Se dovrai attraversare il deserto, non temere, Io sarò con te.
Se dovrai camminare nel fuoco, la sua fiamma non ti brucerà.
Seguirai la mia luce nella notte, sentirai la mia forza nel cammino,

io sono il tuo Dio, Signore.
Sono io che ti ho fatto e plasmato, ti ho chiamato per nome.
Io da sempre ti ho conosciuto e ti ho dato il mio amore.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi, vali più del più grande dei tesori,

Io sarò con te dovunque andrai.

San Francesco D'Assisi

"Era incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza del cuore, nell'amore di Dio. (Tommaso da Celano)

La vita di San Francesco deve essere per noi un esempio. Ricco, bello, intelligente, non gli mancava proprio niente. Ma ne siamo sicuri? Viveva avvolto nella bambagia, figlio unico di un ricco mercante di stoffe…La città di Assisi era ai suoi piedi, ma ecco che un giorno tutto questo benessere diventa un peso da portare, Dio lo chiama, gli fa capire che i suoi beni e tutte le sue ricchezze saranno fonte di perdizione.
Francesco non esita, e come quasi tutti sappiamo, rinuncia a tutto.
La storia lo vede mentre dona le sue ricchezze ai poveri, le stoffe che il padre conserva nel magazzino e i denari. Tutto…rinuncia a tutto pur di seguire il Signore.
Il messaggio che ci lascia è forte: le ricchezze non servono a nulla, il potere, la gloria, la fama, sono il nulla, per salvare la nostra anima dobbiamo essere generosi, dobbiamo dimenticarci di noi stessi per guardare l’altro nostro fratello che ha bisogno d’aiuto. Solo così riscopriremo il piacere di sentirci felici.
I beni materiali sono destinati a scomparire, moriranno con noi, e non porteremo nella tomba nulla, e allora perchè vivere attaccandoci morbosamente alle “cose” e non pensiamo piuttosto di utilizzarle per il bene di tutti?
Non è certo necessario fare come Francesco, ognuno di noi ha la sua vita e la sua chiamata, è importante però che nel nostro piccolo e con le nostre forze noi ci adoperiamo per gli altri.
Seguiamo Francesco, perchè lui ha trovato la vera felicità e chissà che leggendo la sua storia anche noi possiamo scoprirla…tra le braccia del Padre.
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Riporto una piccola biografia del Santo, è di P. Pietro Rossi ofm.
INTRODUZIONE
Otto secoli or sono, ad Assisi si è svolta una delle avventure più af­fascinanti che il mondo abbia mai visto.
Un giovane di nome Francesco, ritenuto dagli amici il più fortunato perché ricco e spensierato, un giorno udì la voce di Dio che lo invi­tava a seguirlo:
“Francesco va e ripara la mia casa che va in rovina!”
Il giovane comprese che l’invito veniva dall’alto e comportava un cambiamento totale di vita: tentennò, tergiversò, ma poi accolse l’in­vito.
Rinunciò alle sue ricchezze, si vestì di sacco e andò per il mondo a pre­dicare il bene e la pace.
In vita non volle mai un ruolo importante; scelse di essere l’ultimo, il più povero tra i poveri, il servo di tutti; si accorse di avere trovato il segreto della vera felicità.
Francesco è un mistero.
Lo è stato per i suoi contemporanei e lo è ancor oggi. Di fronte al mistero occorre sostare in silenzio! Solo riflettendo ci si accorge della sua grande personalità e ci si con­vince che tutto ciò che si scrive di lui è solo un balbettio.
Tommaso da Celano, suo biografo, ha sperimentato per primo l’in­sufficienza della parola umana: “È bene che io deponga la penna!”. Ciò che mi spinge a scrivere è la ricorrenza di un evento storico: l’8° centenario dell’origine e approvazione del carisma francescano.
Fratello!
Non meravigliarti se ti chiamo così; per Francesco erano tutti fra­telli: anche tu. Forse è la prima volta che leggi qualche pagina sul Po­verello d’Assisi.
Sarà per te una scoperta!
Potrai incontrare l’amico che, forse inconsciamente, da tempo, desi­deravi conoscere: un uomo come te, eppure tanto diverso; una di­versità che è un invito, ma anche un dono di amicizia.
Fratello, hai sentito?
Francesco abbracciando il Vangelo ha trovato la libertà, ha scoperto la vera felicità.
È quello che auguro anche a te, caro fratello. ­
Sono pienamente consapevole che ormai nulla di nuovo si può scri­vere su questo grande santo.
Colgo la ricorrenza centenaria della fondazione dell’ Ordine Serafico per avvicinarlo.
Mi sono proposto di studiare le Fonti francescane per scoprire il “vero” Francesco, tutto l’uomo, l’uomo santo: quello posseduto da Cristo per donarlo agli amici perché lo conoscano e lo amino.
Lo farò con stile semplice e limpido, molto francescano.
Se riuscirò a raggiungere, in qualche modo questo scopo, mi sentirò sufficientemente ripagato della modesta fatica compiuta.
P Pietro Rossi



San Francesco nacque ad Assisi, nella verde Umbria, giar­dino d'Italia, terra di poeti e di santi.
Visse 44 anni, dal 26 settembre 1182 al 3 ottobre 1226 e portò alla Chiesa una primavera di vita.
Paul Sabatier lo chiamò: “Il più grande dei santi che la Chiesa cattolica ha prodotto nei secoli”.
Gandhi disse di lui: “Ci vorrebbe un S. Francesco ogni cento anni e la salvezza del genere umano sarebbe garantita”.
Nobiltà delle origini. Dalla mamma ricevette una spic­cata educazione civile e religiosa: gentilezza e bontà furono le sue caratteristiche. Dal babbo, Pietro di Bernardone, imparò l’arte della mercatura. Aveva di fronte a sé un avvenire splendido! Ma Francesco preferiva la vita spensierata, la compagnia degli amici, le allegre scampagnate e i canti.
Re delle allegre brigate. Ben presto i suoi coetanei si accor­sero di lui; gli si strinsero attorno con affetto e ammirazione e lo proclamarono re delle loro feste. Francesco, pur partecipando a feste e scampagnate, conservava la sua nobiltà d’animo e si manteneva in tutto cortese e gentile. Tommaso da Celano, suo primo biografo, dice di lui: “Quanto era incantevole, stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella cortesia, nel suo aspetto angelico!… Era dolce d’animo, amabile nel tratto, ilare nel volto, affabile nel par­lare, indulgente con gli altri e severo con se stesso, grazioso in tutto”.
Ideale cavalleresco. Ai tempi di Francesco, la gioventù di tutta Italia era affascinata dagli ideali della cavalleria. Ovunque si aggiravano trovatori che cantavano le gesta di eroi, le imprese di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. In loro onore, i giovani organizzavano splendide feste, durante le quali si raccontavano le più belle avventure. Francesco era perduta­mente portato a subire l’influsso di questi ideali per il fatto che sua mamma, Giovanna Pica, era provenzale.
A vent’anni la vita di Francesco era tutto uno sbocciare di sogni e di speranze!
Parte per le Puglie. La notizia che Gualtiero di Brienne si accingeva a partire per le Puglie per combattere sotto la bandiera del Papa, infiammò l’animo di Francesco, che chiese di seguirlo sperando di coprirsi di gloria. Si fece preparare una splendida armatura, poi con un drappello di giovani si diresse verso il Sud. Ma dopo pochi chilometri, a Spoleto si ammalò.
La voce del Signore. Costretto a fermarsi durante la notte, in sogno udì una voce: “Francesco, che può giovarti di più: il padrone o il servo?”.
Risponde: “Il padrone!”.
“Allora - continuò la voce - perché abbandoni il padrone per seguire il servo?”.
Francesco comprese che quella era la voce del Signore; timoroso chiese: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”.
Gli disse la voce: “Ritorna ad Assisi, là ti sarà detto quello che dovrai fare”.
Al mattino, Francesco si accomiatò dai suoi compagni, e ancora febbri­citante, prese la via del ritorno.
Incontra un lebbroso.  Ad Assisi, un giorno mentre stava cavalcando fuori dalle mura della città, gli venne incontro un lebbroso. Istintivamente pensò di fuggire, ma si fermò. Guardò con tenerezza quel­l’essere ripugnante; poi scese di sella, gli andò incontro, lo abbracciò e gli scoccò un bacio. Capì che nel lebbroso era presente Cristo sofferente.
Con questo atto, Francesco aveva vinto la sua grande battaglia!
Giullare di Dio. Tornato in sella, Francesco si sen­tiva un altro. La scoperta di Gesù nel lebbroso capovolse nel suo cuore valori e sentimenti. Ora non più baldorie e serenate per le strade di Assisi, non più imprese guerresche per farsi un nome e una nobiltà, non più la voglia di eccel­lere nello sfarzo di vestiti e di denaro, non più re delle feste; ma giullare di Dio e gioioso servo di tutti.

La chiamata a San Damiano. La voce del Signore non tardò a farsi udire ancora.
Un mattino, Francesco si trovava assorto in preghiera nella chiesetta di S. Damiano, davanti ad un antico Crocifisso. Nel silenzio udì una voce: “Francesco, alzati, va e ripara la mia casa che cade in rovina!”. Sulle prime la ritenne un’allucinazione, ma la voce si fece udire ancora, più accorata: “Francesco, alzati, va e ripara la mia casa che cade in rovina!”.
Si improvvisa muratore. Francesco prese alla lettera l’in­vito del Signore. Corse a casa e vendette molta stoffa preziosa. Il ricavato - una grossa somma - lo portò al prete custode, di nome Pietro, perché facesse riparare subito la chiesa; ma il prete non l’accettò: te­meva le ire di Pietro Bernardone e il richiamo del vescovo di Assisi. Francesco non si perdette d’animo: si improvvisò muratore e con la col­laborazione di alcuni amici, in breve tempo riuscì a restaurare la chiesa.
La reazione del padre. Suo padre, Pietro Bernardone, ritenendosi offeso e danneggiato, decise di citare il figlio davanti ai consoli di Assisi. Si recò al palazzo comunale, dove espose le sue ragioni. I consoli lo ascoltarono e inviarono a Francesco il mandato di compa­rizione. Francesco rispose con una mossa molto abile: egli già condu­ceva una vita da penitente, dunque non era più soggetto alla giurisdizione civile, ma a quella ecclesiastica.
Si appella al vescovo. Francesco si recò dal vescovo e gli portò tutto il denaro che gli restava. Il vescovo lo fermò e lo invitò a riflettere: “Se vuoi essere vero servo di Dio, restituisci questi soldi a tuo padre. La chiesa non vuole che tu spenda per lei denari non tuoi, denari di tuo padre; forse ricchezza male acquistata!”. Francesco si disse d’accordo e convenne col vescovo di ritrovarsi in piazza, dove davanti ai suoi concittadini avrebbe restituito tutto al padre.
Finalmente libero! Sulla piazza di Assisi, davanti al vescovo e ai suoi concittadini, Francesco rinunciò ad ogni suo diritto di famiglia, si spogliò di tutto e restituì al padre, non solo tutto il denaro, ma anche i vestiti, dicendo­gli: “Fino ad ora ho chiamato te padre, da questo momento chiamerò padre soltanto Dio!”. Il vescovo, commosso, allargò le braccia e lo coprì col suo mantello epi­scopale. Con questo atto, Francesco conquistava la vera libertà: la libertà dei figli di Dio. In un impeto di gioia, sollevò lo sguardo al cielo e intonò la preghiera più bella: “Padre nostro che sei nei cieli…”.
Pellegrino senza meta. Dopo questa drammatica scena, Francesco si trovò improvvisa­mente solo. Era inverno ed era poco vestito, senza casa e senza famiglia. Un domestico del vescovo, mosso a compassione, gli regalò una cami­cia e un lungo mantello. Per alcuni giorni egli vagò senza meta nei dintorni di Assisi; poi si diresse verso Gubbio. Aveva fame e faceva freddo; tuttavia era contento ed esternava la sua gioia cantando in provenzale le lodi del Signore.
“Sono l’araldo del gran Re!”. Lungo la strada incappò nei briganti, che lo fermarono. Spera­vano di poterlo derubare, ma non aveva nulla. Gli chiesero chi fosse. Rispose loro: “Io sono l’araldo del gran Re”!. Delusi, lo picchiarono e lo gettarono nel fosso, pieno di neve, gridando: “Resta lì, zotico araldo di Dio. Quello è il tuo posto!”.
Raggiunge Gubbio. Quando i briganti si furono allon­tanati, Francesco uscì dal fosso; si scosse la neve di dosso e, cantando a voce spiegata, raggiunse Gubbio. In questa città riprese la sua attività benefica: curava i lebbrosi, avvici­nava i poveri e aiutava i contadini nei campi. La sera si rifugiava nei fienili o nelle grotte per pregare e riposare. Non aveva alcuna preoccupazione per il cibo: accettava quello che gli veniva dato spontaneamente, come ricompensa del lavoro prestato.
Ritorna ad Assisi. Dopo alcune settimane, Francesco ritornò ad Assisi; aveva il volto scarno ed era vestito di cenci. Al suo apparire, i ragazzi lungo le strade gli correvano dietro sghignaz­zando: “Arriva il pazzo! Arriva il pazzo!”. Egli taceva e tutto sopportava per amore di Dio. Così, scalzo, ricoperto di sacco e cinto di una corda, andava di rione in rione, di casa in casa parlando ai suoi concittadini della paternità di Dio e della sua infinita misericordia.
Scende alla Porziuncola. Un mattino scese alla chiesetta della Porziuncola, per la messa. Al vangelo udì le parole: “Andate e predicate il Vangelo; non portate con voi né oro, né argento, né bisaccia, né scarpe, né bastone” (Mt 10,9). Le ritenne rivolte a sé.
Mosso dallo Spirito col cuore gonfio di gioia, esclamò: “Questo io voglio! Questo io chiedo!”

Abbraccia il Vangelo Senza esitare depone la tunica di eremita e sceglie una veste ruvida con cappuccio per riprodurre in sé l'immagine della croce; si cinge i fian­chi con una corda semplice annodata; getta subito il bastone, la bisac­cia e i calzari: volle obbedire sul campo e osservare alla lettera i precetti della vita apostolica. Poi ritornò dal suo vescovo dal quale ottenne il permesso di predicare.
Predicatore itinerante. Il mattino dopo Francesco inco­minciò a predicare. Andava per le campagne, sulle piazze e nelle chiese. Le sue parole erano semplici, ma così piene di cordialità che tutti quelli che l’ascoltavano si sentivano commossi. Era costretto ad affrontare anche eretici. Ma la sua persona e il suo esem­pio erano per tutti una predica. Parlava di quello che egli stesso aveva provato, annunciando la conversione, la brevità della vita, il premio futuro, la necessità di giungere alla perfezione evangelica.
La predica a tu per tu. Andando per le vie di Assisi, Francesco vide un muratore intento al lavoro; l’avvicinò e gli chiese: “Fratello, perché lavori?” “Lavoro per guadagnare!” Gli rispose il muratore. Francesco insistette: “Perché guadagni?”. Per vivere”, gli rispose. “Perché vivi?”. Il muratore non seppe rispondere; chinò la testa e rimase in silenzio. Concluse Francesco: “Fratello, il lavoro è buona cosa, ma ciò che vale nella vita è amare Dio e salvarsi l’anima!”.
Una corona di amici. In breve tempo Francesco fu cir­condato da una schiera di amici. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, scrive: “Era la sua parola come fuoco ardente, che penetrava nel profondo del cuore, destando in tutti ammirazione” (1 Cel. 23).
L’ammirazione provocava in molti il desiderio dell’imitazione. Tra i suoi ammiratori vi erano borghesi, contadini, cavalieri, artigiani e anche sacerdoti.
I primi frati. Alcuni giovani chiesero a Francesco di seguirlo e di votarsi allo stesso suo ideale. Egli disse loro: “Se volete seguirmi, vendete ciò che possedete e datelo ai poveri!”. Il primo a seguire Francesco fu Bernardo da Quintavalle: era uno dei più nobili e ricchi di Assisi; per distribuire ai poveri le sue ingenti ricchezze ci vollero alcuni giorni. A Bernardo seguirono altri: Pietro di Cattaneo, Egidio di Assisi, Silvestro, Ruffino, Leone, Giovanni della Cappella, Ginepro, Sabbatino, Masseo, Angelo Tancredi e Morico.
Frati minori. La gente cominciò a conoscerli e a stimarli. Li chiamava i “penitenti di Assisi”. Ma a Francesco non piaceva tale denominazione, perché non esprimeva il loro ideale di vita semplice, gioiosa e fraterna. Preferì che fossero chiamati “frati minori”, cioè gli ultimi, i nullatenenti, i sottomessi a tutti. Si erano proposti, infatti, di condividere la condizione dei poveri, di mettersi al loro servizio sull’esempio di Gesù, che pur essendo ricco si fece povero, cioè “minore”, il più povero e umile tra i poveri.
Una Regola. Francesco ritenne opportuno scri­vere una Regola per i suoi frati. La compendiò nell’osservanza del Vangelo: “Questa è la vita dei frati minori: osservare il santo Vangelo vivendo in obbedienza, povertà e ca­stità”. Era un vero programma di vita: ascetismo contemplativo e apostolato ar­dente, ardore di estasi nella solitudine con Dio, ed esplosione di carità e zelo tra i fratelli. Ma era anche un programma che apriva orizzonti sconfinati alla libera iniziativa dei frati.
Verso Roma. La Regola necessitava dell’appro­vazione del Sommo Pontefice; per questo Francesco e i suoi frati decisero di andare a Roma. La loro non fu una decisione affrettata e presa con leggerezza; la loro preoccupazione era rivolta allo scopo del viaggio: ottenere l’approva­zione di condurre una vita in tutto e per tutto conforme al Vangelo. Pieni di fiducia e colmi di gioia, lasciarono Assisi e partirono per Roma.
Allegra brigata! Era una strana comitiva quella che nella primavera del 1210 lasciò Assisi, diretta a Roma! Dodici giovani, pieni di forza, avanzavano pregando e cantando allegramente, confortati dalla bellezza della natura e dalla ospitalità della gente. Erano privi di tutto, ma nulla li turbava e preoccupava, perché avevano la piena convinzione che Dio era con loro e li avrebbe protetti.
Accolti dal Papa. A Roma furono accolti benevol­mente da Innocenzo III. Li ascoltò attentamente, ma prima di approvare la Regola chiese alcuni giorni di riflessione, per ascoltare i cardinali e poi decidere insieme. A Francesco in particolare chiese di pregare il Signore affinché Egli stesso manifestasse la sua volontà: “Prega Cristo, o figlio, affinché per mezzo tuo si mostri la sua volontà. Quando l’avremo conosciuta con maggior certezza, potremo accondi­scendere con maggior sicurezza ai tuoi pii desideri” (FF 1062).
Francesco è irremovibile. Il Pontefice avrebbe preferito che Francesco avesse adottato la Regola monastica di S. Agostino o S. Benedetto: “Figlioli miei, la vostra vita pare a noi troppo dura e aspra, benché noi crediamo che voi siate di tanto fervore che di voi non bisogni dubitare, non di meno dobbiamo pensare per quelli li quali vi avranno a seguire per lo avvenire dopo di voi, che questa vita non paia a loro troppo aspra”. Ma il Santo fu irremovibile! Per i suoi frati aveva voluto come vita l’osservanza del santo Vangelo.
Il Laterano cadente. Durante la notte, il Pontefice ebbe una visione: in sogno vide la basi­lica del Laterano che stava per crollare. Terrorizzato, assisteva alla rovina ormai imminente quando sopraggiunse un uomo piccolo, scalzo, vestito poveramente che si avvicinò alla basi­lica e offerse la sua spalla per sostenerla. In quell’uomo, Innocenzo III riconobbe Francesco!
Approvazione della Regola. Il mattino seguente Innocenzo III fece chiamare Francesco e i suoi compagni. Li abbracciò uno ad uno e approvò la loro Regola. Aveva compreso il significato del sogno: Dio si sarebbe servito di Fran­cesco e dei suoi compagni per salvare la Chiesa.
Sulla via del ritorno. L’approvazione della Regola e le parole di incoraggiamento di Innocenzo III, avevano riempito il cuore di Francesco e dei suoi frati di una gioia incontenibile. Il pensiero di rivedere tra poco la città di Assisi con le sue chiese, le contrade e la sua piazza, di incontrare gli amici, soprattutto i poveri e gli ammalati, aveva suscitato in loro una profonda nostalgia.
Attesi dalla gente. Lungo la strada erano attesi dalla povera gente che si stringeva attorno a loro per conoscerli e ascoltarli. Francesco invitava tutti a pregare e a ringraziare il Signore. Si legge nel da Celano: “Cammin facendo andava ripensando gli innumerevoli benefici ricevuti da Dio e la cortesia con la quale erano stati accolti dal Vicario di Cristo” (1 Cel. 34). Dopo ogni incontro, il Santo benediceva i presenti; poi coi suoi frati riprendeva il cammino.
Aiutati dalla Provvidenza. Il viaggio durò alcuni giorni. Una sera vennero a trovarsi in un luogo deserto. erano stanchi e affamati e non avevano nulla da mangiare. All’improvviso, “per divina provvidenza”, apparve un uomo con un cesto di pane; lo diede loro e se ne andò in silenzio. Aggiunse il da Celano: “Nessuno di loro aveva mai visto questo uomo; perciò pieni di ammirazione si esortavano l’un l’altro a confidare sempre nella divina misericordia” (1 Cel. 34).
Giungono ad Assisi. Ad Assisi furono accolti con gioia da parenti e amici. La gente, che in un primo tempo li guardava con diffidenza, dopo il loro incontro col Papa e l’approvazione della loro Regola, incominciò ad avvicinarli e amarli. Chi li incontrava per strada li salutava, e quando bussavano alle porte per l’elemosina erano aiutati.
La prima dimora. Come prima dimora, i frati scel­sero un tugurio abbandonato alla periferia di Assisi, in località Rivotorto. Qui, ogni sera si ritrovavano, scambiavano le esperienze della giornata, pregavano insieme e consumavano il pasto dei poveri. Il rifugio era sprovvisto di tutto… eppure, i frati vi si trovavano bene, come in una reggia: la reggia di Madonna Povertà.
Un’oasi di pace. A Rivotorto, i frati vivevano tran­quilli, dediti alla preghiera e al lavoro. Al mattino sciamavano e, due a due, andavano a lavorare nei campi, a curare i lebbrosi, ad aiutare i poveri, gli ammalati e i preti an­ziani. La sera si ritrovavano, si scambiavano le esperienze e dopo avere consumato il pasto dei poveri, si coricavano sul pavimento per riposare. Non avevano alcuna preoccupazione per il domani, ma confidavano nella Provvidenza, che non faceva mai mancare il necessario per vivere. Tra di loro si aiutavano e si obbedivano a vicenda.
Il fratino. Anche un ragazzo di dodici anni chiese di farsi frate. Francesco lo accolse ben volentieri. Era svelto, intelligente e molto caro. Un giorno, il “fratino” venne a sapere che Francesco durante la notte si alzava per andare a pregare nel bosco, dove avvenivano “fatti straordinari”. Da allora, ogni sera si coricava col fermo proposito di seguirlo; ma il sonno lo raggiungeva e si addormentava. Una sera ricorse ad un’astuzia: legò il suo cordone a quello di Francesco; così si sarebbe certamente svegliato. Ma non fu così: il Santo si accorse di tutto; sciolse il nodo e si recò nel bosco a pregare: ma il “fratino” aveva sentito il rumore dei passi e si era svegliato. Aspettò che Francesco si incamminasse e lo seguì pian piano; si addentrò nel bosco e si nascose dietro un cespuglio. Dopo pochi minuti, vide il Santo inginocchiato, avvolto da bianchissima luce; tramortito dallo spavento, cadde a terra svenuto. Quando rinvenne, si trovò tra le braccia del Poverello che, accarezzandolo, gli ordinò di non dire a nessuno quello che aveva veduto.
Cacciati da Rivotorto. Un giorno, sull’imbrunire, mentre i frati erano in preghiera, arrivò un contadino intenzionato ad occupare il luogo dove i frati erano riuniti. Spingeva strepitando, il suo asino: “Entra dentro, entra! Qui staremo benissimo!”. I frati si guardarono sbigottiti. Francesco intervenne: “Fratello, resta pure qui, prendi il nostro posto! Noi frati non possediamo nulla qui sulla terra!” Rivolto ai suoi frati disse: “Fratelli, Dio non ci ha chiamati per contestare il posto ad un asino, ma per predicare il Vangelo. Andiamo! Troveremo altrove il rifugio dove passare la notte”.
A casa di mamma. Con l’animo sereno, i frati lascia­rono il loro rifugio e cantando le lodi del Signore si diressero verso la chiesetta di S. Maria degli Angeli, detta anche della Porziuncola. Si legge nelle Fonti Francescane: “Francesco, pastore del piccolo gregge, ispirato dalla grazia divina, condusse i suoi frati a Santa Maria della Porziuncola perché voleva che l’Ordine dei minori crescesse e si sviluppasse sotto lo sguardo della Madre di Dio”.
La porziuncola. La cara cappella di S. Maria degli Angeli, per Francesco era piena di ricordi; l’aveva restaurata qualche anno prima e in essa aveva compreso pienamente la sua vocazione. Dio gli aveva rivelato che in essa sarebbero state elargite tante grazie. Per questo desiderava ardentemente fissarvi la sua dimora. Si rivolse ai monaci benedettini del monte Subasio ai quali apparteneva. L’abate gli donò non solo la chiesetta, ma anche una porzione di terra circostante.
Un luogo sicuro. Francesco e i suoi frati, final­mente, si sentivano tranquilli, in un luogo sicuro dove nessuno poteva disturbarli e cacciarli. Attorno alla chiesetta costruirono cellette, intrecciate di frasche e spalmate di fango dove potevano ritirarsi per riposare e attendere, nel nascondimento, alla preghiera e alla penitenza, confortati dalla protezione della Madonna degli Angeli.

I piu ricchi del mondo!
La gente di Assisi era sbigottita al vedere Francesco e i suoi compa­gni andare scalzi, vestiti di sacco, sempre sereni, comportarsi come se fossero i più ricchi del mondo. Il loro lavoro alla Porziuncola era iden­tico a quello che svolgevano a Rivotorto: lavoravano nei campi, cura­vano i lebbrosi, assistevano i poveri e gli ammalati, aiutavano i preti e gli anziani.
Nuovo stile. Il modo di agire e di parlare di Francesco e dei suoi compagni, era assolutamente nuovo e originale: la gioia del Vangelo e la forza pro­rompente di una nuova maniera di testimoniare e comunicare la fede. Erano poveri e felici, parlavano la lingua della gente, non erano preti, non vestivano abiti particolari, erano lieti e felici di avere scoperto il te­soro più grande del mondo; erano contenti di stare insieme e di comu­nicare a tutti, proprio a tutti, la gioia di un incontro che aveva cambiato la loro vita ed esaltato la loro giovinezza.
Chiara d’Assisi. Una delle reclute più illustri, attirate dalla santità di Francesco, fu Chiara d’Assisi. Era giovane, ricca e bella, con una capigliatura d’oro; pareva una figura di sogno; avrebbe potuto scegliere una vita facile. Ma, un giorno era entrata nella chiesa di S. Ruffino per pregare. Sul pulpito stava predicando un suo amico: Francesco di Bemardone. Parlava della tenerezza di Dio e della caducità delle cose terrene. Fu colpita dalle sue parole.
Ritornò a casa profondamente turbata. Capì che Francesco stava portando qualcosa di nuovo nella chiesa e nella società.
Decide di seguire Francesco.  Chiara, una notte fuggì di casa e accompagnata da una amica, raggiunse S. Maria degli Angeli per consacrarsi al Signore. Narrano i Fioretti che quella notte era più “chiara” del solito, e che le stelle occhieggiavano dall’alto per proteggere il suo cammino. Nella cappella della Porziuncola, Francesco le recise i biondi capelli, la rivestì di una rozza tonaca e cambiò la sua ricca cintura con una ruvida corda.
Le clarisse. In pochi mesi, altre cinquanta ragazze di Assisi seguirono l’ideale di Chiara. Chiara insieme alle amiche si rinchiuse nel monastero di S. Damiano, dove visse per tutta la vita nella preghiera e nella penitenza. Così ebbe inizio il secondo Ordine francescano, detto delle clarisse o povere donne, perché rinunciavano a tutto per seguire l’ideale di Francesco.
Pellegrini e forestieri. In quell’epoca, il mezzo di trasporto più rapido e costoso era il cavallo. Francesco e i suoi compagni scelsero di andare a piedi, facendo diventare popolare il proverbio: “Andare col cavallo di S. Francesco!”. Essi non avevano mete prefisse e viaggiavano affidandosi alla Provvidenza divina. In un primo tempo il loro apostolato era limitato alle contrade e ai paesi vicini, poi si estese a tutte le regioni e all’estero.
Madonna Poverta. Spesso Francesco ritornava in convento o senza mantello o senza tonaca. I frati non riuscivano a comprenderlo. Un giorno disse loro: “Figli miei, ricordiamocelo bene: niente abbiamo di nostro, anche ciò che indossiamo non appartiene a noi. Tutto ci è stato dato in prestito da madonna Povertà, fino a quando troveremo un fratello più povero di noi. Da quell’istante è suo, e noi dobbiamo restituirlo perché è suo!”.
“Giullari dl Dio”. Francesco voleva che i suoi frati fossero sempre lieti e sereni. Li chiamava i “giullari di Dio”. Voleva che evitassero la “pessima malattia della malinconia”, e che i loro peccati li pensassero nelle loro celle ed ivi li piangessero”. Ritornando tra i fratelli dovevano mostrarsi “lieti e graziosi”, perché il Signore li aveva scelti “per andare nel mondo a rallegrare gli uomini e a muoverli a santa letizia”.
La predica del buon esempio. Francesco dava molta importanza alla predica del buon esempio. Un giorno uscì dal convento con un confratello per andare a “predicare”. Raggiunse Assisi e si inoltrò per le via della città: teneva le mani in manica, il cappuccio in testa e gli occhi bassi. Dopo alcune ore di cammino tornò a casa. Il confratello, confuso, gli chiese: “Padre, e la predica, quando la facciamo?”. Francesco, rispose gioiosamente: “Fratello, l’abbiamo già fatta col no­stro buon esempio!”.

Le rondini di Alviano.
 Un giorno mentre Francesco predicava sulla piazza di Alviano, molte rondini garrivano con grande strepito e disturbavano. Il Santo le invitò a tacere: “Tocca a me parlare; voi avete fatto già abbastanza; ora state zitte e quiete finché il mio discorso sia finito!”. Le rondini obbedirono. Colpiti dal miracolo, molti uditori meravigliati dicevano: “Veramente questo uomo è un santo!”. Alcuni chiesero con insistenza di poterlo seguire, ma non potevano perché legati da impegni di famiglia. Il Poverello disse loro: “Non abbiate fretta! Penserò quello che dobbiate fare per la salute delle vostre anime!”.
Nasce il terz’ordine. Dal cuore di Francesco è nato il Terz’Ordine francescano: un vero capolavoro che permetteva, a chi non poteva abbandonare la famiglia e i propri impegni, di abbracciare il suo ideale vivendo secondo una Re­gola. Si trattava di un vero Ordine, distinto da ogni altra fraternità: pos­sedeva una Regola approvata dalla Santa Sede; aveva un probandato, un noviziato e una professione come gli altri Ordini religiosi. Chi vi apparteneva aveva il dovere di tenere, a modo suo e secondo le sue possibilità, alla perfezione e alla santità.
Un vero capolavoro. Con la fondazione del Terz’ Or­dine, Francesco raggiunse il ver­tice della genialità perché riuscì a valorizzare i laici immettendoli in un apostolato attivo, pur restando in famiglia e negli impegni di lavoro. Prima di Francesco, chi intendeva impegnarsi in un apostolato, doveva ritirarsi in un deserto o entrare nelle trappe cistercensi e nelle rocca­forti benedettine.
Un vivaio di santi. Francesco vedeva con gioia che il numero dei suoi figli aumentava di giorno in giorno. Ai primi “dodici” se n’erano aggiunti altri. In pochi mesi la Porziuncola era diventata un giardino, un vivaio di apostoli e di santi. Il Poverello ricordava ad essi di ritenersi “itineranti”, “pellegrini e forestieri” e li invitava a non fermarsi a lungo in nessun luogo.
La perfetta letizia. Un giorno, Francesco camminava con frate Leone sulla strada che da Perugia porta ad Assisi.Nevicava e la strada era gelata. Francesco prese per primo la parola: “Frate Leone, anche se il frate mi­nore sapesse tutte le lingue, conoscesse tutte le scienze e le Scritture, ri­velasse i segreti dei cuori e profetasse le cose future, ricorda che qui non sta la perfetta letizia!”. Dopo un breve intervallo, Francesco riprese il discorso: “Sappi, frate Leone, che se il frate minore sapesse predicare e convertisse tanti pec­catori, cacciasse i demoni e risuscitasse un morto di quattro giorni, nep­pure qui sta la perfetta letizia!”. Intanto continuava a nevicare; il freddo era intenso; la città di Assisi era lontana …e frate Leone ascoltava in silenzio. Allora Francesco alzò la voce e gridò: “Frate Leone, se il frate minore parlasse le lingue degli angeli, facesse miracoli e convertisse tante anime, scrivi ancora: “Qui non sta la perfetta letizia!”. Finalmente frate Leone prese la parola e domandò: “E allora, Padre, dimmi: dove sta la perfetta letizia?”. Francesco tacque un istante, poi rispose: “Frate Leone, se noi bagnati e intirizziti dal freddo, giunti ad Assisi, bussassimo alla porta del nostro convento e dicessimo: “Siamo due dei vostri frati!”, e il portinaio ri­spondesse: “Voi non dite la verità. Siete due gabbamondo!” e ci lasciasse fuori sotto la neve e il freddo; se noi accettassimo questa umiliazione e riconoscessimo che il portinaio ha detto la verità, scrivi pure frate Leone: “Qui sta la perfetta letizia!”. Se poi, tormentati dal freddo e dalla fame, insistessimo a bussare alla porta e il portinaio uscisse con un bastone noccheruto e ci picchiasse “a modo”, e poi ci pigliasse per il cappuccio e ci gettasse nella neve, se noi sopportassimo con pazienza queste cose per amore di Dio, scrivi pure ancora, frate Leone: “Qui sta la perfetta letizia!”.
Tutto serafico in ardore. L’Eucaristia costituiva il centro di ogni attività di Francesco. Passava ore e ore, di giorno e di notte, davanti al Tabernacolo. Tutto ciò che gli ricordava questo sacramento era da lui stimato e onorato. Per rispetto all’Eucaristia scopava le chiese, ornava gli altari di fiori, pre­parava le ostie per la messa. A Chiara aveva ordinato di confezionare lini e tovaglie per le chiese povere. Soprattutto aiutava i sacerdoti anziani e ammalati.
L’eredità più bella. Francesco riuscì a trasmettere la de­vozione all’Eucaristia nei suoi figli. Sulla loro mensa poteva mancare il pane materiale, ma non il Pane eucaristico.
Diceva loro: “Vi scongiuro tutti, o fratelli, baciandovi i piedi e con tutto l’amore di cui sono capace, che prestiate, per quanto potrete, tutto il rispetto e tutta l’adorazione al santissimo corpo e sangue di nostro Si­gnore Gesù Cristo, nel quale tutte le cose che sono in cielo e in terra sono state pacificate e riconciliate a Dio onnipotente”.
Amico di tutte le creature. Francesco amava teneramente ogni creatura. Soffriva nel vedere tagliare le piante che gli ricorda­vano la croce di Cristo. Ai giardinieri consigliava di lasciare incolto un angolo del giardino perché potessero crescere anche le erbe e i fiori selvatici. Deviava il cammino per non schiacciare un insetto. Comprava l’agnel­lino destinato al macello. Liberava il leprotto, le tortore e altri uccelli appena catturati. Le creature contraccambiavano il suo amore e le sue carezze. Quando si inoltrava nei boschi o camminava per strade solitarie, gli uccelli gli svolazzavano attorno e lo festeggiavano con gorgheggi a non finire. Ad Alviano uno stormo di rondini tacque per non disturbare la sua predica. A Gubbio un lupo feroce divenne suo amico.
La predica agli uccelli. Aveva una predilezione per gli uccelli. Quando li udiva, amava unirsi al loro canto recitando il breviario. Un giorno, nei pressi di Bevagna, gliene vennero incontro tanti da sembrare che tutti gli uccelli della zona si fossero dati convegno. Alcuni gli si posarono sulle spalle, altri nel cappuccio, altri nelle mani; la maggior parte si appollaiarono ai suoi piedi. Allora egli prese la parola e disse loro: “Fratelli miei, molto dovete lodare il vostro Creatore poiché vi ha dato le piume per vestirvi, le penne per volare e tutto ciò che occorre per il vostro vivere. Voi dovete amarlo e lodarlo sempre!”.
Amico del poveri. Francesco aveva una predilezione per i poveri perché in essi vedeva Gesù. Voleva che i suoi frati formassero una sola famiglia con loro. Per lui era naturalissimo che i poveri avessero diritto all’ospitalità dei frati. Non tollerava che si dessero giudizi poco caritatevoli nei loro riguardi. Ad un frate che aveva detto ad un povero: “Non vorrei che tu fingessi di essere povero, mentre non lo sei!”, impose di inginocchiarsi davanti a lui e di chiedergli perdono. Quando faceva l’elemosina, provava tanta gioia da sembrare il beneficiato più che il benefattore e soffriva quando non aveva nulla da offrire.

La mamma povera
Un giorno, bussò alla porta del convento la madre di due frati per chiedere l’elemosina. Francesco ordinò al Superiore di darle più elemosina che potesse, ma la dispensa era vuota. Il superiore, confuso, presentò al Santo il libro del Nuovo Testamento, unica ricchezza rimasta in casa. Il Poverello gli disse: “Dallo pure a questa nostra madre perché lo venda e possa avere denaro per le sue necessiti”.
Il perdono di Assisi. Una notte Francesco era immerso in profonda preghiera nella chie­setta della Porziuncola e non si dava pace al pensiero che tanti pecca­tori andavano miseramente perduti. All’improvviso la chiesetta si riempì di luce e gli apparvero Gesù e la Madonna circondati da angeli. Il Poverello non poteva credere a quanto stava accadendo! Il primo a prendere la parola fu Gesù: “Francesco, dimmi che cosa desideri di più?”. Il poverello alzò timidamente lo sguardo verso la Vergine come per chie­dergli un appoggio; poi rispose: “Benché io sia misero e peccatore, ti chiedo che tu conceda a quanti verranno in questa chiesa: il perdono dei peccati e il condono delle pene per i peccati commessi!”.
Ci fu un istante di silenzio! La Madonna rivolse lo sguardo a Gesù e lo invitò ad accondiscendere; Gesù chinò il capo e disse: “Francesco, la grazia che tu chiedi è grande, ma tu meriteresti anche di più. Ti sia concesso quanto tu chiedi!”. Il volto del Poverello si riempì di gioia. Gesù gli sorrise e aggiunse: “Ora va dal mio Vicario, e fa ratificare in terra la mia volontà!”.
Corre a Perugia. Francesco non perdette tempo! Insieme a fra Masseo si recò subito a Perugia, dove in quei giorni si trovava Onorio III. Il Pontefice ascoltò il racconto dell’apparizione e, commosso, diede la piena approvazione dell’indulgenza. Da quel giorno chiunque entrava nella chiesina della Porziuncola, pen­tito e confessato, otteneva “ampio perdono dei peccati e il condono della pena per i peccati commessi”.
Vi voglio tutti in paradiso. È da immaginarsi la commozione di Francesco! Col cuore gonfio di gioia, in fretta, insieme a fra Masseo rirtornò ad Assisi. Entrò nella cattedrale di S. Ruffino, salì sul pulpito e alla presenza del vescovo, tra lacrime di commozione, raccontò la visione avuta alla Porziuncola e la grande grazia del Perdono ottenuta da Gesù e approvata dal Pontefice. Concluse con le parole: “Fratelli, vi voglio tutti in paradiso!”.
Capitolo delle stuoie. Francesco amava tutte le creature, ma soprattutto amava i suoi frati. Desiderava incontrarli spesso e tutti, per ascoltarli e gioire insieme del bene che facevano. È rimasto famoso l’incontro passato alla storia come “Capitolo delle stuoie”, al quale parteciparono 5.000 frati. Si legge nei Fioretti che “erano accampati attorno alla chiesetta della Porziuncola, a gruppi: dove quaranta, dove cinquanta, dove cento, dove duecento, dove trecento; tutti occupati a ragionare di Dio. Erano sprov­visti di tutto, si riparavano con graticci improvvisati; dormivano per terra e mancavano completamente di cibo, ma il santo Pastore, Cristo benedetto, volendo dimostrare com’ egli ha cura delle sue pecore e sin­golare cura dei poveri suoi, ispirò la buona gente umbra a rifornirli.
Ed ecco venire uomini con cavalli carichi di pane e di vino e d’altre buone cose da mangiare”.
La parola di Francesco. Durante questo Capitolo, France­sco lanciò un caloroso appello ai suoi frati: “Andate, annunciate agli uomini la pace; predicate la peni­tenza per la pace; predicate la penitenza per la remissione dei peccati. Siate pazienti nelle tribolazioni, vigilanti nell’orazione, forti nelle fatiche, modesti nel parlare, gravi nel comportamento e grati nei benefici; e in compenso di tutto questo, è preparato per voi un regno eremo”.
Il commiato. Al termine del Capitolo, prima di ritornare alle loro fraternità, i frati si strinsero attorno a Francesco per salutarlo. Il poverello, commosso, li benedisse e li abbracciò uno ad uno. Tommaso da Celano descrive que­sto momento con parole piene di tenerissimo affetto: “Essi ricevevano, con gaudio e letizia grande, il precetto della santa obbedienza; si pro­stravano davanti al beato Padre che, abbracciandoli con tenerezza e de­vozione, diceva ad ognuno: “Riponi la tua fiducia nel Signore ed Egli avrà cura di te!”.
In terre lontane. Le parole di Francesco: “Orsù, figli miei, andate nel mondo intero e predicate la pace!”, furono accolte da tutti i frati con grande entusia­smo.
Alcuni di essi decisero di partire subito, per portare il Vangelo ai pagani, in terre lontane.
Il Poverello, commosso, li abbracciò teneramente e li benedisse.
Francesco parte per l’oriente. Dopo pochi giorni anche France­sco decise di andare in terre lon­tane a predicare il Vangelo. In un primo tempo raggiunse la Francia e la Spagna; poi, “acceso dalla sete del martirio”, si spinse fino al lontano Oriente.
Francesco fu il primo a raggiungere la terra Santa: voleva vedere dov’era nato, vissuto, morto e risorto Gesù. Non vi andò come crociato, ma come pellegrino; aveva compreso che con la forza non si potevano rea­lizzare le aspirazioni della cristianità.
Incontra il sultano d’Egitto. Riuscì a farsi ricevere dal Sultano d’Egitto, Melek - El - Kamel, uomo dotto e intelligente. Era la prima volta che il Vangelo e il Corano si incontravano in una atmo­sfera di carità e di comprensione. Il Poverello aveva ideato un piano sostitutivo alle crociate: un piano fondato sull’amore cristiano, che vedeva nei musulmani dei fratelli. Il sultano capì subito la grandezza del piccolo uomo che gli stava davanti; l’ascoltò con grande interesse e fu conquistato dalla sua grande forza mo­rale.

Conquista la terra di Gesù .
Con larga magnanimità, il sultano concesse a Francesco un salvacon­dotto che gli permetteva di visi­tare liberamente i Luoghi Santi. A questo punto i documenti ci abbandonano! Piacerebbe a tutti seguire Francesco nella Terra di Gesù, accompagnarlo in Giudea e Galilea, a Nazareth, a Betlemme, nel Getzemani; sapere che cosa dissero al suo cuore la grotta dove nacque Gesù e la bottega dove lavorò come artigiano.
Comunque ci sia di consolazione il pensiero che da allora fino ad oggi, i suoi figli non hanno mai abbandonato la Terra di Gesù.
Ritorna in patria. In Terra Santa, Francesco rimase solo pochi mesi.
Ritornò in Italia via mare, approdando a Venezia; quindi scese a Ve­rona, Brescia e Mantova.
Passò il Po e raggiunse Cannetolo di Fontanellato, dove guarì un gio­vane epilettico; a Parma predicò in piazza; a Bologna trovò i suoi frati in una “loro casa”, li fece sloggiare dal “convento” perché non conforme alla povertà. In alcuni di questi luoghi, il suo passaggio è testimoniato da ricordi.
In luoghi solitari. Ritornato in patria, Francesco amava ritirarsi in luoghi solitari. Il cuore era rimasto in Oriente, nella Terra di Gesù; ormai egli vive solo di preghiera e di silenzio.
Tommaso da Celano scrive: “Frequentemente egli lasciava le folle e andava in luoghi di quiete e di solitario raccoglimento, bramando di potersi occupare solo di Dio”.
Nella valle reatina. Tra i luoghi di preghiera molto amati da Francesco, vi furono gli eremi e le grotte della valle Reatina. Le Fonti Francescane ricordano gli eremi-santuari di: Fontecolombo, Poggio Bustone, S. Maria de La Foresta e Greccio. Il Poverello amava questa valle perché era abitata da tanti uccelli ed era ricca di alberi; soprattutto l’amava perché fu il luogo della sua prima missione e perché ospitava tanti suoi frati.
La grotta di Greccio. Un giorno, Francesco, mentre vagava nel bosco dell’eremo di Greccio, scoprì una grotta che gli parve tanto simile alla Grotta di Betlemme dov’era nato Gesù. Gli balenò subito alla mente l’idea di utilizzarla per rappresentare dal vivo la scena del Santo Natale. Comunicò l’idea ai confratelli dell’eremo e all’amico terziario Giovanni Velita, che l’accolsero con entusiasmo e si impegnarono di aiutarlo nel realizzarla.
Il presepio. La notte di Natale del 1223, i con­tadini e i pastori della vallata e dei paesi vicini, salirono a Greccio con fiaccole accese, cantando pastorali. Nella grotta trovarono, collocata sulla paglia, la statua del Bambino Gesù con a lato un bue e un asinello.
A mezzanotte, un frate celebrò la santa messa, assistito dai frati accorsi dagli eremi vicini.
Al Vangelo, Francesco, che era diacono, parlò ai presenti. Era tanta la gioia che regnava nel suo cuore che quando pronunciava il nome di Gesù si lambiva le labbra. Quando alla fine, Francesco prese il Bambinello tra le braccia, i presenti videro quella statua di legno animarsi e muoversi come se fosse viva. Quella notte fu veramente una notte di paradiso!
Nella valle del casentino. Nell’agosto 1224, Francesco decise di raggiungere il monte della Verna per riposarsi e ritem­prare lo spirito. In quel luogo benedetto, lontano dall’eremitaggio dei frati, avrebbe potuto isolarsi per digiunare e dialogare familiarmente con Gesù. Prese con sé frate Leone e intraprese il lungo viaggio.
L’incontro col contadino. Il viaggio fu lungo, faticoso e tor­mentato dal caldo e dalla sete. Le Fonti Francescane riferiscono questo grazioso episodio: “Essendosi Francesco troppo indebolito per la fatica del viaggio, frate Leone chiese ad un contadino di mettere a disposizione il suo asino”. Lungo il viaggio il contadino chiese a Francesco: “Sei tu quel Francesco del quale la gente parla tanto bene? Fa in modo che quello che si dice di te, corrisponda a verità!”. Il Poverello scese dall’asino, si prostrò davanti al contadino e bacian­dogli i piedi gli disse:
“Non è vero. La gente si inganna. Io sono il più grande peccatore!”. (FF 726, 1902).
Il saluto degli uccelli. Quando giunsero ai piedi del monte della Verna, prima di affrontare la salita si fermarono sotto una quercia per riposarsi. Allora stormi di uccelli accorsero a testimoniare la loro gioia con canti e battiti d’ ali. Volteggiarono attorno a Francesco, gli si posarono sul cappuccio, sulle spalle e sulle braccia. Francesco disse a frate Leone: “Io credo, caro fratello, che a nostro Signore Gesù Cristo piace che noi abitiamo in questo luogo solitario, poiché tanta allegrezza ne mostrano della nostra venuta le nostre sirocchie e fratelli uccelli” (FF 1157).
Sul monte della Verna. L’arrivo di Francesco fu per i confratelli una gradita sorpresa. Essi l’accolsero con grande gioia e commozione. Il poverello chiese e ottenne dai suoi confratelli che gli fosse costruita, nel folto della selva, una capanna dove potersi isolare e dialogare familiarmente con Gesù. Solo a frate Leone era permesso di andare da lui in orari e dopo avere preannunciato il suo arrivo con una parola convenzionale.
Tormentato dai demoni. Nelle Fonti Francescane si legge che i demoni tormentarono Francesco in mille modi. Durante il suo viaggio verso la Verna, il Santo si era fermato in una chiesa abbandonata per pregare e riposare. All’improvviso si odi uno “strepito” di diavoli che scorazzavano sul tetto della chiesa per disturbarlo. Giunto alla Verna, i demoni si coalizzarono per disturbarlo durante la notte; spesso lo picchiavano fino a ridurlo in fin di vita. Un giorno, mentre Francesco si trovava su di un alto precipizio, assorto in preghiera e contemplazione, sentì una spinta alle spalle. Era il demonio! Il Santo per difendersi tentò di attaccarsi alla roccia, ma nessuna difesa umana poteva trattenerlo. Allora il Signore accorse in suo aiuto operando un vero miracolo. La roccia attirò il Santo verso di se, poi lo accolse e si ritirò come fosse di cera, producendo un vero rientro e trascinando il corpo del Santo dentro di se. Il Poverello confidava a frate Leone: “Se i frati sapessero quante afflizioni e tribolazioni mi danno i demoni, tutti si moverebbero a compassione e pietà di me!”.
Frate falcone. Sul monte della Verna, Francesco ebbe come grande amico un falco. Lo incontrò mentre covava i suoi piccoli nel nido costruito in una fenditura della roccia. Gli si affezionò talmente da diventare suo benefattore.
Ogni giorno lo svegliava puntualmente, all’ora della preghiera notturna. Quando Francesco era ammalato, il falco non lo svegliava; faceva soltanto una visitina il mattino, sul tardi.

 Ardore serafico.
Francesco amò Gesù con la tenerezza di un vero amico.
Si commoveva al pensiero che egli si fosse fatto uomo per salvarci e piangeva di dolore nel contemplarlo crocifisso. Scrive S. Bonaventura: “Ogni qual volta ricordava la crocifissione di Cristo non poteva tratte­nersi dalle lacrime e dai gemiti, come egli stesso ebbe poi a riferire familiarmente verso la fine della sua vita” (Leg. mag, I, 5).
Le stimmate. Una notte, Francesco era immerso in profonda preghiera e supplicava Gesù tra le lacrime e sospiri: “Signore mio, Gesù Cristo, fa che io senta nell’animo e nel corpo quello strazio che tu sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione!”.
Gli apparve un serafino, con sei ali, circondato da fulgidissima luce. Gli abitanti dei paesi circostanti credettero che la selva stesse bruciando. L’apparizione durò a lungo. Prima che essa svanisse, il Santo sentì il suo corpo trafitto da indicibile dolore: le mani, i piedi e il costato erano piagati e sanguinanti. Gesù aveva accolto la sua preghiera, e gli aveva impresso nel corpo i sigilli del suo amore: le sacre Stimmate.
Frate Leone infermiere. Il primo ad accorgersi dell’acca­duto fu frate Leone.
Subito aiutò Francesco a riprendersi dal rapimento estatico; quindi con pannolini gli fasciò le mani e i piedi ed asciugò il sangue che gocciolava copioso dalla ferita del costato.
Da quel giorno, Francesco scelse frate Leone come suo infermiere e in­cominciò a chiamarlo familiarmente “pecorella di Dio”.
Un angelo lo consola. La preghiera e la penitenza, so­prattutto il sangue perduto dalle stimmate, avevano indebolito il fisico di Francesco. Il Poverello, per “confortare” il corpo, pregò Dio di concedergli la gra­zia di assaggiare “un poco di gaudio” dei beati. Si legge nei Fioretti: “Subito gli apparve un Agnolo con grandissimo splendore, il quale aveva una viola nella mano sinistra e lo archetto nella diritta; e stando santo Francesco tutto istupefatto nello aspetto di questo Agnolo, esso menò una volta l’archetto in su sopra la viola; e subitamente tanta soavità di melodia indolcì l’anima di santo Francesco e sospesala sì da ogni senti­mento corporale che egli dubitava, se lo Agnolo avesse tirato l’archetto in giù, per intollerabile dolcezza l’anima si sarebbe partita dal corpo”.
Il Tau di Francesco. Francesco ebbe una predilezione per frate Leone.
Un giorno lo chiamò a se e gli disse: “Pecorella di Dio”, ti prego di portarmi un pezzo di pergamena perché desidero ricompensarti del bene che mi fai con la mia benedizione”.
Con la mano stigmatizzata tracciò un Tau e scrisse queste parole: “Il Signore ti benedica e ti custodisca… Volti verso di te il suo sguardo misericordioso e ti dia la pace. Il Signore ti benedica!”. Frate Leone baciò e ribaciò questa pergamena e la portò sul petto finché visse.
Il commiato dai confratelli. Francesco rimase alla Verna ancora poche settimane; poi decise di ritornare ad Assisi. Il conte Orlando gli mise a disposizione un asinello, perchè le stimmate gli impedivano di camminare. Prima di partire radunò i suoi frati attorno a sé e si congedò da loro con parole tenerissime: “Addio figli miei. Io parto da voi con la persona, ma vi lascio il cuore. Me ne vado con frate Leone “pecorella di Dio”, e qui non farò più ritorno. Dio vi benedica. Addio fratelli miei. Addio a tutti!”.
Addio alla Verna. Giunto sulla cima del monte Foresto, da dove poteva vedere per l’ultima volta la Verna, Francesco chiese di fermarsi; scese dall’asinello, si inginocchiò e con grande effusione pronunciò parole di saluto: “Addio monte di Dio, addio monte degli Angeli. Addio rocce e faggi che vi elevate al cielo agili come preghiere. Addio uccelli lieti e canori; addio frate falcone, ti ringrazio della carità che meco usasti. Addio roccia, che nelle tue viscere mi nascondesti lasciando il demonio schernito. Addio monte santo, il Signore ti benedica, non ci rivedremo più!”. Poi si alzò e con la mano stimmatizzata tracciò un segno di croce e riprese il cammino.
La gente lo attende. La notizia del miracolo delle stim­mate si era diffusa rapidamente. La gente lungo il percorso lo aspettava per vederlo, per toccargli la tonaca e baciargli le mani e i piedi. Il viaggio durò alcuni giorni perché il Santo era molto debole ed era costretto a fermarsi spesso. Fu per Francesco un vero trionfo!
Giunse ad Assisi. Giunto ad Assisi, i frati si impres­sionarono del suo stato di salute. La piaga del petto non cessava di sanguinare. Le mani e i piedi erano doloranti.
La congiuntivite gli bruciava gli occhi e il mal di stomaco lo faceva contorcere dal dolore.
Tutto il suo corpo era martoriato.
Accolto da Chiara. Dietro le amorose insistenze di Chiara, Francesco accettò di recarsi a S. Damiano. Le suore gli prepararono una capanna di frasche, costruita nell’orto del monastero, dove poteva pregare e riposarsi tranquillamente. Il silenzio era rotto solo dal salmodiare delle suore e dal canto degli uccelli. Ma la sofferenza non accennava a diminuire.
Tormentato dai topi. Ai mali fisici, si aggiunse la pre­senza di una moltitudine di topi che durante la notte scorrazzavano nella capanna e gli correvano fino sul viso, togliendogli il respiro. Il suo rispetto verso ogni creatura gli impediva di opporsi ad ogni loro mossa; per questo essi ne approfittavano e lo tormentavano impuniti e indisturbati.
Il cantico delle creature. Un mattino, il dolore di Francesco divenne lancinante. Le suore, pre­occupate, temevano di perderlo. Allora si udì una voce: “Francesco, gioisci! Il paradiso è ormai vicino!”. A questo annuncio l’animo del Poverello si riempi di gioia.
E mentre gli uccelli gli volavano attorno e cantavano, allargò le braccia, alzò gli occhi al cielo e intonò un canto nuovo: “Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laudi, la gloria e l’ho­nere et onne benedictione!” Dall’animo di Francesco era sbocciato il “Cantico delle creature”, la prima poesia della lingua italiana: fresca e limpida come la pupilla di un fanciullo.
Quasi cieco. Nel Cantico delle creature sono struggenti le parole di Francesco, ormai quasi del tutto cieco, che continuava ad amare la luce, senza poterla più vedere.
Per Francesco la più bella delle creature, la più amata è il Sole, per la sua luce che lo fa rassomigliare a Dio. Ora Francesco è costretto a rinunciare ad una delle creature a lui più care: la luce. I biografi sono concordi nel ritenere che la sua malattia agli occhi sia stata causata dal pianto continuo sulla Passione di Cristo.
Nel vescovado. La salute di Francesco peggiorava di giorno in giorno. Il vescovo di Assisi, preoccupato, lo volle nel suo palazzo per fargli prestare cure più efficaci.
I medici tentarono di ridargli un po’ di vista: allora unico rimedio era la cauterizzazione delle tempia. Quando furono portati i ferri arroventati, i frati fuggirono terrorizzati; lo stesso Francesco per un istante ebbe paura; poi disse una preghiera: “Frate fuoco, sii benigno con me in questa ora così dolorosa; aiutami per l’amore che ti ho sempre portato.
Pace tra vescovo e podestà. Durante la sua breve permanenza in vescovado, Francesco venne a sapere che tra il vescovo e il pode­stà di Assisi regnava una profonda discordia. Profondamente addolorato, aggiunse al suo “Cantico” una nuova strofa: “Laudato sii mi Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore”. Poi pregò frate Leone di invitare il podestà in vescovado e supplicò i suoi frati a cantare il “Cantico delle creature”. Il vescovo e il podestà ascoltarono commossi e, quasi senza accorger­sene, si trovarono ben presto uno nelle braccia dell’altro.
Lettera ai fedeli. Nella quiete del vescovado, Fran­cesco scrisse una lettera, da inviare a tutti i fedeli. Egli aveva dedicato tutta la vita all’annuncio del Vangelo con l’esempio e la predicazione itinerante. Ora la malattia e il limite umano gli impedivano di avvicinare i fedeli.
Con questa lettera gli veniva offerta la possibilità di raggiungere i luoghi più remoti della terra e di offrire alle persone più lontane le “fragranti Parole di Cristo Signore, che sono Spirito e Vita”.
Il suo testamento. Sentendo avvicinarsi “sorella morte”, Francesco chiamò a se i suoi frati e dettò loro il suo Testamento, cioè le sue ultime volontà, che si possono riassumere in tre punti:
- che i frati si amino tra di loro, come io li ho sempre amati e li amo;
- che i frati osservino e amino sempre “nostra signora santa povertà”;
- che i frati siano sottomessi a tutti e amino i poveri e i sofferenti.
Dal medico di fiducia. Un giorno, Francesco invitò il suo medico curante di dirgli la verità e di non ingannarlo: “Fratello, che cosa dici della mia salute?”. Gli rispose il medico: “La tua malattia ormai è incurabile: ti restano pochi giorni di vita!”. Francesco lo ringraziò sinceramente ed esclamò: “Ben venga sorella morte!”. Pregò i suoi frati di non piangere, ma di gioire con lui e di ringraziare il Signore.
L’ultimo saluto alla sua città. Giunti a metà della strada, Francesco fece cenno ai suoi frati di fermarsi e li pregò di voltarlo in modo da potere guardare la sua città.
Assisi era tutta davanti a lui con le sue mura e le sue torri, le sue vie in salita e le sue case di pietra rosa. Il Poverello, con grande fatica alzò le braccia e, con un filo di voce, disse: “Il signore ti benedica, o mia città diletta; in te molte anime si salve­ranno. Tra le tue mura abiteranno molti servi di Dio, e in te molti saranno eletti per il regno dei cieli!”. Poi il corteo riprese, mestamente, il suo cammino.
Nudo sulla terra nuda. Gli ultimi istanti della vita di Francesco furono di una bellezza radiosa. Giunto alla Porziuncola, appena si accorse che la sua fine ormai era immediata, si fece stendere nudo sulla terra nuda; quindi, con voce flebile, intonò il salmo 141:
“Al Signore innalzo l’anima mia!”. A frate Elia, che lo invitava a non cantare:
“Non è dignitoso che un padre di tanti figli muoia cantando!”, rispose: “Lascia, o fratello, che io canti di gioia, perché stanno crollando le mura che tengono prigioniero il mio spirito!”.
Sorella morte. I frati, inginocchiati accanto al loro padre, proseguirono il canto fra i singhiozzi. Il cielo era sereno e l’ora era tiepida come in una giornata di primavera. Mentre il canto del salmo volgeva al termine, nell’umile celletta coperta di frasche, Francesco alzò lentamente le mani e con voce esilissima, completò il “Cantico delle creature” con parole nuove: “Laudato sii, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scappare”.
Volo delle allodole. Uno stuolo di allodole, volando lentamente a ruota, accorsero e si posarono sulla capanna per dare l’estremo saluto all’amico che tante volte aveva invitato loro a gareggiare per lodare “l’altissimo, onnipo­tente bon “Signore”. Piacque a Dio che questi uccelletti, che tanto amava, mostrassero a modo loro, al “giullare”, un segno di affetto nell’ora della sua morte (FF 1813;3 Cel. 32).


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