Paolo; gli altri, che poterono esser gli Stoici, gli dissero con un po' di garbo: Bene, bene, ma ti ascolteremo su questo (punto) un'altra volta! (ivi, 32). E così l’adunanza si sciolse.
415. Paolo, che diventava Greco con i Greci e Giudeo con i Giudei, per guadagnare tutti al Cristo (I Cor., 9, 20-23), questa volta si era avvicinato il più possibile alla mentalità dei Greci per far loro accettare la sua dottrina. Il suo discorso, infatti, ha una intonazione diversa da quelli diretti a Giudei, ad esempio, da quello tenuto nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (§ 332); esso non accenna a nessun fatto della Bibbia, e invece cita un poeta pagano, che è Arato (§ 232); non adduce affatto la rivelazione dell'Antico Testamento, e invece parla della conoscenza di Dio mediante la sola ragione umana, come ne avevano parlato vari filosofi greci e come - a un dipresso in quello stesso luogo - l'aveva testimoniata con la sua morte Socrate. Inoltre, proprio a principio del discorso, si nota la captatio benevolentiae abituale agli antichi oratori, là dove Paolo dice di scorgere gli Ateniesi come molto timorati della Divinità (***): la quale affermazione si ritrova non solo presso vari scrittori greci (Sofocle, Isocrate,ecc.) ma anche presso il giudeo Flavio Giuseppe (C. Apion., II, 130). Parimente conforme alle abitudini oratorie è impiegato lo spunto preso dall'attualità, là dove è ricordata l'ara osservata in una strada d'Atene recante l'iscrizione «A ignoto dio».
416. Attesta in realtà Pausania (I, 1, 4) che, lungo la strada dal porto del Falero ad Atene, esistevano vari altari dedicati agli Dei ignoti, ed anche altri scrittori antichi ricordano in altri luoghi altari somiglianti, ma con iscrizioni al plurale. Girolamo poi afferma recisamente - non sappiamo però su quale base - che l'iscrizione vista da Paolo non era al singolare, bensì al plurale, e che tuttavia Paolo la citò al singolare per lo scopo della sua argomentazione (284). Ma esistevano anche iscrizioni dedicatorie ad un singolo dio che per una ragione qualsiasi non fosse stato bene identificato: uno di questi casi è attestato da Diogene Laerzio (Epimen., I, 10), ma un altro è tuttora superstite in un'ara del Palatino a Roma. Il testo di quest'ara è il seguente: Sei Deo Sei Deivae Sacr(um) - C. Sextius C(aii ) F(ilius) Calvinus Pr(aetor) - De Senati (sic) Sententia - Restituit.- L'ara superstite è, dunque, una rinnovazione o sostituzione fatta dell'ara precedente per ordine del Senato. Il C. Sestio Calvino che curò questa, sostituzione è probabilmente figlio di quel Calvino che fu console nel 124 av. Cr.; e difatti i caratteri dell'iscrizione la fanno attribuire a circa il 100 av. Cr. Abbiamo perciò qui una singola divinità, non riconosciuta se dio o dea; a cui in Roma ai tempi repubblicani fu dedicata un’ara per ragioni a noi ignote.
417. L'argomentazione del discorso di Paolo vuol dimostrare che Iddio, autore di tutte le cose e di tutti gli uomini, può e deve esser conosciuto da tutti gli uomini; e ciò in forza di quanto gli uomini comprendono con la loro ragione, osservando le opere di lui: giacché Iddio non è lontano ma vicino a tutti gli uomini, ed essi vivono quasi immersi in lui come i pesci nel mare. Essi potrebbero investigarlo a somiglianza di persone bendate che vadano a tastoni (***) alla ricerca di uno sconosciuto che si aggiri in mezzo a loro, fino a che lo ritrovino afferrandolo e riconoscendolo. Sennonché, nella realtà storica, questo ritrovamento d'Iddio da parte degli uomini non è avvenuto: sono avvenuti, invece, scambi di persona, errori di identificazione, avendo gli uomini preso per il vero Dio statue d'oro, d'argento e di pietra, e cosi sono scorsi sul genere umano lunghi tempi d'ignoranza.
A questo punto Paolo, lasciando il campo della ragione naturale, entra in quello della rivelazione soprannaturale, e annunzia che Iddio ha testè invitato tutti gli uomini a far penitenza, ossia a cambiar maniera di pensare (***) (285). La ragione di questo invito è che Iddio giudicherà il mondo con giustizia mediante un uomo destinato a tale ufficio; ed affinché l'autorità di quest'uomo in tale ufficio fosse palese e notoria, Iddio lo fornì delle opportune credenziali col risuscitarlo dai morti. Giunto qui, Paolo avrebbe certamente continuato col nominare e presentare quest'uomo sconosciuto, ossia il Messia Gesù; ma, come già sappiamo, i suoi uditori non vollero più saperne.
418. Non farà meraviglia che non vogliano saperne del discorso all'Areopago anche vari studiosi moderni: alcuni dei quali, come U. Wilamowitz ed E. Norden, furono insigni filologi classici ma non altrettanto versati nella conoscenza del pensiero religioso giudaico; gli altri, invece, appartengono a quella schiera di studiosi neo-testamentari per i quali il progresso della scienza è costituito essenzialmente dal ripudio dei documenti; è superfluo dire che fra questi ultimi è incluso il Loisy (§ 139 segg.). Per costoro il discorso fu inventato. agli inizi del sec. II, e l'inventore si sarebbe ispirato. Ad una notizia data da Filostrato nella vita di Apollonio di Tiana (VI, 3), a cui avrebbe aggiunto taluni concetti stoici: D'altra parte molti studiosi di grane nome e razionalisti, a cominciare dall'Harnack (286), si sono schierati in favore dell’autenticità del discorso, mostrando quanto siano fragili le ragioni addotte in contrario e quanto acrobatiche le conclusioni dedotte da esse; e in realtà l'opinione dell'autenticità incontra seguaci sempre più numerosi.
419. In conclusione, il discorso all'Areopago fu per Paolo un fallimento. Cause secondarie ne dovettero essere qualche durezza di fraseologia greca e il modo di porgere stentato e impacciato da parte dell'oratore, le quali
cose certo non predisposero in suo favore quel meticoloso uditorio; ma la ragione decisiva fu l'elemento soprannaturale, che sconcertò gli uditori appena venne enunciato. Essi avevano sperato di ascoltare ragionamenti pieni di sapienza, e invece sentivano raccontarsi sciocche favole da vecchierelle con resurrezioni di morti. Tutto ciò non era serio, e non meritava neppure una discussione.
Ebbene, a riflettere spassionatamente, si ritrova che dopo 19 secoli le cose sono rimaste tali e quali. Astraendo dal discorso, oggi i critici razionalisti accettano quasi tutte le affermazioni degli Atti e dell'epistolario paolino, purché non implichino oggettivamente l'elemento soprannaturale: ma appena questo elemento viene enunciato, imitano il contegno degli Areopagiti. C'è però la differenza, che allora Paolo fu costretto dalle circostanze a interrompere il suo discorso, mentre oggi dopo 19 secoli egli non ha ancora interrotto il discorso più ampio rivolto a tutto il mondo; se, oltre ai suddetti critici, molti altri uomini non vogliono ascoltarlo egli non se ne meraviglia, perché ha già preveduto nettamente questo parziale fallimento della sua predicazione mondiale: I Giudei domandano portenti e i Greci cercano sapienza; noi invece annunziamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i Gentili... giacché la stoltezza d'Iddio è più sapiente degli uomini, e la fiacchezza d'Iddio è più forte degli uomini (1 Cor., 1, 22-25). Può darsi che Paolo, quando scriveva queste parole, ripensasse al risultato del suo discorso all'Areopago; certo è che egli non lo considerò un fallimento, bensì lo segnò nella lista delle sue «vittorie» appresso alla lapidazione di Listra (§ 345), alla fustigazione di Filippi (§ 388) e alle varie fughe conclusive pelle precedenti missioni. Erano le paradossali vittorie del Discorso della montagna (§ § 337, 385, 405). E così egli continua ancora oggi e continuerà sempre ad annunziare la stoltezza di Gesù crocifisso, invece della sapienza che gli uomini si aspettano: a sua volta questa sapienza respingerà quella stoltezza, e ne proclamerà il fallimento; ma Paolo seguiterà a segnare questi proclamati fallimenti nella lista delle sue vittorie, mostrando con i fatti che la sua stoltezza non fallisce e non viene meno giammai. È il canone fondamentale della storia del cristianesimo.
420. Nonostante tutto; la dimora in Atene fruttò a Paolo qualche piccola cosa: alcuni uomini, avendo aderito a lui, credettero, fra i quali anche Dionisio l'Areopagita e una donna di nome Damaride e altri con essi (Atti, 17, 34). Poche persone, insomma, e del tutto isolate. Di esse la più insigne era questo Dionisio, che essendo chiamato Areopagita doveva far parte del tribunale omonimo (§ 412); ma altro di lui non sappiamo. Al sec. II Dionisio di Corinto affermava che il suo omonimo Areopagita era stato il primo vescovo di Atene (in Eusebio, Hist. eccl., III,: 4, 10; IV, 23, 3); sul finire del sec. V un ignoto acuto scrittore pubblicò sotto il nome dell'Areopagita parecchi scritti, sostenendovi con una certa abilità la sua finzione.
Il minuscolo gruppo di convertiti fu il pugno di, semenza per la futura chiesa di Atene, ma il germogliare della semenza avvenne lentamente e stentatamente. Paolo, in seguito, sembra che si sia del tutto disinteressato di Atene; dai secoli successivi abbiamo poche e oscure notizie sui progressi fatti ivi dal cristianesimo, mentre è certo che al sec. IV Atene era ancora in massima parte pagana. La causa di questa lentezza è certo da ricercarsi nel carattere della città, ch'era rimasta tutta un'accadèmia piena di antiche glorie ma vuota di eredi degni di quelle glorie: si ciarlava su Socrate; ma senza imitarne la vita e tanto meno la morte; si sofisticava su Platone e Aristotele, ma senza penetrarne il pensiero; si era altezzosamente indifferenti per tutto il resto, nella sicurezza della, propria superiorità; si riempiva infine l'oziosa vita con l’applicazione di teorie edonistiche.
Un ostacolo maggiore di questo indifferentismo Paolo non trovò mai altrove, Delle gelosie dei Giudei egli si compiaceva; delle violenze dei pagani si rallegrava; ma l'inerte indifferenza degli Ateniesi lo snervò; pari ad esperto nocchiero che si mantiene indomito tra l'infuriare d'una tempesta ma resta abbattuto da una fiaccante bonaccia.
Perciò, poco dopo, abbandonò Atene e si trasferì a Corinto. Doveva essere tra la primavera e l'estate dell'anno 51.
421. CORINTO. Se Paolo nel suo breve vi.aggio da Atene a Corinto avrà fatto un rapido bilancio morale della propria situazione, il pensiero gli sarà corso spontaneo all'episodio biblico di David che andò ad affrontare il gigante Golia: un adolescente privo di armi, provvisto soltanto di una fionda da pastore e di poche pietre, che si muove per assalire un uomo due volte più alto di lui e tutto ricoperto di metallo e di armi.
In primo luogo, Paolo era sotto l'impressione del fallimento avvenuto ad Atene; il quale, anche se interpretato in maniera ottimistica secondo i principii paradossali del Discorso della montagna (§ 419), rimaneva sempre umanamente un fallimento. Inoltre, egli conosceva di fama, Corinto e sapeva bene che cosa l'attendeva colà. Egli si sarebbe presentato come araldo del Messia Gesù in una città che aveva già una sua religione cordialmente praticata e, imperniata su due divinità ben definite, il dio Denaro e la dea Lussuria. Il dio Denaro era adorato nei magazzini e negli altri edifici dei due porti di Corinto (§ § 41-42), ove non si pensava che a ricevere o spedire merci d'ogni genere e d'ogni parte del mondo. Collega di questo dio era la dea Lussuria, che era adorata un po' dappertutto nella città; il vero tempio di Afrodite sulla cima dell'Acrocorinto era servito da più di mille prostitute (§ 41) alloggiate in deliziosi edifici adiacenti al tempio, ma in pratica tutta la città era una succursale di quel tempio. Aveva un significato esatto l’appellativo attribuito alla dea lassù dimorante, di Afrodite Pàndemos, ossia «di tutto il popolo». Non solo i ricchi mercanti del porto e gli altri cittadini, ma anche stranieri di lontane regioni attirati dalla fama delle raffinate delizie, affluivano al tempio e alle sue dipendenze evi profondevano enormi ricchezze. Dappertutto era lascivia, lussuria, libidine senza alcun freno, anzi con ogni ostentazione. Ne aveva risentito anche la lingua greca, che aveva coniato il verbo il «corintizzare» e l'appellativo «ragazza corintia» per designare quel genere di vita e colei che lo viveva; così pure era sorta l'espressione «morbo corintio» per designare le conseguenze mediche di quella vita. Né quest'ultima espressione spaventava gli adoratori della dea, come neppure li spaventava il monumento eretto nella necropoli a una famosa ierodula, Laide, la quale era raffigurata come una leonessa che sbrana e divora la preda (Pausania, II, 2). Non si badava né a sanità né a denaro pur di servire la dea, per il motivo dichiarato con ogni franchezza da quel romano che fece incidere sulla propria tomba le parole: Balnea vina venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt balnea vina venus (287).
422. A una città di tal fatta osava Paolo presentarsi per predicare: Beati i poveri! ... Beati i puri di cuore!... E che cosa poteva pretendere quel piccolo e inerme David, di fronte a quel ferratissimo gigante Golia? Tutt'al più un nuovo fallimento, come quello di Atene! Ciò non ostante Paolo tentò, perché sapeva che a Corinto avrebbe trovato la corruzione ma non l'alterigia come in Atene, ed egli temeva più la superbia dello spirito che quella della carne: contro la superbia della carne egli aveva la medicina dei carismi, ma contro la superbia dello spirito i carismi erano assai meno efficaci perché culminano nella carità (§ 225). mentre la superbia dello spirito rinnega la carità.
423. Al suo entrare in Corinto, questo presunto domatore della città era in condizioni materiali e morali pietose. Materialmente non aveva mezzi di sussistenza, chè le sue mani incallite al telaio erano rimaste parecchio tempo inoperose per i continui spostamenti, e forse anche per attacchi della sua misteriosa malattia; si trovò quindi in grave indigenza e soffrì la fame (1 Cor., 4, 11), fino a che gli giunsero soccorsi dalle comunità della Macedonia che egli accettò costretto dalla necessità (II Cor., 11, 8-9), mentre nel nuovo campo di lavoro si mantenne indipendente non accettando alcunché da alcuno. Moralmente soffriva, fra altre ragioni, anche per la mancanza di notizie circa le comunità della Macedonia: ansiosissimo per la sorte di quei suoi cari neofiti esposti a molte tribolazioni, aveva inviato lassù Timoteo e Sila da Atene rimanendovi solo (§ 406), ma non erano ritornati né gli inviati né loro notizie.
Il suo bilancio, dunque, era totalmente negativo nel corpo e nello spirito: non gli era rimasto che Gesù Cristo, e affidato unicamente a questo egli entrò a Corinto. Più tardi, ripensando a questo ingresso, egli rammenterà ai Corinti: Venendo a voi, fratelli, venni non già con eccellenza di parola a di sapienza ad annunziarvi la testimonianza d'Iddio, giacché non giudicai di sapere alcunché fra voi se non Gesù Cristo, e costui crocifisso; bensì io con debolezza e con paura e con tremor grande fui presso di voi, e la mia parola e la mia predicazione non (consistettero) in persuadenti parole di sapienza, ma in dimostrazione di spirito e di possanza, affinché la vostra fede (si basasse) non in sapienza di uomini ma in possanza di Dio (I Cor., 2, 1-5). Il fallimento del tentativo «oratorio» di Atene aveva sempre più indirizzato Paolo ai soli mezzi sovrumani: niente oratoria, niente fulgore di sapienza, anche se impiegati per la diffusione della Buona Novella; unicamente Gesù Cristo, e costui crocifisso, unicamente colui che era scandalo per i Giudei e stoltezza per i Gentili.
424. Entrato in città, Paolo trovò, non molto tempo dopo, un primo appoggio materiale. Erano arrivati recentemente da Roma i coniugi Aquila e Priscilla (§ 157), e si erano stabiliti a Corinto provvisoriamente, nella speranza forse di poter ritornare a Roma (cfr. Romani, 16, 3): poiché Paolo era dello stesso mestiere rimase presso di loro, e lavoravano: erano infatti fabbricanti di tende (§ 230) per mestiere (Atti, 18, 3). Aquila era nativo del Ponto e giudeo di nascita: il suo nome, essendo latino, doveva essere stato o sostituito o aggiunto a quello ebraico. Il nome della moglie Priscilla è il diminutivo equivalente a Prisca, la quale ultima forma è la sola impiegata di Paolo (Rom., 16, 3; I Cor., 16, 19; 2 Tim., 4, 19), ed è nome egualmente latino. Secondo ogni verosimiglianza i due coniugi a questo tempo già erano cristiani, diventati tali a Roma. Costretti dalle circostanze ad una vita quasi nomade, Aquila e Priscilla passeranno più tardi ad Efeso, poi nuovamente a Roma, quindi di nuovo ad Efeso.
Su loro non abbiamo notizie estranee al Nuovo Testamento. Alcuni codici del testo «occidentale» (§ 119, nota) aggiungono la notizia ché Aquila sarebbe stato della stessa tribù di Paolo (Atti, 18, 3). Le asserite allusioni ai due personaggi che si ritroverebbero nelle catacombe di Roma, non esistono; nell'ipogeo degli Acilii (Aquila?), incluso nella catacomba di Priscilla, è conservata la seguente iscrizione: M. Acilius V(erus?) c(larissimus) v(ir) ... Priscilla c(larissima femina); ma poiché l'iscrizione è del II sec. d. Cr. e l'ipogeo era della famiglia senatoria degli Acilii, non si può scorgere nella clarissima femina alcuna relazione con l'umile moglie d'un fabbricatore di tende (288).
425. Paolo, dunque, trovò alloggio e lavoro presso i due coniugi: e ciò fu per lui un sollievo anche morale, perché quell'affettuosa amicizia lo tolse dalla solitudine in cui si trovava, tanto più che i suoi ospiti erano persone molto energiche ed operose (Rom., 16, 3-4) e probabilmente dotate di cultura non comune. Questa provvisoria sistemazione bastò a Paolo per fargli riprendere anche il lavoro spirituale, che gli stava più a cuore. A Corinto i Giudei, attirativi dal commercio, erano numerosi; avevano la loro sinagoga ove convenivano anche i pagani affiliati al giudaismo, che nauseati dalla corruzione morale della città cercavano più spirabil aere nella religione monoteistica e nella pura morale d'Israele. Paolo, secondo la sua norma costante, parlava nella sinagoga ogni sabbato, e persuadeva Giudei e greci (Atti, 18, 4).
Una grande consolazione sopraggiunse poco dopo con l'arrivo di Sila e Timoteo dalla Macedonia (§ 406). Essi portavano notizie buone da quelle comunità, e anche il sussidio materiale da esse inviato all'amato maestro: come le buone notizie infusero a Paolo nuova lena, così il sussidio lo rese un po' più libero dal quotidiano telaio concedendogli maggior tempo per la predicazione pubblica e le conferenze private. Così rinnovato, e assistito adesso anche da Sila e Timoteo, Paolo intensificò i suoi sforzi attestando ai Giudei che Gesù è il Cristo (Messia) (ivi, 5).
Ma i risultati dovettero essere assai scarsi, e per reazione provocarono l'aggressiva resistenza della maggioranza: ma opponendosi quelli e bestemmiando, avendo egli scrollato le (sue) vesti disse loro: «Il vostro sangue (sia) sulle vostre teste: puro io (sono di esso), da adesso andrò ai Gentili!» (ivi, 6). La scena non ci è nuova, perché già ne vedemmo la prima edizione ad Antiochia di Pisidia (§ 337), con la sola differenza che là Paolo scosse la polvere dei piedi e qui invece scuote le vesti: ma il significato morale, e tutto il resto, è lo stesso.
426. Libero ormai dal suo dovere verso i Giudei, Paolo piantò le sue tende lì vicino. Tizio Giusto, un pagano affiliato al giudaismo e probabilmente membro della colonia romana locale, gli offrì la sua casa ch'era attigua alla sinagoga: Paolo accettò, e da allora tenne là le sue riunioni. Le quali furono frequentate anche da Giudei e molto più da pagani, e subito produssero frutti: Crispo, che era archisinagogo (289), si convertì con tutta la sua famiglia, così pure molti pagani. Di questi primi neofiti Paolo ci ricorda incidentalmente vari nomi: un certo Stefana con la sua famiglia fu la primizia dell’Acaia, e fu battezzato da Paolo stesso, sebbene egli di solito non battezzasse (1 Cor., I, 16-17; 16, 15); battezzati da lui furono anche il suddetto Crispo, e quel Gaio che l'ospitò più tardi (Rom., 16,23). Sono pure rammentati un Fortunato e un Acaico (1 Cor., 16, 17); dovettero esser parimente fra i primi convertiti Erasto tesoriere della città (Rom., 16, 23), quel Terzo che fece da amanuense a Paolo quando dettò la lettera ai Romani (§§ 180, 185), ed altri. Anche le donne convertite furono molte, e di esse sono nominate fra altre una certa Cloe, che pare fosse a capo di una famiglia facoltosa (1 Cor., 1, 11), e specialmente Febe: costei era diaconessa della comunità costituitasi nel porto corintio di Cencree (§ 41), assistette materialmente molti confratelli compreso Paolo stesso, e secondo ogni probabilità portò ella da Corinto a Roma la lettera ai Romani (cfr. Rom., 16, 1-2). Alcuni accenni ci fanno comprendere che parecchi di questi neofiti si misero ben presto a fianco a Paolo, per coadiuvarlo. nel suo ministero evangelico e nelle varie opere di organizzazione.
427. Ma in gran maggioranza essi erano di bassa condizione sociale o anche veri schiavi, il cui ceto era numerosissimo a Corinto (I Cor., 1, 26; 7, 21; 12, 13); fu quindi naturale che, cresciuti nella feccia sociale di una città corrottissima, essi anche dopo la loro conversione risentissero molto della mentalità e, delle abitudini in cui si erano formati. Ciò più tardi ricorderà ad essi Paolo, con parole molto franche ma che non faranno meraviglia a chi già conosce il putridume morale di Corinto (§ 421): Non v'illudete: né fornicatori, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né giacenti con maschi, né ladri, né cupidi, né ubriaconi, né oltraggiosi, né rapaci parteciperanno al regno di Dio. E tali alcuni (di voi) eravate; ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito d’Iddio nostro (I Cor., 6, 9-11). Per avviare sul buon sentiero un gregge siffatto Paolo dovette lavorare intensamente e lungamente; ma tanto a fondo erano radicate le vecchie abitudini, che pure alcuni anni più tardi egli dovette intervenire per lettera a correggere abusi morali, i quali erano veramente gravi ma non per questo sembravano meno naturali e legittimi a quella gente inveterata nel vizio (§§ 474, 479, 481 segg.).
428. Ma tutto questo lavorio di purificazione non poteva non suscitare odii e persecuzioni. Oggi era la ragazza sottratta al suo amante, domani il marito ricondotto alla moglie, un altro giorno un adolescente strappato via dai nefasti esempi della sua famiglia, e casi simili: perciò le persone malcontente dovettero essere assai numerose, e toccate sul vivo non si contentarono di proteste verbali ma passarono alle persecuzioni. E in ciò trovarono degli spontanei alleati nei Giudei dell'attigua sinagoga; i quali, mentre si arrovellavano per la conversione dell'archisinagogo Crispo, vedevano tutt'altro che di buon occhio il gran da fare che c'era nella casa di Tizio Giusto, dacché ci si era istallato quell'eretico di Paolo. All'esterno, dunque, persecuzioni da parte dei pagani e dei Giudei insieme; all'interno, ondate su ondate di fango, e del fango più umiliante e vergognoso: ecco la situazione in cui si trovò Paolo a Corinto dopo qualche mese di lavoro.
La sua angoscia, che dovette essere immensa, si trova appena accennata in una sua lettera (I Tess., 3, 7), mentre nel racconto degli Atti è del tutte omessa, ma in compenso vi è riferita la sua liberazione: si direbbe quasi che il medico Luca ometta la malattia per riferire la medicina risanante, e poiché questa fu addirittura una visione si comprende che lo stato di Paolo era tale da rasentare lo smarrimento e la sfiducia. Ma disse il Signore di notte mediante visione a Paolo: «Non temere, bensì parla e non tacere, giacché io sono insieme con te; e nessuno metterà (le mani) addosso a te per farti del male: giacché c'è per me un popolo numeroso in questa città» (Atti, 18, 9-ro).
Veramente, a guardare con occhi umani, quel popolo numeroso non si scorgeva a Corinto; si scorgevano, sì, numerosissimi fornicatori, adulteri, sodomiti, o per dirla con Dante, ruffian, baratti e simile lordura (Inferno, XI, 60), ma erano proprio costoro i destinati a diventare seguaci del Cristo? Eppure, a somiglianza del suo progenitore Abramo, Paolo contro speranza credette nella speranza, sì da divenir lui padre di molte genti (Rom., 4, 18); fidando nella visione avuta, egli si sentì sicuro di divenir lui il padre spirituale di quel popolo numeroso, e continuò con rinnovata lena il suo lavoro, rimanendo a Corinto ancora 18 mesi (§ 158).
429. Essendo Corinto un gran centro commerciale, la Buona Novella s'irradiò di là nei distretti circonvicini. Abbiamo distinta notizia di 1fna particolare comunità sorta a Cencree, che dei due porti di Corinto era il più distante dalla città (§ 41); più vaga, ma più significativa, è la notizia che cristiani potevano ritrovarsi in tutta l'Acaia (2 Cor., 1, 1), senza per altro che ci risulti quanti e dove fossero.
La graduale liberazione dei primi catecumeni di Corinto dalla loro abiettezza morale, e il loro progressivo acquisto della spiritualità cristiana, furono potentemente aiutate dai carismi, che in questa fondazione si dispiegarono con abbondanza e potenza straordinarie. Dei carismi già trattammo a parte (§ 211 segg.), e quindi rimandiamo a quanto là dicemmo; solo ricordiamo nuovamente che Paolo è lo scrittore antico che parla dei carismi più a lungo, e ciò specialmente nella prima lettera ai Corinti scritta pochi anni dopo la fondazione di quella comunità: perciò, nelle notizie da lui comunicateci su questo argomento, abbiamo un raggio di luce che ci permette d'indagare· in parte la vita spirituale della comunità, di Corinto e, per analogia, delle altre.
430. LE DUE LETTERE AI TESSALONICESI. Mentre Paolo stava a Corinto col corpo, con lo spirito stava anche altrove. Recitando appunto ai Corinti il lungo elenco delle sue tribolazioni (§ 168), egli ricorderà che, oltre ai travagli esterni, (c'è) l'aggravio mio di ogni giorno, l'ansia per tutte le chiese: chi s'ammala, che io non mi ammali? chi si scandalizza, che io non bruci? Egli dunque, pur evangelizzando con ogni ardore a Corinto, ripensava alle sue comunità di Pisidia, Licaonia, Galazia, Macedonia, trepidando per esse, e udendone ansiosamente notizie quando poteva averne. Dalla prediletta Tessalonica gliele portò Timoteo al suo sospirato arrivo a Corinto (§ 425), ed ecco in sostanza quanto egli riferì.
Lassù le cose andavano complessivamente bene. I neofiti si mantenevano fermi nella fede, pur essendo esposti a varie tribolazioni; conservavano.arche grande attaccamento a Paolo e desideravano sempre di rivederlo, sebbene fossero sorti taluni a denigrarlo come ambizioso adulatore e astuto profittatore. Tuttavia, su questo sfondo così luminoso, c'erano alcune ombre. Qua e là facevano capolino rimasugli di vecchie abitudini pagane, specialmente in fatto di fornicazione e di frode. Più grave ancora era il caso dell'attesa della parusia (§ 402): i Tessalonicesi si erano in genere formata l'opinione che la venuta del Cristo glorioso stesse per accadere fra brevissimo tempo, e si regolavano effettivamente secondo questa opinione. Perciò molti si erano abbandonati a una assoluta inerzia, motivata da indifferenza per tutte le occupazioni della vita quotidiana; altri invece erano grandemente afflitti per alcuni loro familiari morti nel frattempo, giudicando che questi cari defunti sarebbero stati in condizioni d'inferiorità nel gran giorno della parusia giacché non avrebbero partecipato, come loro tuttora viventi, al gran trionfo del Cristo glorioso.
431. Quando Paolo udì queste notizie, si consolò per la costanza e fedeltà di quei neofiti, ma tanto più crucciato fu per le loro idee sulla, parusia. Egli si sarebbe messo subito in viaggio per recarsi lassù e spiegare bene ai suoi cari neofiti come stavano le cose: ma come fare ad assentarsi da Corinto? come interrompere un lavoro che prometteva così bene anche quaggiù? Non restava che recarsi a Tessalonica spiritualmente, scrivendo una lettera per impartire quelle ammonizioni che erano richieste dalle circostanze. Questa infatti fu la decisione presa da Paolo, il quale scrisse quella prima sua lettera ai Tessalonicesi che è il più antico scritto a sé stante che si ritrovi nel Nuovo Testamento. Era tra la fine dell'anno 51 e il principio del 52.
Ecco quindi Paolo che, cessate le varie fatiche della giornata, a notte inoltrata si sobbarca alla fatica della preparazione materiale della lettera. Già vedemmo che la scrittura della I TESSALONICESI dovette consumare 10 fogli di papiro e più di 20 ore di scrittura (§ 177); il che significa che per una dozzina di notti - dedicandovi un paio d'ore ogni notte - Paolo se ne stette in un cantuccio della sua bottega da tessitore a ricercar parole e stillare frasi, che lentamente dettava al suo amanuense; costui, seduto a terra in un angolo, teneva sulle ginocchia congiunte la tavoletta scrittoria e al lume d'una lucerna dipingeva pazientemente sul papiro le lettere, le sillabe, le frasi, man mano che le udiva pronunziate da Paolo. Aguzzando gli occhi in quel debole chiarore di lucerna, riconosciamo facilmente nell'amanuense uno dei due compagni di Paolo, o Timoteo o Sila (Silvano), che sono ambedue nominati al principio della lettera: è probabile che, per alleviare la fatica assai gravosa, i due si alternassero a ore o a nottate (§ 180). Ecco un riassunto della lettera.
432. Dopo il saluto iniziale di prammatica (§ 181), Paolo esprime i suoi sentimenti affettuosi per i destinatari, e si rallegra per la loro esemplare condotta. Passa quindi a rievocare gli inizi i del suo ministero presso di loro, loda la loro costanza nelle tribolazioni, e si dice desolato di non poterli rivedere pur avendone ardente desiderio; ricorda di aver mandato loro Timoteo da Atene appunto per la grande ansia che provava a loro riguardo, ed esprime la sua consolazione per le buone notizie recate da Timoteo. Li esorta poi a vivere santamente, fuggendo la fornicazione; la frode e l'accidia.
Riguardo ai familiari morti nel frattempo i Tessalonicesi non abbiano, tristezza, perché come Gesù è morto e poi resuscitato così i fedeli morti in lui lo seguiranno: Questo infatti vi diciamo nella parola del Signore (§ 297), che noi, i viventi, i superstiti nella parusia del Signore, non preverremo affatto gli addormentati. Poiché egli; il Signore, con (grido di) comando, con voce d'arcangelo e con (squillo della) tromba di Dio, discenderà dal cielo e i morti in Cristo risorgeranno dapprima; poi noi, i viventi, i superstiti, insieme con loro saremo rapiti su nuvole incontro al Signore nell'aere: e così sempre saremo col Signore. Perciò consolatevi gli uni gli altri con queste parole (I. Tess., 4, 15-18).
433. Fin qui Paolo ha descritto l'apparato scenico della parusia, impiegando termini tradizionali dell'Antico Testamento che si ritrovano anche nel discorso escatologico di Gesù (290), e collocando se stesso nella categoria dei superstiti in attesa della parusia per l'evidente ragione ch'egli era tuttora vivente; con ciò egli ha mirato a calmare l'ansia dei Tessalonicesi, assicurandoli che quando accadrà la parusia i defunti e i viventi si troveranno in condizioni uguali riguardo alla partecipazione alla gloria. Dopo di che, Paolo passa a trattare del tempo in cui avverrà la parusia: e anche questo distacco di trattazione ha il suo precedente nel discorso escatologico, nel quale Gesù aveva trattato dapprima dei segni che precederanno la «grande tribolazione» e la parusia, e poi del tempo in cui questa accadrà.
Su questo nuovo argomento Paolo si esprime così: Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che vi si scriva: voi stessi, infatti, sapete benissimo che il giorno del Signore, come ladro di notte, così viene. E quando diranno «Pace e sicurezza!» allora subitanea incombe su loro la rovina, come le doglie alla (donna) gravida, e non sfuggiranno in alcun modo (ivi, 5, 1-2). Seguono raccomandazioni di vario genere, e per ultima anche quella che la lettera sia letta a tutti i fratelli. Le parole finali: La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con voi, furono aggiunte probabilmente da Paolo di mano propria.
434. Con la prima occasione che si presentò, la lettera fu spedita a Tessalonica, ma non ottenne lo scopo principale per cui era stata scritta. Del resto, la lettera non aveva detto cose che i destinatari già non sapessero; che il giorno della parusia era ignoto e che essa sarebbe sopravvenuta repentinamente, i Tessalonicesi già l'avevano udito affermare dalla viva voce di Paolo nella sua catechesi; ma ciò non escludeva che essa potesse egualmente; sopravvenire o domani o fra un mese o fra un anno, e la lettera stessa non aveva escluso in alcun modo questa possibilità: perciò, in genere, si rimase nella propria opinione.
Poco dopo, qualcuno che venne dalla Macedonia a Corinto riferì a Paolo che i Tessalonicesi si mantenevano fervorosi e zelanti, ma erano sempre in ansiosissima attesa della parusia imminente, attesa continuamente fomentata da ragioni che vedremo subito; perciò si era grandemente accresciuta la schiera di coloro che si erano dati a un'inerzia assoluta, non preoccupandosi neppure di procurarsi da mangiare: dal momento che fra pochi giorni o settimane il «secolo presente» doveva esser sostituito dal «secolo veniente» (§§ 399, 402), che bisogna c'era di mettersi a lavorare foss'anche per procurarsi il cibo? Tanto valeva proclamare uno sciopero di pochi giorni o settimane, giacché fra breve tutti si sarebbero assisi al suntuoso convito messianico (Luca, 12, 37). A queste notizie Paolo, contrariatissimo non meno per lo sciopero che per la vibrante attesa della parusia, scrisse la II TESSALONICESI, più breve ma più perentoria, la quale seguì la prima alla distanza forse di un paio di mesi.
435. Dopo i rallegramenti e le esortazioni, la lettera entra nell'argomento della parusia, ed ecco come Paolo, si esprime: Vi preghiamo, fratelli, per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo e la nostra riunione con lui, a non sconvolgervi presto di sentimento e a non conturbarvi, né per (rivelazione di) Spirito, né per discorso, né per lettera quasicché (inviata) da noi (***), quasicché (***) sia imminente il giorno del Signore (II Tess., 2, 1-2).
Queste allusioni... Spirito ... discorso... lettera... ci lasciano intravedere le cause che fomentavano l'ansia parusiaca dei Tessalonicesi: nelle adunanze della comunità si alzavano su fedeli che erano - o si ritenevano - insigniti di carismi, e parlando in glossolalia o per discorso profetico (§ 215) annunziavano da parte dello Spirito che il solenne avvenimento immineva; qualcuno era andato pure oltre, ed aveva inventato una lettera a nome di Paolo affermandovi la stessa imminenza (291). Tanta era l'esaltazione psichica di quei neofiti, da non rifuggire neppure da queste frodi per diffondere ed irradicare tra i confratelli quella loro opinione.
436. Paolo, invece, ha respinto questa opinione, e subito appresso ne porta le ragioni: Nessuno v'inganni in alcun modo; giacché se non venga l'apostasia dapprima, e si riveli l'uomo del peccato, il figlio della perdizione, colui che contrasta e s'innalza sopra ogni (ente) chiamato Dio o (sopra ogni oggetto di) culto - sì da insediarsi nel santuario d'Iddio mostrando di esser lui stesso Dio - (il giorno del Signore non verrà) (292). Non vi rammentate che, essendo ancora fra voi, vi dicevo queste cose? Ed ora (voi) sapete ciò che (lo) trattiene, affinché egli si riveli a suo tempo. Il mistero dell'iniquità, infatti, già opera internamente: soltanto (c'è) colui che trattiene adesso, finché sia tolto di mezzo. E allora si rivelerà l'iniquo, quello che il Signore Gesù ucciderà col soffio della sua bocca e distruggerà con la manifestazione della sua parusia, quello la cui parusia è conforme all’operazione interna del Satana con ogni possanza e segni e prodigi di menzogna, e con ogni inganno d'iniquità per coloro che si perdono (2 Tess., 2, 3-10). Dopo queste ammonizioni Paolo esorta i Tessalonicesi ad evitare coloro che hanno proclamato lo sciopero in vista della parusia, e che mangiano senza lavorare: imitino piuttosto lui, Paolo, che ha sempre lavorato per guadagnarsi il pane, e chi non vuol lavorare non mangi (ivi, 3, 6-12).
Quando anche questa seconda lettera fu scritta dall'amanuense, Paolo aggiunse di sua mano in fondo all'ultimo foglio di papiro queste parole: Il saluto di mia mano, di Paolo, che, è segno (di garanzia) in ogni lettera: così scrivo (3, 17). Era l'antica abitudine, secondo cui ogni mittente aggiungeva di propria mano qualche parola in fondo alla lettera. (§ 180); qui Paolo aggiunge il breve saluto riconoscibile dalla calligrafia (così scrivo), che servirà ai Tessalonicesi per distinguere altre lettere false che arrivassero.
437. Può darsi che per i Tessalonicesi il pensiero di Paolo sulla parusia fosse adesso chiaro, sia riguardo al tempo di essa sia riguardo ai suoi segni precursori: quei neofiti infatti, oltre alle due lettere che noi pure possediamo, avevano ricevuto anche gl'insegnamenti orali di Paolo ai quali egli stesso rimanda, e che costituivano quasi un commento anticipato alle lettere stesse. Per noi, che possediamo le lettere ma non il commento, il pensiero di Paolo è abbastanza chiaro riguardo al tempo della parusia, ma oscurissima riguardo ai suoi segni precursori.
Per Paolo il tempo della parusia è assolutamente ignoto, come già aveva insegnato Gesù nel suo discorso escatologico: inoltre, mentre egli scrive, non esiste alcun indizio che il gran giorno sia imminente. Questo è l'indubitabile insegnamento della seconda lettera. Sorge perciò la questione come si possa accordare questo insegnamento con l'affermazione della prima lettera, secondo cui noi, i viventi, i superstiti nella parusia del Signore non saremo in condizioni migliori in confronto con i defunti, bensì insieme con loro saremo rapiti su nuvole incontro al Signore. Questa prima persona plurale, noi, non dimostra che Paolo era convinto di esser sorpreso ancora vivente dalla parusia?
438. Stando al suono materiale di queste parole, appare impossibile l'accordo non solo fra le due lettere ma anche fra due parti della stessa prima lettera. Se Paolo era convinto di assistere da vivente alla parusia, non poteva insegnare che il suo tempo era assolutamente ignoto, e che essa sarebbe venuta come ladro di notte, come dice nella stessa prima lettera: in tal caso i Tessalonicesi erano assai più accorti di lui, e gli insegnavano col loro comportamento d'immediato allarme come bisognava accogliere il ladro.
Bisognerà allora pensare che, nell'intervallo fra la prima lettera e la seconda, Paolo abbia cambiato d'opinione, credendo dapprima all'imminenza della parusia e poi disilludendosi a causa della sua tardanza? Sennonché, notammo che l'intervallo fra le due lettere è assai breve, un bimestre o giù di lì (§ 434), e nulla ci dimostra che in un tempo così breve il pensiero di Paolo subisse un cambiamento così grave: anzi, abbiamo la prova diretta che il suo pensiero non subì alcun cambiamento, giacché quando più tardi egli scriverà la prima lettera ai Corinti (15, 51-52) esprimerà ancora le stesse idee della 1 Tessalonicesi (§ 488, nota ultima).
439. Un'altra soluzione proposta è quella di considerare la II Tessalonicesi come apocrifa, o tutta o in parte: essa non sarebbe di Paolo, ma di un falsario, almeno là dove contraddice alla precedente lettera sull'argomento della parusia. Con questa soluzione la presunta contraddizione fra le due lettere è tolta certamente: ma la stessa contraddizione sarebbe tolta anche dichiarando apocrifa la prima e autentica la seconda. Perché mai, dunque, si è ripudiata proprio la seconda? È chiaro: perché i rappresentanti, di questa opinione sono i seguaci della scuola escatologica - sebbene non tutti -secondo la quale Paolo attendeva da un momento all'altro la fine del mondo (§ 131), precisamente come i Tessalonicesi; essi quindi ripudiano la seconda lettera, perché questa chiaramente smentisce che Paolo fosse in tale attesa; altre ragioni per il ripudio non esistono.
Siamo, dunque, all'identico metodo della Scuola di Tubinga: per saggiare i documenti i seguaci di Tubinga applicavano una loro pietra di paragone, ed era il contrasto fra giudeo-cristiani ed ellenistico-cristiani (§ 125); gli escatologisti invece hanno preso per pietra di paragone. l'imminenza della parusia, ma l'applicano con lo stesso metodo e dichiarano falsi i documenti che non sopportano la nuova pietra. Chi trova che questo sia un metodo «storico» serio, s'accomodi: chi invece trova che è aprioristico e che vuol dimostrare idem per idem, assegnerà all'escatologismo la stessa fine della Scuola di Tubinga.
440. Per quale ragione, dunque, Paolo nella prima lettera, parla di noi, i viventi, i superstiti nella parusia? Per la ragione che egli è eminentemente l'apostolo del corpo mistico del Cristo, ossia della Chiesa (§ 621, 622, 634), e perciò si riferisce a questa società permanente ben più che agli individui transitorii, e ha di mira l'intero corpo mistico nel suo complesso ben più che i suoi singoli membri: Anche riguardo alla parusia egli si esprime trasferendosi nella perennità della Chiesa, ed enuncia una massima che deve essere vera sempre, finché duri la Chiesa. Quando accadrà la parusia egli non sa, perché potrà accadere fra breve come potrà accadere nei secoli venturi (Efes., 2, 7); ma sa che, in qualunque tempo accada, essa troverà fedeli defunti e fedeli viventi, i quali tuttavia saranno in condizioni uguali riguardo alla partecipazione alla gloria.
Ebbene, enunciando la sua massima, Paolo guarda a queste due categorie perenni nella Chiesa, pur parlando dal punto di vista della categoria a cui egli adesso appartiene: la sua massima quindi sarà sempre vera, sia enunciata adesso da Paolo, sia enunciata da un fedele di quella stessa categoria nei secoli venturi. Gli individui sono transitorii, mentre la compagine della Chiesa è perenne; e questa perennità farà sì che la massima di Paolo sia ripetuta man mano nei secoli venturi con la stessa verità con cui fu enunciata la prima volta. Nel noi impiegato da Paolo domina quel sentimento della collettività cristiana che è supremamente vivo in lui: se la parusia lo coglierà non più vivente ma defunto, il noi da lui impiegato sarà sempre vero, perché i futuri fratelli rappresenteranno lui in quella indefettibile categoria.
Si dirà che non è maniera naturale esprimere concetti di terza persona impiegando la prima persona. Ma bisogna aver presente che Paolo, come non esclude la possibilità che la parusia lo colga vivente, così non esclude il caso contrario; sul tempo della parusia egli non afferma nulla, e perciò parla dal punto di vista della sua attuale categoria. Il resto è schiarito dal suo sentimento della collettività cristiana, e dal suo pensiero esposto altrove. Certo, uno scrittore moderno si sarebbe espresso ben altrimenti, con nette distinzioni, differenti ipotesi, e numerose premesse: ma né Paolo è uno scrittore moderno, né abbandona mai quello stile riflesso ed ellittico che gli è proprio (§ 164 segg.)
441. Quanto ai segni precursori della parusia, ciò che Paolo dice ai Tessalonicesi con cauta ponderazione e ad integrazione dei suoi precedenti insegnamenti orali, si riassume nei seguenti punti. Prima dell'apparizione del Cristo glorioso, dovrà avvenire una apostasia; in occasione di questa, si rivelerà l'uomo del peccato ecc. che tenterà sostituirsi a Dio; ma per adesso ciò non può avvenire perché c'è colui che trattiene, impedendogli di manifestarsi appieno, sebbene fin da adesso il mistero dell'iniquità stia lavorando; quando poi colui che trattiene interrompa la sua opera raffrenatrice e sia tolto di mezzo, allora avverrà l'inondazione del male e si rivelerà l'iniquo; ma il Signore Gesù (lo) ucciderà col soffio della sua bocca (frase messianica, dipendente da Isaia, 11, 4), cosicché la parusia del Gesù glorioso sarà contrapposta alla parusia dell'iniquo: costui, quale emissario del Satana, agirà con ogni possanza e segni e prodigi di menzogna, ma sarà sopraffatto dalla parusia del Gesù glorioso.
Come sono da interpretarsi questi vari punti? L'apostasia che inizierà il grande dramma allude certo a una defezione, ma a che specie di defezione e da quale autorità? E chi è l'uomo del peccato, il figlio della perdizione colui che contrasta e s'innalza sopra ogni (ente) chiamato Dio o (sopra ogni oggetto di) culto - sì da insediarsi nel santuario d'Iddio mostrando di esso lui stesso Dio -? Veramente già Caligola aveva tentato d'insediarsi nel Tempio di Gerusalemme ordinando che ivi s'innalzasse una sua statua; e il tentativo aveva lasciato un'enorme impressione fra i Giudei: ma ciò era avvenuto una dozzina d'anni prima, cioè nel 46 (293), mentre quando Paolo scriveva ai Tessalonicesi non c'era alcun pericolo di tal genere. E a che allude l'espressione ciò che trattiene (***), a cui fa riscontro poco appresso l'altra colui che trattiene (***)? È un personaggio reale, ovvero è una personificazione simbolica? Analogamente si dica delle altre oscure allusioni.
442. Diciamo subito che il complesso del grande dramma si presenta, a noi oggi, come un libro chiuso con sette sigilli; tale, anzi, lo considerarono già vari espositori antichi, compreso Agostino che dichiara con franchezza: Io confesso d'ignorare assolutamente ciò ch'egli abbia detto (294). Tuttavia, com’è naturale e anche giusto, gli studiosi moderni hanno tentato d'infrangere qualcuno di quei sigilli sperando di leggere qualche riga del libro.
Ciò che possiamo affermare con sicurezza è che elementi concettuali somiglianti erano già comparsi nell'Antico Testamento (Daniele, 7, 8 segg.; 11, 36 segg.); nel cristianesimo primitivo, poi, si annunziò che in antitesi al Cristo doveva insorgere un sommo avversario, il suo nemico per antonomasia, al quale perciò fu assegnato il nome di Anticristo. L'idea di questo Anticristo era certamente oggetto ordinario d'insegnamento nella comune catechesi, giacché i destinatari della 1 Giovanni lessero indirizzate a se stessi queste parole: Udiste che l'Anticristo viene (ossia verrà) (1 Giov., 2, 18; cfr. 4, 3); inoltre, questo vero e grande Anticristo ha già come dei precursori, che hanno iniziato l'opera di lui e preparano la sua venuta, e perciò sono altrettanti Anticristi (1 Giov., 2, 18; II Giov., 7).
443. È quindi spontaneo riavvicinare a questo Anticristo della catechesi apostolica l'uomo del peccato ecc. di Paolo, al quale è attribuito il mistero dell'iniquità che già opera internamente (***) in antitesi al Cristo. E, a conferma, si noti che l'antitesi fra l'Anticristo e il Cristo si risolve nell'antitesi fra il mistero dell'iniquità e il mistero del Cristo; di quest'ultimo parla più volte Paolo (Efes., I, 9; 3, 3· 4· 9 testo greco; Coloss., I, 27; 2, 2; 4, 3 testo greco), perché nella stessa guisa che il mistero dell’iniquità è già parzialmente in atto, così pure sì sta svolgendo progressivamente il mistero del Cristo. Questo mistero ha una, latitudine così ampia che si estende non soltanto a tutto il genere umano senza distinzione di stirpi (Efes., 3, 6-9; Coloss., I, 26-29), ma anche a tutto il creato, giacché esso mira a ricapitolare (***) tutte le cose nel Cristo, quelle sui cieli e quelle sulla terra (Efes., I, 10). Perciò, in forza dell'antitesi fondamentale, il mistero dell'Anticristo avrà la stessa latitudine in senso contrario, ossia mirerà a distornare dal Cristo e a ricapitolare nell'Anticristo tutte le cose dei cieli e della terra.
E in realtà, sulla base di questi dati, gli antichi espositori riconobbero di solito nell'uomo del peccato l'Anticristo, considerando anche costui come una vera persona e non come la personificazione di un'idea; ma fuor di questo punto, su tutti gli altri vi fu grande divergenza d'opinioni. Il che vale specialmente per l'espressione ripetuta ciò che trattiene e colui che trattiene; circa la quale è notevole l'opinione di alcuni antichi (Ireneo, Girolamo), seguiti da molti moderni, secondo cui l'espressione alluderebbe all'Impero romano, il quale perché governato saldamente da una sapiente legislazione sarebbe una garanzia di ordine e di pace.
444. Sarebbe impresa forse impossibile, ma certamente inutile, enumerare tutte le identificazioni proposte lungo: secoli per i vari punti si tratta quasi sempre di voli di fantasia, che poteva vagare liberamente in una sfera così adatta, e spessissimo anche d'insinuazioni tendenziose.
Una identificazione che trovò larghissimo credito fra tutte le varie confessioni protestanti, e non solo agli inizi della Riforma ma anche in tempi abbastanza recenti, è quella che scorge nell'Anticristo il papa di Roma; naturalmente colui che trattiene questo Anticristo è la dottrina protestante. Non c'è da dubitare che, se le questioni religiose avessero oggi nelle masse la risonanza d'una volta; si riconoscerebbe nell'Anticristo Hitler o Stalin, Churchill o Mussolini, Roosevelt o il Mikado, a seconda delle proprie tendenze, ma sempre seguendo il metodo degli antichi protestanti: naturalmente colui che trattiene sarebbe quello che, nelle rispettive coppie di nomi, non è stato scelto come Anticristo. Ciò vale a mostrare quale fondatezza abbia l'antica esegesi protestante.
Nel Medioevo moltissimi pensarono per l'Anticristo a Maometto; parecchi moderni, mettendosi sul terreno storico contemporaneo a Paolo, pensano a Simon Mago o alla leggenda del Nerone redivivo (Tacito, Hist., II, 89). Per altri moderni l'apostasia è una sollevazione politica contro l'imperatore romano in genere, che sarebbe l'Anticristo, mentre ciò che trattiene sarebbero i governatori delle province romane i quali, conoscendo le necessità dei popoli, raffrenano le velleità auto-divinizzatrici dell'imperatore.
445. Queste identificazioni che si restringono a fatti e personaggi contemporanei a Paolo sono, con ogni probabilità, fuori strada.
In primo luogo, giammai appare che Paolo abbia attribuito particolare importanza ad avvenimenti politici dei suoi tempi: scrivendo ai suoi neofiti egli ammonisce che la nostra cittadinanza (***) è nei cieli (Filipp., 3, 20), lasciando capire, che in genere i fatti politici toccavano appena la pianta dei suoi sandali.
Inoltre, appunto verso i cieli c'indirizza il rilievo che testé abbiamo fatto, secondo cui il mistero dell'iniquità contende al mistero del Cristo, il dominio di tutte le cose dei cielo e della terra. La lotta fra questi due misteri ha una latitudine, ben più che politica e terrestre, addirittura cosmica. Paolo affermerà di voler mostrare quale sia l'economia del mistero (del Cristo) nascosto dai secoli in Dio creatore d'ogni cosa, affinché sia notificato adesso ai Principati e alle Potestà nei (luoghi) sopracelestiali per mezzo della Chiesa (Efes., 3, 9-10); cosicché, secondo il suo pensiero, le affermazioni vittoriose della Chiesa sulla terra sono riecheggiate gloriosamente su nei cieli fra i Principati, le Potestà e le altre gerarchie angeliche. Dunque gli esseri angelici partecipano alla contesa fra il mistero del Cristo e il mistero dell’iniquità, sostenendo naturalmente il primo. Ora, questo concetto di una contesa di latitudine cosmica e con ripercussioni sulla terra non è particolare a Paolo, ma si ritrova sia nella cristiana Apocalisse (12, 7 segg.) sia nell'abbondante letteratura apocalittica giudaica (295); e ciò mostra ancora una volta che il pensiero di Paolo dipende sia dalla comune catechesi apostolica, sia da talune idee del giudaismo contemporaneo.
A nostro modesto parere, i segni che Paolo descrive ai Tessalonicesi come precursori della parusia sono in relazione diretta con questa contesa cosmica, e appunto qui - non già in fatti politici contemporanei - sono da ricercarsi gli obiettivi delle varie allusioni che egli fa, e specialmente quello che si nasconde sotto la designazione colui che trattiene. Ad ogni modo, anche condotte su questa strada, le ricerche si concluderebbero con ipotesi più o meno verosimili, e nulla più: i sette sigilli che chiudono l'arcano libro potrebbero essere infranti con precisione e sicurezza soltanto da Paolo, o anche da qualcuno dei Tessalonicesi che udirono le sue spiegazioni orali sull'argomento.
***
446. Il proficuo apostolato svolto da Paolo a Corinto, dopo la sua separazione dalla sinagoga locale, naturalmente doveva dispiacere molto ai Giudei, i quali dopo aver tollerato per 18 mesi (§ 428) tentarono sbarazzarsi di lui rivolgendosi al proconsole Gallione (§ 158). Costui era entrato in carica. probabilmente solo da pochi mesi, e i Giudei raccolte forse notizie sul conto suo ebbero buone speranze di averlo favorevole; perciò, un dato giorno, si sollevarono concordemente contro Paolo e lo condussero davanti al tribunale dicendo: «Contro la legge persuade costui gli uomini ad adorare Iddio» (Atti, 18, 12-13). Qual era la legge citata, quella giudaica o quella romana? Gli accusatori non specificarono, forse a bella posta, per far più impressione sul proconsole, ma certamente intendevano direttamente quella giudaica; ad ogni modo quella romana poteva considerarsi implicata indirettamente, perché la religione giudaica era riconosciuta e protetta dalla legislazione romana.
Gallione però non abboccò all'amo, e quando ebbe capito di che si trattava interruppe Paolo, che già cominciava a parlare per difendersi, e disse agli accusatori seccamente: «Se si fosse (trattato di) qualche ingiustizia o brutto misfatto, o Giudei, come di ragione vi avrei dato udienza: ma se sono questioni di dottrina e di denominazioni e della vostra legge, vedetevela da voialtri: giudice di queste cose io non voglio essere». E li scacciò via dal tribunale (ivi, 14-16). I Giudei avevano fatto male i loro calcoli: avevano sperato di trovare nel proconsole un premuroso patrocinatore, e invece ritrovavano in lui un uomo che si mostrava fratello oltreché carnale anche spirituale di Seneca, il filosofo avverso ai Giudei (296).
447. La folla, che non aveva neppure essa simpatia per i Giudei, quando vide che il proconsole faceva sgomberare così rapidamente dai suoi littori lo spazio dell'agorà davanti al tribunale, ne approfittò per fare una dimostrazione volgare dei suoi sentimenti; allora tutti i Greci, afferrato Sostene l'archisinagogo, (lo) batterono davanti al tribunale: e Gallione non si curò d'alcuna di queste cose (ivi, 17). Questo malcapitato Sostene doveva essere o il successore o un collega dell'archisinagogo Crispo già diventato cristiano (§ 426); il poveretto, che forse era stato l'animatore della sommossa giudaica, fece le spese del malanimo antigiudaico della plebe: ebbe perciò, senza saperlo, l'onore di sostituire questa volta Paolo nella solita bastonatura con cui finivano i processi istituiti contro l'apostolo. Qualora questo Sostene fosse la stessa persona che Paolo, scrivendo apponto ai Corinti (1 Cor., I, 1), chiama il fratello Sostene, bisognerebbe concludere che l'infortunio toccatogli lo avesse spinto verso il cristianesimo, forse mediante l'interessamento che Paolo mostrò per lui dopo le percosse: ma l'identità della persona è dubbia, perché non c'è altra prova che quella assai debole dell'omonimia.
Non abbiamo notizia di altre relazioni fra Paolo e Gallione. Essi dovevano cadere ambedue vittime di Nerone e forse nello stesso anno; Gallione infatti, coinvolto nella congiura di Pisone, fu costretto ad uccidersi poco dopo il suicidio di suo fratello Seneca (Tacito, Annal., XV, 73; XVI, 17).
Dopo l'incontro con Gallione, Paolo restò a Corinto parecchi giorni (Atti, 18, 18; § 158), forse un mese o due; poi, insieme con Aquila e Priscilla, navigò verso la Siria, partendo dal porto corintio orientale che era Cencree. Tuttavia la navigazione non fu diretta, perché da Cencree egli andò a finire ad Efeso, ossia in Asia Minore: probabilmente non trovò una nave che puntasse direttamente su Seleucia, porto della Siria.
448. Subito appresso è soggiunta la notizia curiosa che i tre, Paolo, Priscilla ed Aquila, partirono essendosi raso la testa a Cencree, perché aveva un voto. Chi aveva il voto, Paolo o Aquila? Grammaticalmente si può intendere anche di Aquila, che nel testo è l'ultimo nominato: ma concettualmente non sembra potersi intender se non di Paolo, che è il vero soggetto della narrazione. Il volto ch'egli aveva era riconnesso con l'antico rito ebraico del «nazireato» (Numeri, 6, 2-11), ma forse attenuato per entità e tempo; . pochi anni dopo, lo praticò a Gerusalemme anche la regina Berenice, con cui Paolo s’incontrerà (§ 571), e in occasione di questo voto di lei Flavio Giuseppe fornisce questa spiegazione: C'è la costumanza che, quei che soffrono d'una malattia o di qualche altro inconveniente fanno voto, trenta giorni prima di quello in cui offriranno sacrifizi, di astenersi dal vino e di radersi le chiome (297). La ragione per cui Paolo fece il voto ci è del tutto ignota; ma è notevole che egli, assertore dell'indipendenza del cristiano dalla Legge giudaica, praticasse ancora osservanze di quella Legge. Ciò conferma quanto dicemmo sopra: Paolo considerava i riti giudaici tuttora permessi, sebbene non più obbligatori (§ 373).
La sosta ad Efeso fu breve, per le esigenze di servizio della nave su cui Paolo viaggiava: ma, essendo incluso nella sosta un sabbato, egli ne approfittò per presentarsi in sinagoga ed esporvi la sua dottrina. Dovette suscitare molto interesse, perché i Giudei lo pregarono di rimanere più a lungo, ma egli non acconsentì, promettendo tuttavia di ritornare più tardi.

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